Los Angeles – Shinji Mikami è uno di quei personaggi con cui, almeno una volta della vita, una bella chiacchierata la vorresti fare. Un giovanotto di 48 anni che ne dimostra una buona decina in meno e un sorriso smagliante in una faccia da bravo ragazzo: a vederlo da vicino, nessuno potrebbe anche solo lontanamente immaginare di essere di fronte ad uno dei creatori del survival horror. Ad uno che con il terrore non solo ci è campato, ma in 24 anni di onorata carriera ha saputo plasmarlo, trasformarlo, evolverlo a nuove dimensioni. Non è un caso se nel palmares di Mikami troviamo titoli come Resident Evil (1, 2, 3, 4, Code Veronica e un paio d’altri), Dino Crisis o Shadow of the Damned. Ah sì, c’è pure The Evil Within. Complice (come oramai avrete capito) una passione viscerale per il genere horror, difficile avvicinarsi al booth di Bethesda senza sentire il battito del proprio cuore in gola: con The Evil Within, infatti, il Maestro ha promesso un ritorno all’horror primordiale più puro, a quel terrore grandguignolesco che tormentava le console dei giocatori più attempati. Ma nella ricetta della paura non c’è solo il gore: c’è l’ansia, il tormento, la destabilizzazione delle certezze del giocatore che finisce per trovarsi inerme e spaesato in una Wonderland del terrore da cui è impossibile (o quasi) uscire senza qualche ferita. Ma bando alle ciance, e vediamo cosa ci ha riservato il Maestro in questo attesissimo hands on: abbassate le luci e, prima di leggere, date un’occhiata sotto al letto. Non si sa mai.
La cosa più curiosa della nostra prova odierna accade durante la veloce presentazione del titolo, quando il lead designer di Tango Games – dopo l’immancabile introduzione di rito – elargisce una manciata di consigli utili per affrontare al meglio la demo. E vi assicuro: è tutto tranne che confortante. Se vogliamo raggiungere la fine sarà fondamentale muoversi in silenzio e con molta calma, cercando di annullare ogni eventuale segnale della nostra presenza. Il che, direte, è la cosa più normale per un survival horror. E ok, avreste anche ragione: non fosse che la penuria totale di munizioni obbliga il giocatore a centellinare ogni singolo proiettile. Altra cosa da tenere a mente è il reload delle armi da fuoco, tutto tranne che veloce (sarà possibile ridurre questo intervallo expando il personaggio) e potenzialmente critico, visto che ci lascerà totalmente esposti all’attacco avversario. Meglio usare un’arma melee, non fosse che i mostriciattoli sono particolarmente aggressivi e alle volte meglio armati di noi. Ma non è tutto: disseminate qua e là potrete incontrare trappole letali, bombe e altri simpatici orpelli capaci di trasformarci in cadaveri ambulanti in un battere di ciglia. Potremo ovviamente disattivarle o eluderle camminando sulle ginocchia, ma prima dovremo stanarle: e in un universo dalle tinte dark zeppo di rumori insidiosi, di voci isteriche che corrono dietro le pareti e di ombre fugaci che appaiono e scompaiono sui muri, questa è una di quelle cose facile soltanto a parole. Vi sembra abbastanza? No, anche il solo aprire una porta ci renderà dei bocconcini invitanti per i nostri affamati inseguitori: è possibile aprire rapidamente le porte con un calcio ben assestato, ma consiglio questa procedura soltanto nei casi in cui sarete messi alle strette da una manciata di inseguitori. Un’evenienza nemmeno così rara.
Mi avvicino dunque alla postazione Xbox One con un mix di ansia e rassegnazione al trapasso tipica del condannato a morte. Nemmeno il tempo di prendere il pad in mano che uno sviluppatore di Bethesda mi si avvicina, mi chiede se ho esperienza con i survival horror e, ancor prima della mia risposta, dice: “Non è importate, se la vedi male inizia a correre senza voltarti“. Grazie amico, ora mi hai tranquillizzato davvero. Un respiro profondo e via, sono pronto ad affrontare questo survival/psycho/scare/puzzle horror – in una stanza rigorosamente buia come la notte dove, per qualche secondo, la cosa più confortante è lo sguardo di un collega della stampa americana che sembra quasi dire “coraggio, è quasi finita“. Il tutorial, ovviamente, non è presente: ci si trova subito nel vivo dell’azione, precisamente nel mezzo dell’ottavo capitolo della storia che, tanto per rimarcare gli intenti, risponde al nome di The Cruelest Intentions. Le intenzioni peggiori. Nei panni del detective Sebastian Castellanos ci muoviamo verso un’enorme struttura abbandonata, una casa nobile di un paio di centinaia d’anni avvolta nella nebbia e nella brughiera più oscura. Le uniche presenza “vive” sono una sorta di infermiere, insensibile ai nostri richiami, che trascina di peso un misterioso individuo vistosamente ferito. Senza sapere perché ci lanciamo all’inseguimento della coppia, che si lascia però alle spalle un enorme porta. Eccoci dunque soli nel cuore della tempesta, in un atrio tutto tranne che confortevole e, cosa peggiore, nemmeno tanto silenzioso. Peccato che, a parte noi, non si vede anima viva.
Con ben cinque proiettili nella pistola e la fedele lanterna ancorata nella mano sinistra mi muovo lungo i corridoi dell’edificio, identificando rapidamente quali siano gli obiettivi per progredire: trovare due pezzi di una cassaforte, aprire la cassaforte – che in realtà nasconde un passaggio ad una zona inaccessibile e procedere a passi spediti e testa bassa, sperando di trovare accoglienza migliore una volta di là. Tranquilli, la realtà dei fatti è stata ben diversa. Non bastassero le varie trappole di cui vi parlavo qualche riga sopra (penso di non averne mancata una, tanto ero impegnato a guardarmi attorno per colpa di un dannatissimo rumore di passi e annesse urla), trovarsi con un proiettile in canna e quattro nemici armati di accetta e coltello apparsi da dietro l’angolo, oltre a far perdere qualche anno di vita, si è tradotto nel primo game over di una lunga serie. E ok che il livello di difficoltà era settato a Difficile (per deformazione personale, Facile non esiste, Normale è per i paurosi, Difficile è la scelta giusta), ma morire dopo nemmeno cinque minuti di gioco è stato un duro colpo. Ad onor del vero, era disponibile anche una modalità Akumu, in cui ho preferito non affrontarmi per ovvi motivi. Tutto questo per dire che, oltre che abile nello spaventare, The Evil Within non è affatto facile: già a livello Normale il coefficiente di sfida proposto vira pericolosamente verso l’alto, per impennarsi in modo decisivo per i temerari (come chi vi scrive) che optano per le difficoltà maggiori. Una decisione che ho rimpianto nella MIA parte finale della demo, quando dopo esser sopravvissuto all’attacco di zombie disparati, sfuggito alle grinfie di un enorme macellaio armato di sega elettrica e, incredibile ma vero, dopo aver perlustrato in lungo e in largo gran parte dello scenario con soltanto un proiettile e un medikit, mi sono imbattuto nella piacevole figura di RE-bone Laura, una fanciulla dotata di 8 arti capace di muoversi come un ragno e dotata di una forza sovrumana quando si tratta di schiacciare Sebastian al suolo. La sequenza che prelude al mio ultimo game over, dopo circa 40 minuti di gioco ad alto battito cardiaco, è oggettivamente un piccolo capolavoro del terrore: un corridoio lunghissimo, una porta salvifica che si chiude lentamente come una saracinesca a qualche miglio di distanza e una ragazza mostro veloce come Bolt che fa di tutto per impedirmi di raggiungerla. Com’è andata a finire? Beh, sappiate che l’ultima cosa che ho visto prima di uscire dal booth Bethesda con le gambe tremanti è stato il colore del mio sangue al suolo.
Tachicardia, battito irregolare, respiro corto e pelle d’oca su tutto il corpo: difficile trovare modo migliore per descrivere la prova odierna di The Evil Within. La nuova creatura di Mikami è una dichiarazione d’amore all’orrore incontaminato, un ritorno alle radici del male che abbandona inutili orpelli per colpire dritto nel centro, per insinuarsi sotto la pelle del giocatore e gelarne il sangue nelle vene. Poco importa un comparto grafico interessante (davvero ottimo l’utilizzo del filtro film grain per trasmettere quel senso di sporco e mallato che caratterizza il titolo) ma chiaramente meno impressionante di altre triple A. La natura cross generation del titolo porta non si tradisce, poco da fare. Il target primario di Mikami in questo E3 era spaventarci nuovamente, e con la demo di oggi il designer nipponico può tranquillamente dichiarare compiuta la missione. Allontanandoci dal booth di Bethesda, rincuorati dal trovarci nuovamente in mezzo a persone normali e non a mostri assetati di sangue, l’unico dubbio che martella i pensieri è: riuscirà davvero The Evil Within a toglierci il fiato per tutta la durata dell’avventura, o al contrario si esaurirà in una prolungata camminata al buio intervallata da qualche scossone potente come quello odierno? Di certo, oggi è ancora presto per dirlo: e scusate la fretta, ma ho come l’impressione che qualcuno – o qualcosa – mi stia seguendo.
ARVE Error: id and provider shortcodes attributes are mandatory for old shortcodes. It is recommended to switch to new shortcodes that need only url
Commenti