Cyberspazio, un termine coniato dallo scrittore di fantascienza William Gibson a metà anni ’80 nei suoi Neuromancer e Count Zero, indica un universo parallelo creato e alimentato da reti globali di computer per scambio di informazioni,conoscenze,segreti, suoni, luci, passioni e crimini al quale ognuno di noi può accedere simultaneamente attraverso terminali in qualunque parte del globo si trovi, un mondo in cui barriere fisiche e politiche sono dissolte dall’eterea corsa degli elettroni lungo fili di luce per andare a comporre qualcosa di assolutamente mitico e inconsistente, quanto drammaticamente reale.
Karl Popper, filosofo del XX secolo nel 1972 tracciò la sua visione del mondo, dividendolo in tre mondi interconnessi fra loro: Mondo 1, il luogo della materia e degli oggetti naturali con le loro proprietà fisiche, Mondo 2 dove risiede la coscienza soggettiva con le sensazioni, i pensieri, i sogni, le memorie nelle menti degli individui e Mondo 3, il mondo delle strutture oggettive, prodotti non necessariamente intenzionali delle menti viventi, ma puri insiemi di informazioni come forme di organizzazione sociale o schemi di comunicazione che possono evolvere esattamente come le strutture fisiche, come testimonia ad esempio la continua evoluzione del sistema Legale, della Scienza, della Medicina, dell’Arte, strutture che di fatto hanno riflessi nei Mondi 1 e 2, guidandone gli effetti.
Attraverso il cyberspazio l’essere fisico di Mondo 1 andava ad esplorare direttamente le componenti di Mondo 3 accelerandone o modificandone la crescita senza più confini di di spazio o di tempo.
Cyberspazio, una parola coniata per la fantascienza che dopo trenta anni è invece una forma di realtà tangibile nella quale noi esseri di mondo 1 entriamo in contatto quotidianamente, attraverso i social networks, i media, le biblioteche e i videogames on line.
Lo facciamo accedendovi attraverso computer, tablet, smartphone, console pur rimanendo ancorati al nostro mondo fisico, impossibilitati dal corpo possiamo solo navigare e non nuotare nel mare del cyberspazio.
Agli inizi del 1990 in un momento di grande espansione per l’informatica di consumo, la tecnologia rivolse lo sguardo verso uno dei brevetti lasciati da Hugo Gernsback, scrittore e padre del termine “Science-fiction” (Fantascienza), l’Isolator (1963): un dispositivo a forma di casco che avrebbe dovuto filtrare le distrazioni dal mondo per aumentare il pensiero puro dell’individuo, ma soprattutto verso il lavoro dello scienziato Ivan Sutherland, pioniere di internet e dell’ipertesto che nel 1968 aveva costruito lo Sketchpad, il primo dispositivo per la realtà virtuale, un timido tentativo di creare quel mezzo di comunicazione/comunione fra il nostro Mondo e il cyberspazio.
Montando un paio di piccoli monitor con un appropriato dispositivo ottico direttamente sulla testa, sarebbe stato possibile formare un’immagine stereoscopica (3D) davanti agli occhi dell’operatore. Questa immagine costantemente aggiornata e messa a punto da un computer per rispondere ai movimenti della testa, avrebbe circondato completamente l’utente tuffandolo in un mondo visuale stabile e tridimensionale.
Questo mondo poteva essere generato direttamente dal computer in tempo reale, e quindi divenire esso stesso un luogo astratto, oppure esistere fisicamente altrove ed essere video ripreso, creando un sottoprodotto della realtà virtuale: la telepresenza. Munendo la persona di device aggiuntivi, come guanti (data gloves) o tute (data suite) collegati a dispositivi sensoriali di movimento, di posizione e di sensazione avrebbero permesso alla persona di muoversi nell’ambiente e trasmettere ad altri interconnessi in questo ambiente una propria rappresentazione digitale: un Avatar.
L’eccitazione di fronte a queste enormi possibilità tecnologiche lievitò in poco tempo come un soufflé: locali londinesi come il celebre Cyberseed Club di Covent Garden, una sorta di paradiso dei computer di fine secolo, per una sterlina al minuto faceva sprofondare il cliente, elmetto in testa e guanto alla mano, in 360° di risibile paesaggio poligonale e software house più o meno serie acquisirono i diritti di alcuni videogiochi, come Doom, per cercarne un’ impossibile trasposizione, ottenendo spesso solo un mediocre 3D e mentre il mondo del Cinema contribuiva a far gonfiare il soufflé, con pellicole di scarso valore come Lawnmower Man (1992) di Brett Leonard che oltre a bruciare gli otto milioni e mezzo
di budget per sei minuti di computer grafica da luna park conquistò una condanna per la causa che Stephen King intentò verso il produttore per aver stravolto il suo breve racconto, o di grande respiro come Johnny Mnemonic del 1995, l’utente finale si rendeva sempre più conto che la realtà virtuale era sempre più virtuale per costi e applicazioni, oltre a non possedere la tecnologia necessaria per renderla virtualmente “reale”.
Lentamente il soufflé si sgonfiò miseramente. La realtà virtuale rimase relegata a fenomeno da congresso o fiera e abbondantemente chiamata in causa da Hollywood in film di fantascienza come Matrix (1999), dove per dare l’idea di realtà virtuale venivano usati effetti speciali comuni o di computer grafica finendo per produrre il paradosso di simulare ciò che simulava una nuova realtà. Gli studi su questa tecnologia vennero riassorbiti e probabilmente tornarono ai laboratori per applicazioni non pubbliche, in attesa di tempi migliori. Per altri tredici lunghi anni, per il semplice cittadino, il casco VR è rimasto appeso al chiodo.
Agli inizi del 2012, un ragazzo statunitense poco più che ventenne ha un sogno. Investe tutti i suoi risparmi per acquistare qui e lì tutte quelle scorie tecnologiche targate VR dimenticate nei depositi di qualche rigattiere o nei magazzini delle sale gioco e le porta nel più classico dei laboratori dove ogni bravo americano si racconta la favola del “sogno americano”: il proprio garage. Palmer Luckey non è uno sprovveduto, appassionato di elettronica, di fantascienza, di viaggi nel tempo e con il mito di Nikola Tesla (ingegnere elettronico, fisico ed inventore serbo) desidera sin da quando aveva sedici anni di poter veramente oltrepassare quella barriera fisica che negli anni ’90, a prezzo di costosissime attrezzature era solo stata scalfita.
Palmer non inventa nulla, semplicemente ridisegna il tutto, elimina da quelle pesanti cariatidi tutto il superfluo, sostituisce circuiti, implementa programmi, migliora i sensori e utilizza il cyberspazio bidimensionale per parlare al mondo. Attraverso il celebre sito Kickstarter (sito internet che permette di ricercare fondi per i proprio progetti) annuncia i propri successi e le proprie intenzioni e la cifra di cui ha bisogno per continuare la sua ricerca: 250.000 dollari. In poche settimane raggiunge donazioni per 2.400.000 dollari e l’interesse di molte software house, come Valve e direttamente di John Carmack, il creatore di Doom. Nasce l’ Oculus Rift.
Oculus Rift si basa sui principi del passato, ma non ne è prigioniero. Semplicissimo da gestire si interfaccia ad un semplice pc e grazie alla compatibilità con moltissimi videogames già in commercio ( un’apposita patch scaricabile), fa strappare veramente all’utente quel velo che da anni si era sempre cercato di fendere (Rift=fenditura).
Il leggerissimo Oculus è costituito da due display da 7″ che vanno a costituire la visione stereoscopica, annulla la “latenza” ovvero il ritardo fra il movimento nel reale e l’azione nel virtuale, di cui le precedenti pesanti attrezzature soffrivano e permette un ampio raggio di movimento visuale ( H90° x V110° per occhio) che finalmente permette di vivere in un ambiente fino ad ora solo visto dalla finestra attraverso esperimenti (mal riusciti) del 3D classico.
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Oculus Rift sarà disponibile per il grande pubblico alla fine del 2014, il costo non è altissimo (il kit di progettazione è sui 250 dollari) e molte grandi aziende come Microsoft sono pronte a sostenere questo incredibile mezzo (unendolo a device come Kinect), mentre software house come la Roberts Space Industries di Chris Roberts, il creatore di Wing Commander stanno già progettando il loro Starcitizen in funzione di questo nuovo mezzo; e a conferma che l’innovazione di Palmer non è solo un fuoco di paglia c’è il fatto che anche il “lato oscuro” si sta muovendo: sono già pronti progetti di software erotico/ludico come Wiked Paradise che promettono a chi interessa il genere divertimenti insperati.
Il sipario, dunque, è strappato e grazie a Palmer Luckey e alla sua intraprendente genialità ben presto riusciremo a vivere in prima persona quello che fino ad ora era solo nei nostri sogni…o nei nostri incubi.
L’Oculus Rift e l’Oculus Room al Vigamus – Approfondimento
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Gianluigi “Darkman” Fedeli
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