News 03 Mag 2015

Broken Age: The Complete Adventure – Recensione

Il fenomeno del crowdfunding nel mondo dei videogiochi è oramai esploso, e tra casi eclatanti e disastrosi fallimenti, quella di Kickstarter sembra essere oggi una delle soluzioni più adottate dai team indipendenti. Chiunque abbia un’idea o un progetto chiaro in mente può chiedere al vasto popolo dell’internet aiuto per realizzare la propria visione, il proprio sogno e, soprattutto, le fantasie di chi per primo decide di mettere i propri soldi sul piatto. Una scommessa per entrambe le parti, e Double Fine è stata la prima a cogliere questa grandiosa opportunità, ma anche la prima a rendersi conto che il crowdfunding può essere un’arma a doppio taglio, e bisogna capire come destreggiarsi per non sperperare soldi a destra e a manca.

Tim Schafer, storica figura della defunta LucasArts, è riuscito quindi a dare vita a Broken Age, un’avventura grafica a cavallo tra passato e presente, interamente finanziata dagli appassionati. Ma i problemi di sviluppo e difficoltà nella gestione del budget hanno portato il team a dover dividere il progetto in due “Atti” distinti: a distanza di un anno, Broken Age è finalmente giocabile nella sua interezza, sia su PC che su Playstation 4, PS Vita, iOS e Android. Sarà valsa la pena aspettare tutto questo tempo?

Broken Age

Piattaforma: PS4, PS Vita, PC, iOS, Android

Genere: Avventura grafica

Sviluppatore: Double Fine

Publisher: Double Fine/Nordic Games

Giocatori: 1

Online: Assente

Lingua: Audio in inglese, Testi in italiano

Versione Testata: PS4

Le avventure grafiche nel corso del tempo sono state proposte in svariate declinazioni, a tal punto da riferirsi a questo genere con la definizione “racconti interattivi”. Ma il buon Tim Schafer non voleva creare qualcosa di nuovo, voleva bensì riscoprire il genere che ha fatto la sua fortuna senza rinunciare alle possibilità offerte dalla tecnologia moderna. Broken Age si articola infatti in un modo abbastanza classico, tra dialoghi ed una serie di puzzle da risolvere tramite l’utilizzo di oggetti. Dove cerca di differenziarsi è piuttosto nella narrazione, che offre due punti di vista differenti su realtà altrettanto distanti tra loro. Vella e Shay, due giovani adolescenti, sono accomunati dalla voglia di rompere gli schemi, di voler crescere per trovare la propria dimensione, liberandosi da costrizioni spesso senza senso. Una sorta di viaggio di formazione, in un certo senso, privo dello spessore necessario per colpire i sentimenti del giocatore in modo costruttivo, ma che resta tutto sommato godibile nella sua interezza.

Sì, perché i personaggi e il mondo di gioco creato da Tim Schafer soffrono indubbiamente di una mancanza di spessore, quello necessario a far sì che una storia riesca a rimanerti dentro anche a console spenta. Il pregio più grande resta la qualità della scrittura e l’umorismo intelligente che permea ogni dialogo: lo storico game designer non avrà più lo smalto di un tempo, ma il tocco magico per offrire al giocatore personaggi esilaranti e dialoghi sempre freschi non è stato scalfito. 

Vai al cinema, carico di aspettative, e il film che desideravi di vedere da tempo è lì, proiettato di fronte ai tuoi occhi. Eppure manca qualcosa, hai dimenticato gli occhiali, soffri di miopia e sei nell’ultima fila. Cosa c’entra? Be’, il film è comunque bello, ma era sfocato e ti sei perso per strada qualche particolare

Falegnami hipster, alberi parlanti e un’altra miriade di personaggi bizzarri fanno da collante per le avventure di Vella e Shay, e si pongono a tutti gli effetti come uno degli elementi caratterizzanti e meglio riusciti dell’intera opera.
Questo perché, nonostante le ottime premesse del primo atto, Broken Age tende a perdere fascino nella seconda metà dell’avventura, mettendo sul piatto troppi elementi e finendo per non approfondirne nemmeno uno. Per un titolo fortemente incentrato sull’elemento narrativo questo potrebbe essere considerato un difetto gravissimo, ma non sarebbe corretto screditare nella sua interezza un’avventura che ci ha comunque saputo divertire ed intrattenere in modo genuino. Certo è che le ambizioni del buon Tim sono probabilmente la causa stessa del parziale fallimento di Broken Age: per quanto ricca possa essere la tua visione, è importante porsi dei paletti. Una regola semplice ma spesso difficile da mettere in atto.

Vai al cinema, carico di aspettative, e il film che desideravi di vedere da tempo è lì, proiettato di fronte ai tuoi occhi. Eppure manca qualcosa, hai dimenticato gli occhiali, soffri di miopia e sei nell’ultima fila. Cosa c’entra? Be’, il film è comunque bello, ma era sfocato e ti sei perso per strada qualche particolare. Broken Age è tutto questo, con la sola differenza che anche con gli occhiali indosso il risultato non cambia. Peccato.

Jack Black che impersona un santone. Eccezionale.

Da che mondo e mondo, non c’è “avventura grafica” senza puzzle. Che si tratti di una gara di sputi o di scontri con scimmie, i puzzle sono uno degli elementi cardine del genere e deliziano (e alle volte infastidiscono, ndr) i giocatori da tempi immemori. Broken Age non è da meno, e pone per tutta la sua durata una serie di ostacoli piuttosto interessanti, spesso legati all’utilizzo in determinate circostanze di vari oggetti. Vista la suddivisione in due atti dovuta ai problemi di sviluppo, il titolo si spacca in due per quanto concerne il livello di sfida e il design dei puzzle, che nella seconda metà fa a meno di oggetti vari e ci mette di fronte a dei veri e propri rompicapo, tra follia e un pizzico di intuito. Proprio per questo motivo, la prima metà si differenzia dalla seconda per la difficoltà con cui si prosegue in quest’ultima, tempestata com’è di ostacoli.

Provando a fare la voce grossa, Double Fine ha soffocato in modo inspiegabile la narrazione, soprattutto nel finale, che si ritrova stretta tra una serie di puzzle di cui avremmo fatto volentieri a meno

Da un lato la prima parte dell’avventura, nonostante piuttosto facile, riusciva a stuzzicare e ad intrattenere nei giusti tempi, senza tediare il giocatore con inspiegabili e discutibili scelte di design. Non siamo contro i giochi difficili, ma come molti di voi sapranno per esserlo bisogna anche ricercare un equilibrio che permetta con i giusti mezzi di superare un ostacolo. La seconda parte di Broken Age non fa nulla di tutto ciò, ma pesca a piene mani tra tutti gli elementi che abbiamo odiato nelle avventure grafiche di una volta: il “pixel hunting” negli scenari, e l’illogicità di alcuni puzzle. Ci ritroveremo infatti alle prese con una serie di interazioni ambientali poco chiare e soprattutto non concepite per essere risolte con il puro ragionamento, ma piuttosto con una serie di disperati e folli tentativi.

Fili, simboli poco chiari e l’eccessivo backtracking richiesto in alcuni frangenti rendono la seconda metà di Broken Age una vera spina nel fianco, che vanifica quanto di buono fatto precedentemente, nel tentativo forzato di offrire una sfida “hardcore” agli appassionati del genere. Provando a fare la voce grossa, Double Fine ha soffocato in modo inspiegabile la narrazione, soprattutto nel finale, che si ritrova stretta tra una serie di puzzle di cui avremmo fatto volentieri a meno.

Quando si raggiunge la fine del gioco e ci si imbatte in un bug che vi impedisce di vedere il finale poi, risulta chiaro che ci troviamo di fronte ad un prodotto che ha sofferto soprattutto in fase di design, con un Tim Schafer forse troppo preso dalla propria ambizione per riuscire riordinare la confusa matassa.

Dove il titolo di Double Fine è inattaccabile è invece sul fronte artistico, grazie ad un character design originale ed estremamente bello da vedere. Lo stile del disegnatore Nathan Stapley dona al mondo di gioco, e soprattutto ai suoi personaggi, un carisma senza precedenti. Quando ad accompagnare questi ultimi abbiamo poi dei doppiatori di alto livello (tra le fila figurano anche star come Jack Black e Elijah Wood), il risultato è eccezionale ed inaspettato.

Lo stile del disegnatore Nathan Stapley dona al mondo di gioco, e soprattutto ai suoi personaggi, un carisma senza precedenti

Le musiche di Peter McConnel, che lavorò già ad altri progetti LucasArts, chiudono il cerchio, rendendo il titolo una gioia per gli occhi e per le orecchie. Proprio la capacità di Broken Age di essere bello e ispirato, nella sua interezza, non può che far rammaricare pensando agli altri elementi che lo compongono.

In conclusione…

Qualche volta, o quasi sempre, le aspettative possono insinuarsi in noi e influenzare il nostro pensiero e il nostro metro di giudizio. Alle volte sono proprio queste a distruggere ai nostri occhi un titolo che, seppur buono, non è semplicemente ciò che avevamo immaginato. Broken Age è anche questo, un progetto vittima delle aspettative e del nome altisonante di Tim Schafer, ma è soprattutto un titolo con delle problematiche che ne pregiudicano la godibilità. I limiti della narrazione sono brillantemente offuscati da una scrittura geniale, dove emerge l’estro creativo di Tim  e che permetterà a chi ha amato i suoi precedenti lavori di trovarsi (parzialmente) a casa.

Eppure è il tessuto ludico, fatto di enigmi e puzzle, a far tremare le fondamenta di un progetto comunque onesto e interessante: gli equilibri del primo “atto” vengono rotti da una seconda parte frustrante e qualitativamente discontinua. Broken Age non è assolutamente un brutto gioco, è nient’altro che un’occasione sprecata. Il sogno infranto di poter rivivere il passato in modo diverso, tra nostalgia e novità.

Voto: 7/10

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