Non dovreste leggere questa recensione su GameSoul. Non dovreste leggerla su nessun sito di videogiochi, perché, semplicemente, mai come nel caso di Everybody’s gone to the rapture la definizione di videogioco sta stretta. Non riduttiva, attenzione, ma stretta. Del resto chi si fosse imbattuto in quel gioiello criptico ed oscuro che risponde al nome di Dear Esther sa di cosa stiamo parlando, ovvero di un’avventura in prima persona nella quale dobbiamo esplorare un’area e, ascoltando i dialoghi che ci vengono proposti, ricostruire gli eventi. Tre anni dopo quindi la formula non è molto cambiata: è semplicemente cresciuta come un arto ipertrofico grazie all’investimento fatto da Sony, che ha intravisto del potenziale nel team e ha fatto di questo Everybody’s gone to the rapture una lussureggiante (dal punto di vista grafico) esclusiva per PlayStation 4. E quando di mezzo c’è Sony, si sa, le cose si fanno in grande.
Stando alla descrizione stessa fornita da The Chinese Room, in Everybody’s gone to the rapture avrete la possibilità di esplorare un’enorme area aperta (che definire open-world fa un po’ male) ormai deserta. Non una singola anima viva, umana o animale, si aggira per le strade di questa bellissima cittadina inglese. Come del resto dice il titolo stesso, sono tutti scomparsi, e a noi spetta il compito di capire (e sottolineo, non scoprire) che fine abbiano fatto. Nei primi minuti di gioco la storia sembra ingranare bene e scopriamo subito molte informazioni: una luce, scaturita da un esperimento in un osservatorio, ha cominciato a diffondersi come un virus, portando le persone a scomparire pian piano nel vuoto. Soluzioni estreme potrebbero essere prese per fermare questa misteriosa forza, ma è meglio non addentrarsi ulteriormente per evitare spoiler.
La luce misteriosa sarà sia la nostra guida che, in un certo senso, l’antagonista (un aspetto questo molto interessante). Sappiamo che è la causa della scomparsa delle persone, ma è anche il nostro unico punto di riferimento nell’esplorazione della città. La luce infatti fluttua nell’aria e si sposta rapidamente indicandoci alcuni punti da raggiungere. In queste aree specifiche si attivano delle scene in cui delle figure antropomorfe fatte di luce parlano tra di loro: ogni dialogo è una briciola di un puzzle più grande e man mano che andremo avanti si creerà un affresco più grande in cui qualcosa comincerà ad aver senso. A noi quindi non sarà richiesto di fare alcunché, se non accendere qualche radio o qualche telefono per ascoltare dei dialoghi, ma il livello di interazione resta pressoché nullo, posizionando il giocatore in un ruolo totalmente passivo di spettatore quasi inerme. Persino l’esplorazione al di fuori del percorso della luce non è incoraggiato, poiché i pochi dialoghi che troverete sono solo di arricchimento e mai determinanti.
In realtà, nessuno dei dialoghi del gioco è poi così importante per i fini della storia: il vostro percorso cambierà punto di vista, concentrando le visioni di luce ogni volta su una persona diversa, ma queste sfaccettature serviranno per conoscere i personaggi e le relazioni che intercorrono tra di loro, lasciando in secondo piano la fine del mondo. Il focus sui personaggi è sicuramente voluto, ma la voglia di scoprire qualcosa in più sulla luce e sulla scomparsa degli abitanti è spesso dilaniante, mentre le relazioni degli abitanti lasciano, grazie anche alla loro banalità, il tempo che trovano.
Si tratta chiaramente di un problema dovuto alla voglia di strafare: laddove Dear Esther proponeva un’unica via percorribile, con un’unica storia che coinvolgeva pochi personaggi, Everybody’s gone to the rapture si perde nelle lande della campagna inglese, tra una miriade di personaggi di cui è difficile spesso ricordare la relazione con gli altri. The Chinese Room mette troppa carne sul fuoco, senza riuscire a cuocere a puntino nessun tema toccato.
La stessa voglia di strafare si riscontra sul profilo tecnico, dove un incredibile CryEngine muove il tutto, spremendo fino all’impossibile la console. Gli ambienti deserti e l’interazione pressoché nulla con gli stessi hanno permesso la creazione di location fotorealistiche, sia negli interni che in esterno. Purtroppo però il prezzo da pagare, nonostante sia tutto immobile, è un frame-rate che spesso crolla vertiginosamente, facendo sentire ancora di più il peso della lentezza del nostro personaggio (che poi un personaggio non è, piuttosto dovremmo chiamarlo “punto di vista”).
Per quanto riguarda la lentezza è doveroso soffermarsi un minimo e spendere due parole da contestualizzare: molti giocatori, me compreso, hanno trovato davvero frustrante la lentezza di Dear Esther. Erano secoli che non capitava di trovare un titolo in cui non si potesse correre, tuttavia in quel caso era possibile chiudere un occhio per diversi motivi, quali la magia degli ambienti da ammirare e soprattutto il fatto che fosse un’opera prima, per altro indie e quindi capace di azzardare con scelte così particolari.
Un’ambientazione enorme come quella di Everybody’s gone to the rapture e una produzione mastodontica come quella di Sony (attenta solitamente a dettagli importanti come la facilità di fruizione di un prodotto, vedi ad esempio la sempre più frequente localizzazione anche dei dialoghi in italiano) non sono riusciti a convincere The Chinese Room a permettere al nostro personaggio/punto di vista di correre. Sembra una sciocchezza, lo so, ma non lo è affatto: è frustrante, è noioso ed è (nel 2015) privo di senso. Probabilmente ci sono delle scelte registiche o tecniche (legate alla pesantezza grafica del gioco) dietro questa lentissima esplorazione, ma la frustrazione suscitata nel giocatore è incalcolabile. Nonostante, come sopracitato, il gioco sia localizzato interamente in italiano, per godere appieno dell’ambientazione così tipicamente inglese è consigliabile il doppiaggio anglosassone, davvero di ottima qualità e decisamente orientato verso uno stampo teatrale che in qualche modo riesce con la sola voce a sopperire alla mancanza dei volti dei personaggi.
In conclusione…
Lo splendido comparto tecnico (che eccelle sia visivamente, che anche dal punto di vista sonoro con il doppiaggio e le evocative musiche), non riesce da solo ovviamente a reggere il peso di una narrazione volutamente sfilacciata, ma priva di senso, fascino e mistero. Pochi momenti magici ed esoterici sparsi per le quattro o cinque ore necessarie per finire il gioco, non sono assolutamente sufficienti per trascinarvi al fondo di questa lentissima avventura. Alla fin fine potremmo dire in effetti che The Chinese Room ha fatto il passo più lungo della gamba con Everybody’s gone to the rapture. Sarà per la prossima volta, magari col tasto per correre.
[Aggiornamento: il tasto per correre pare sia presente, ma non se n’è accorto nessuno, e nella copia review da noi utilizzata non è c’è alcuna traccia dello stesso. Il nostro giudizio rimane comunque invariato, in quanto i problemi del gioco sono altri. Se avremo modo di appurare che tali problemi sono stati enfatizzati da tale mancanza, provvederemo ad aggiornare la nostra recensione. (ndE)]
Commenti