Non si vive di soli videogames…
Chi mi conosce, sa bene due cose del sottoscritto: ho passato buona parte della mia vita con un pad in mano, oppure l’ho passata suonando e studiando compulsivamente musica. Sono passato in mezzo al punk, al metal, passando per il funky per poi scoprire in tarda età l’amore per i sintetizzatori con i suoi suoni ruvidi ma onirici grazie ad ogni possibile evoluzione della sinusoide.
Ho abbandonato la musica “suonata” qualche anno fa, poco prima di iniziare questa fantastica avventura chiamata Gamesoul, ma di recente mi sono riavvicinato in un certo senso alla musica, passando in mezzo ai sequencer e scoprendo per altro l’amore per la chipmusic tanto per restare in tema videogames.
Nell’attesa di poter risvegliare dal suo sonno latente Muzik.it, grazie a questa edizione “Extra” dell’Angolo del Neko, vorrei spendere qualche carattere per parlarvi di Random Access Memories, il nuovo album dei Daft Punk. A tre anni di distanza dall’OST di Tron:Legacy (escludendo dunque Legacy R3C0NF1GUR3D del 2011), il duo parigino è tornato prepotentemente sulla scena mondiale, lo scorso 17 Maggio per poi arrivare ufficialmente in Italia soltanto qualche giorno più tardi. Random Access Memories è il frutto del lavoro dei polistrumentisti Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter, durato per ben due anni e mezzo tra Los Angeles e Parigi, complice anche la stesura della già citata OST di Tron.
Il nuovo disco dei Daft Punk è la sintesi di un percorso artistico iniziato nel 2006 con Musique Vol 1, dove il duo parigino si era esibito in uno degli esempi più aulici del French Touch mischiando, in un melting pot di electro e house, quel tocco di classe funky che lasciava intuire, che l’amore per la musica suonata, avrebbe un giorno fatto accantonare ai Daft i campioni digitali e l’elettronica, per avventurarsi prima o poi nel calore del suono analogico che avrebbe permesso al duo di trovare una dimensione inedita ma decisamente travolgente.
Non a caso Random Access Memories suona come avrebbe suonato un album degli anni ’70, con un linguaggio tipico della disco dell’epoca e che si rifà in alcuni tratti alla musica di quel mostro Sacro, chiamato Giovanni Giorgio Moroder da cui il duo parigino ha da sempre tratto dichiaratamente ispirazione e che presenzia nell’album dando il suo tocco di classe. L’apertura del disco con Give Life Back to Music lascia intuire la caratura del disco già nei suoi primi venti secondi, dove Bangalter e Christo mettono da subito in chiaro che la struttura del disco sarà profondamente diversa, rispetto a quanto abbiamo potuto ascoltare negli anni. A pensarci bene, la discografia dei Daft Punk è un vero e proprio percorso fatto di contaminazioni, gusti e tecnicismi ma questa volta Bangalter può esprimere il suo virtuosismo come chitarrista, come non aveva mai potuto fare prima, forte del calore del suono analogico e delle nuove sonorità del gruppo.
The Game of Love è un’ottima sintesi dell’intero lavoro: atmosfere Seventies e vocoder, senza dimenticare il passato ma mettendoci il gusto e la tecnica, abbandonando i suoni acidi che ritroveremo soltanto in chiusura con Contact, sporcando il suono con il soul e il funky. La formazione classica di Guy-Manuel Christo si fa sentire in Within, uno dei pezzi più delicati dell’intero album che ricorda la dolcezza di Something About Us, andando però a contaminarsi con il pop e il jazz piuttosto che con la dance più sfrenata, dimostrandoci come un vocoder possa essere un inaspettato vettore di delicatezza.
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Daft Punk – Get Lucky 8 Bit
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All’interno del disco, c’è anche un pezzo alla Strokes e non a caso, Julian Casablancas è stato chiamato per interpretare Instant Crush, seguito poi da Pharrel Williams nella sua prima apparizione in Lose Yourself to Dance, il brano più semplice del disco, che ci porta ad apprezzare il featuring dalle sonorità cinematografiche di Touch, grazie alla presenza di Paul Williams. Arriviamo poi a Get Lucky… il pezzo lo conoscerete a memoria grazie ad un primo leak su You Tube e alla sua forte presenza nelle radio nazionali ma è giusto sottolineare la presenza alla chitarra di Nile Rodgers, l’uomo che suonò come turnista per Aretha Franklin in gioventù e che salvò poi i Duran Duran nelle vesti di produttore all’epoca di Notorius.
La chiusura dell’album diventa meno intima e più allegra, grazie a Fragments of Time, che vede la collaborazione con Todd Edwards ed è per i Daft Punk un’istantanea dell’intera esperienza negli Henson Studios: Il sole della California, il calore dell’analogico e la voglia di vivere un momento che possa durare in eterno. Arriviamo poi a Doin’ it Right che vede la collaborazione di Panda Bear degli Animal Collective, per uno dei pezzi che sarà sicuramente caro agli amanti dei suoni più eletronici e minimalisti. Chiude poi il disco Contact, un pezzo melodicamente scarno se paragonato al resto dell’album, ma che mette bene in evidenza una contaminazione rock per quanto riguarda la batteria, mentre il basso cresce per sostenere il synth nello special che ci lancia poi, verso un finale che esalta al meglio la chitarra di Bangalter. Se foste alla ricerca di un disco registrato e suonato alla buona e vecchia maniera, allora resterete folgorati dallo “nuovo” stile dei Daft Punk, fatto di un gusto vintage ma che riesce comunque ad essere coerente con i lavori precedenti del duo parigino. Alla faccia di Melody Maker, ancora una volta.
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Le opinioni espresse in questo articolo non rappresentano in alcun modo il pensiero della redazione di GameSoul.it e sono frutto della “stressante” vita da blogger del gatto della redazione, che come ben saprete si porta sempre appresso la maschera del duo parigino, per non mostrare più il suo volto nelle fotografie.
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