È il film del momento, tutti ne parlano e il commento più negativo che potete leggere in giro è niente meno che “È un capolavoro!“: parliamo di Mad Max: Fury Road ovviamente, che ritorna dopo trent’anni con lo stesso geniale regista, George Miller. Ma non siamo più negli anni ’80 e il cinema è cambiato, i ritmi sono cambiati, noi siamo cambiati.
Mad Max si adatta, cambia per essere quello di una volta, ma in una forma che, colpendo lo spettatore con un tirapugni arrugginito, gli inculchi forzatamente i sani principi del metallo. Dovendo descrivere la trama di Mad Max: Fury Road potremmo allegare semplicemente un video di un proiettile sparato nel deserto, ma cercando di essere più descrittivi lo si riassume altrettanto semplicemente: Max (un granitico e a tratti secondario Tom Hardy) e l’imperatrice Furiosa (Charlize Theron, magnifica come sempre) si ritrovano a guidare una cisterna blindata che sfreccia nel deserto con a bordo delle giovani fanciulle da far evadere dalla Cittadella, roccaforte controllata dal malvagio Immortan Joe.
All’inseguimento della blindocisterna si gettano gli alleati di Immortan, signori della guerra del tutto folli, prodotti di una società azzerata in cui il valore supremo è la benzina e soltanto dopo (molto dopo) hanno importanza anche l’acqua e il cibo. Su una struttura narrativa molto semplice si instaura un sistema allegorico tanto potente quanto dettagliato e folle, fatto di elementi apparentemente casuali sopravvissuti all’apocalisse e che hanno trovato una nuova collocazione: ecco quindi che il terrore dei kamikaze odierni è sublimato nella folle volontà suicida dei soldati di Immortan che aspirano ad un Valhalla cromato, in un tripudio di elementi sacri random e nuove ritualità (la simbologia del volante e della cromatura) che si fondono in un unico velocissimo delirio.
Ancora più sorprendente il valore positivo attribuito alla donna, finalmente concreto e non posticcio o forzato, contrapposto (senza pietà e speranza di redenzione) all’uomo: Furiosa, le concubine e le altre donne che non vi sveliamo sono le uniche in grado (anzi, le uniche degne) di custodire i segreti della vita, mentre l’uomo è portatore di distruzione, di malformazioni e perversione.
Tutta questa ricchezza narrativa si instaura su un inferno di metallo e sabbia in quello che è, in fin dei conti, un unico ed epico inseguimento senza fine, così veloce da far male. Vuoi per alcuni momenti in cui il frame è volutamente (ed eccessivamente) velocizzato o per il montaggio (serrato e schizofrenico), ma Mad Max: Fury Road non dà tregua e lascia lo spettatore frastornato. Quando si prova ad assaporare il design dei personaggi e dei veicoli ci si perde in una giungla di estetica punk, dove spicca la fantasia malata di Miller che produce malformazioni, veicoli impossibili e idee impensabili per attaccare i nemici: indimenticabile il palco mobile, un enorme camion con sei tamburi sul retro un epico chitarrista davanti che, forte di un muro di casse e amplificatori, suona una doppia-chitarra-lanciafiamme per annunciare la morte imminente portata dal convoglio di cui fa parte.
Se non dovesse bastarvi la potenza visiva del film (che sfrutta per la fotografia una semplice quanto efficace contrapposizione di colori complementari) o il ritmo serrato, ci pensano i contenuti mai così attuali a fare dell’ultimo film di Miller un capolavoro. Non è forse un caso che la saga torni in un momento simile a quello in cui è nata, un periodo di crisi economica e culturale in cui l’estremizzazione sublima le paure.
Mad Max: Fury Road è un messia cinematografico che torna tra noi dopo trent’anni per ristabilire cos’è il cinema d’azione, come si fa un film post-apocalittico, come si può evitare di abusare della computer grafica (tutti i veicoli sono veri e nella maggior parte delle sequenze gli attori sono reali e non digitali) e infine per scuotere gli spettatori assopiti da un’estetica sempre più standardizzata dalla quale Miller emerge con un deforme sorriso cromato, pronto per il Valhalla.
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