Houston, abbiamo (più di) un problema
Quello del “survival” è un concetto dannatamente abusato al giorno d’oggi nel mondo videoludico. Nella stragrande maggioranza delle uscite, soprattutto quelle PC, è sempre più frequente imbattersi in un’immancabile fattore sopravvivenza tenuto al guinzaglio dalle statistiche del protagonista, dalla sua resistenza al clima, alle malattie, ai bisogni primari come cibo e acqua e alla privazione degli stessi, il tutto da monitorare costantemente, quasi fossimo noi stessi a sentire il morso allo stomaco o il brivido per tutto il corpo. Con la stessa frequenza, capita anche che questa componente sia l’unica ragione d’esistere del gioco al quale appartiene, dove una volta terminato l’effetto sorpresa e la curiosità iniziale, si vaga nell’ennesimo mondo generato proceduralmente tutto uguale, fatto dello stesso ennesimo panorama, e scandito dalle stesse ennesime noiose azioni eseguibili al suo interno. The Solus Project è diverso: qui il focus è sulla narrazione. Sì, c’è uno scopo, oltre alla possibilità di costruire strumenti o alla necessità di dormire e nutrirsi, e tutta l’esperienza ruota attorno ad una trama, che si presenta davvero interessante. Le premesse sono classiche, le abbiamo viste riproposte in tutte le salse più e più volte nei videogiochi, ma anche nei film: è il 2115 e il Sistema Solare è in procinto di essere distrutto inesorabilmente da un pianeta interstellare direzionato verso la Terra, pronto a colpirla neanche fosse una precisa e veloce palla da biliardo. All’umanità non resta altro che far evacuare cittadini, scienziati e soldati, per cercare di donare un futuro ad un manipolo quanto più ampio di superstiti.
Cinque navi di ricognizione vengono spedite verso cinque diversi e lontanissimi pianeti, alla ricerca di una nuova casa. Al loro interno, scienziati perfettamente consci di rischiare la loro vita. Nei panni di uno di loro, apparentemente unico sopravvissuto ad un disastroso (e letale, per l’equipaggio) atterraggio d’emergenza sul pianeta Gliese-6143-C, dovremo esplorare questo territorio ostile in completa solitudine, con lo scopo di ricostruire una torre di comunicazione e mandare una richiesta di aiuto alla colonia nomade dalla quale proveniamo. Della sofisticata attrezzatura trasportata dall’astronave ci è rimasto solo uno strumento che analizza le condizioni del nostro corpo e qualsiasi elemento ambientale con il quale è possibile interagire: dovremo sempre tenere d’occhio la temperatura corporea (influenzata anche dal semplice contatto con l’acqua, dal vento e dalla pioggia), di fattori come fame e sete, della percentuale di ipotermia che ci avvicina pericolosamente alla morte, e di conseguenza alla fine del genere umano. Ma ci dirà anche se il rivolo d’acqua al nostro cospetto è potabile, ci aiuterà a leggere desolanti note sparse dell’equipaggio, cariche di paura e disperazione, e ad interpretare delle pietre con su simboli molto simili a delle lettere, e strani disegni. Sono tracce di forme di vita aliene di passaggio? O forse è casa loro e il termine “benvenuti” non è nel loro vocabolario?
Alla base c’è una teoria sugli alieni, di quelle che i vostri amici “complottari”, adeguatamente e rigorosamente auto-informatisi (mica dai bistrattati “media di regime”, al massimo dalle loro trasmissioni sul paranormale), tirano fuori di continuo nelle discussioni, anche in quelle sul golf. Di quelle strambe, raccontate con la voce tremante ed intrisa di horror vacui e alcool economico, seguite da risate di scherno e pacche accondiscendenti sulle spalle. Eppure, passo dopo passo, cunicolo dopo cunicolo, imponente struttura dopo l’altra, a tremare è un’altra voce, quella del protagonista, che appunta con rigore scientifico le sue scoperte, e dopo ogni incisione, ogni segnale sempre più evidente, la favoletta acquisisce sfaccettature sempre più inquietanti e claustrofobiche come le caverne al di sotto delle isole sulle quali è svolta l’azione, e si trasforma in uno di quei racconti narrati di fronte al fuoco e a un marshmallow liquefatto che hanno tolto il sonno a generazioni di boy scout.
E con un’atmosfera semplicemente pazzesca come quella di The Solus Project, è francamente impossibile non lasciarsi coinvolgere emotivamente, persi tra i detriti della nostra nave (o meglio, di ciò che resta), edifici costruiti chissà da chi o quando, pianeti che ruotano e lasciano a bocca aperta, piante che si chiudono al nostro passaggio, il ciclo giorno/notte, persino la marea, che ci impedirà di proseguire in determinati momenti della giornata. Tutto è costruito minuziosamente per merito, oltre che di un sound design clamoroso (tra rumori sinistri e una colonna sonora siderale e glaciale), del poderoso Unreal Engine 4, che non sempre (e certe texture sono davvero un pugno nell’occhio), ma quando fa ben il suo lavoro regala scorci pazzeschi, livelli labirintici, e un mondo alieno che presenta elementi familiari e li contorce e trasforma in minacce di ogni genere. Ci penserà la strana flora a spaventare il giocatore, mentre a mettere a rischio la sua salute ci penserà la natura stessa: piogge di meteoriti tanto affascinanti da ammirare quanto letali, tifoni devastanti, piogge spettrali che ridurranno drasticamente la temperatura corporea. Come contrastarli? Cercando un riparo improvvisato, ma scordatevi le casupole in legno da costruire farmando materiali come forsennati. Una delle tante caverne presenti, tappe fisse del vostro peregrinare, vi offrirà un rudimentale punto fuoco attorno al quale scaldarvi e dormire più efficacemente (da accendere con una torcia altrettanto rudimentale fatta di rovi e bastoni), tra un barattolo di cibo da aprire con un sasso e una borraccia vuota da riempire grazie ad uno dei tanti rivoletti d’acqua potabile sparsi un po’ ovunque. Punti ristoro fondamentali, soprattutto prima di un’escursione speleologica nelle profondità, a volte, forse, un po’ troppo uguali tra loro, ma tra ricevitori ad hoc e quelle che sembrano proprio candele rituali, e la possibilità di “timbrare” l’avvenuto passaggio proprio come un Pollicino dell’interspazio, sembra quasi una sensatissima e spietata mossa di design.
È tutto molto credibile e curato, in un climax interrotto come da tradizione sul più bello, quando ci viene consegnato l’arrivederci a tra qualche settimana, complice la struttura episodica che ci accompagnerà fino a maggio. Le circa 4 ore di gioco proposte da The Solus Project, al momento, ci hanno permesso di esplorare la prima isola, seguendo una progressione molto rigida, ma non per questo avara di scorciatoie, zone segrete (custodi di artefatti alieni con i quali migliorare permanentemente le statistiche del protagonista), lasciando ben sperare per ciò che troveremo nelle altre quattro isole e al di sotto della loro superficie. Pochissimi gli enigmi, quasi tutti ambientali e “grezzi”, ma intriganti (dal semplice posizionare una pietra allo spostare dei pilastri, fino allo sfruttamento di un utilissimo e ultra-futuristico spara-piattaforme del teletrasporto!), e abbastanza su binari anche il crafting (mentre il fattore sopravvivenza, anche al livello normale, riesce a donare un ulteriore strato di inquietudine e tensione al tutto), ma non vediamo l’ora di scoprire cos’ha il team in serbo per noi.
Basterebbe la sola narrazione a valere il prezzo del biglietto, ma se la commistione tra walking simulator e survival game funzionerà, sarà affascinante vedere se e come riuscirà a influenzare due dei generi più inflazionati degli ultimi anni. Se poi la VR verrà sfruttata a dovere (e finezze come l’apertura e chiusura delle palpebre dopo ogni dormita lasciano intendere che lo sviluppo avesse Rift e co. già in mente), c’è anche il serio rischio di avere tra le mani un validissimo titolo in una (e più) line-up non proprio entusiasmanti.
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