News 26 Feb 2016

Layers of Fear – Recensione

“L’artista è un creatore di cose bellissime.”

Fino a dove può spingersi una persona per seguire la propria passione? Qual è quel limite invalicabile oltre il quale l’aspirazione, l’ambizione e il lavoro diventano irrimediabilmente ossessione? Cosa saresti disposto a perdere pur di raggiungere il successo? Famiglia, amici, persino la tua stessa ragione? Questi gli amletici dubbi alla base di Layers of Fear, atteso horror dai natali indipendenti sviluppato dai polacchi di Bloober Team.

Un titolo spiccatamente sui generis, che per primo calca il pericoloso sentiero tracciato dall’ormai famoso (o famigerato) Playable Teaser/P.T. del dinamico duo Kojima/Del Toro. Onirico, malato, disturbante e a tratti agghiacciante: questo il biglietto da visita di Layers of Fear, che almeno sulla carta cerca di proporre un horror sofisticato e dal ricco retrogusto letterario, dove l’inflazionato jumpscare cede il passo a qualcosa di più profondo e sconcertante. Un viaggio nella follia cupa e asfissiante di un pittore vittima del proprio successo, la discesa agli inferi di un uomo incapace di distinguere la realtà dall’allucinazione. Ma quando la prima è persino peggiore della seconda, difficile capire quale delle due faccia più paura.

Layers of Fear

PiattaformaPS4, Xbox One, PC

Genere: Horror

Sviluppatore: Aspyr

Publisher: Aspyr

Giocatori: 1

Online: Assente

Lingua: Audio e Testi in Inglese

Versione Testata: PS4

Il background narrativo di Layers of Fear, se da un lato “puzza di letteratura” lontano un miglio, dall’altro non rappresenta certo materiale inedito nel panorama videoludico. La figura dell’uomo di successo, vittima delle proprie aspirazioni e del sempre crescente desiderio di passare alla storia è un leit motiv in molte produzioni – non necessariamente legate al contesto gaming: i ragazzi di Bloober, tuttavia, affrontano l’argomento con umiltà e con cognizione di causa, permettendosi una digressione paranormale interessante che, al netto di qualche piccolo peccato di gioventù, riesce appieno negli intenti proposti.

Ci ritroviamo dunque nei panni di un pittore alla ricerca dell’opera perfetta, un artista dal passato glorioso a cui la vita ha regalato tutto: famiglia, felicità, ricchezza, e un enorme casa al cui interno trascorrere i meritati momenti felici. Poi qualcosa scatta, la passione sublima in ossessione e quel micro-mondo perfetto svanisce in una coltre di polvere, lasciando l’uomo con la sola compagnia di demoni interiori, ricordi erosi e trasformati dal germe della follia. Un castello impenetrabile di pennelli ammuffiti e acquerelli incrostati alle pareti a formare lugubri memorie, un labirinto irrazionale di incubi, rimorsi e colpe orribili dove un vecchio pittore azzoppato da un incidente si trascina a fatica nel tentativo di dar vita all’ultimo quadro. Quello definitivo, perfetto, eterno, che farà combaciare ogni pezzo del puzzle: e sulla cui tela è impressa la più inquietante delle verità.

Il background narrativo di Layers of Fear “puzza di letteratura” lontano un miglio.

Layers of Fear fa proprie alcune delle tematiche care al già citato P.T.: l’estraniazione, l’inclinazione al paradosso e all’alterazione dello spazio, la capacità di destabilizzare il giocatore catapultandolo nel mezzo di situazioni illogiche e dal forte carico di stress. Non stiamo parlando certo di un “walking simulator” in una location presa in prestito alle pagine di Edgar Allan Poe o del sempreverde Lovecraft, dove di tanto in tanto dall’oscurità appare qualcosa in grado di farci perdere un paio d’anni di vita. La componente jumpscare è presente nel titolo Bloober,come del resto è giusto che sia, ma invece di rappresentare il fulcro portante dell’esperienza di gioco (un po’ come accadeva in Slender, tanto per intenderci) essa viene centellinata a piccole dosi, somministrata quando serve all’interno di una situazione già di per sé affannosa.

Questo per dire che, anche senza mostriciattoli ectoplasmatici che facciano “bu” apparendo da un quadro, Layers of Fear è tutto tranne che un titolo soporifero. L’enorme magione in cui si muove si presta alla perfezione per questo concetto di horror deviato, profondamente psicologico e soltanto in minima parte legato a preconcetti gore o sanguinolenti. Bastano le scritte minacciose sulle pareti, le pennellate d’impeto che imperversano nei corridoi, le pile di rottami ammassate al suolo per trasmettere una perenne insicurezza sul giocatore, irrimediabilmente in uno stato costante di tensione e pronto a subire il colpo da un momento all’altro.

Layers of Fear però è più astuto, per certi versi subdolo, e quel colpo lo fa attendere. Con intelligenza, in alcuni passaggi addirittura maestria, giocando ad “innervosire” il giocatore con porte murate, con luci che vanno e vengono, strepitii minacciosi e stanze da cui, una volta entrati, ogni porta o finestra pare sparire, per poi ricomparire pochi secondi dopo sottolineata da un climax musicale da gelare le vene. Le distorsioni geometriche utilizzate per contrarre lo spazio di gioco, unite ad un gioco sapiente di filtri e di dosaggio di grana della pellicola sono poesia per gli amanti del weird e dell’irrazionale. Il resto lo fanno le situazioni – e gli enigmi – proposti daBloober, mai troppo cervellotici (in alcuni casi forse troppo elementari) ma tutti caratterizzati da una comune raffinatezza e spessore.

Giocare con un grammofono, ad esempio, e vedere come alla rotazione del disco venga associato lo scorrere del tempo (con una stanza che invecchia e si deteriora rapidamente, per poi riavvolgersi e tornare “normale”) non solo è una finezza, ma sobilla davvero una sorta di fretta su chi tiene il pad tra le mani, convinto di una reazione immediata all’azione sconsiderata. Una sensazione ancora più forte in un passaggio dalla forte carica emotiva, quando il protagonista gioca nella stanza di un neonato con un vecchio caleidoscopio. Realtà, immaginazione e allucinazione si fondono in una danza circolare sempre più vorticosa, dalla quale è impossibile sottrarsi – e al cui termine, che vi piaccia o no, finirete per aspettarvi qualcosa di brutto.

Il gameplay di Layers of Fear si basa quasi interamente sull’esplorazione del generoso scenario.

Il gameplay di Layers of Fear, in sostanza,  si basa quasi interamente sull’esplorazione del generoso scenario, entità in costante mutamento, passo dopo passo. L’obiettivo ultimo del titolo, dicevamo, è la creazione di un presunto dipinto perfetto, custodito all’interno del nostro studio – unico hub immutabile e visitabile più di una volta per tutto il playthrough – e che, per essere ultimato, richiede il ritrovamento di una mezza dozzina abbondante di elementi specifici. Qualcosa dell’ordine di una ciocca di capelli, un pezzettino di cranio o del sangue: tutti elementi grotteschi ed inquietanti, che lasciano presagire da subito dove si voglia andare a parare. Non esiste un percorso prestabilito per raggiungere questo studiolo, vista e considerata la natura mutaforma dello scenario – in generale, dopo aver raccolto l’oggetto cercato ci ritroveremo nella stanza del dipinto ad una sola porta di distanza.

In tutto questo viene normale chiedersi se davvero valga la pena avventurarsi in un “racconto” fortemente story driven e di matrice puramente esplorativa, visto che non potremo attaccare in alcun modo nessuna delle (rare) creature che incontreremo e, cosa più preoccupante per alcuni, non potremo morire ed incappare nel game over. Non esiste riposta definitiva a questa domanda, laddove la sensibilità e la capacità di ciascuno di immedesimarsi in quanto giocato determina il grado di coinvolgimento risultante. Layers of Fear non è un horror canonico, questo è fuori discussione, ma nemmeno l’equivalente della giostra degli orrori al Luna Park.

L’opera dei Bloober racconta una storia non certo innovativa, ma coinvolgente e dannatamente cupa. E lo fa con una linea stilistica encomiabile: un dettaglio che noterete subito andando a leggere i documenti sparsi varie stanze, ad esempio, o alcune pagine di diario disseminate in punti poco visibili. Una storia semplice, ok, che probabilmente in molti potranno intuire prima di arrivare ai titoli di coda: ma il dosaggio dei particolari, la sensibilità nell’affrontare alcuni dei temi narrati e l’incredibile climax che determina il crollo di un universo felice, dando il via all’incubo in cui ci si ritrova immersi, ha un fascino magnetico per l’appassionato della letteratura horror più classica. Il che può essere un bene per qualcuno, ma una noia mortale per chi “non ha tempo” di tirare il fiato e leggere.

Layers of Fear, insomma, è un gioco davvero originale. Pecca in un’interazione ambientale eccessivamente contenuta, a onor del vero, e preme sul freno degli enigmi quando invece avrebbe potuto dare un pizzico di gas in più. Ma le mancanze del gameplay vengono sopperite dal mood, dal setting e dalla sua capacità di rendere il tutto così tangibilmente irrazionale. L’arte, del resto, ci mette del proprio: ritratti, paesaggi, nature morte e altri “soggetti” sono riproposti ossessivamente in ogni stanza, corridoio, anfratto che andremo a visitare. Uno strato, layer per l’appunto, solo superficiale, che sottende dolori, traumi, rimozioni e drammi mai completamente superati, che tornano a batter cassa tutti d’un colpo. Ad esigere che l’artista finisca il proprio lavoro, una volta per tutte. Il che, nel contesto in cui ci si muove per circa sei ore di gioco, è già abbastanza per regalare un po’ di pelle d’oca anche ai più scafati.

Layers of Fear, insomma, è un gioco davvero originale.

Sul versante tecnologico, la versione del titolo da noi testata su PlayStation 4 ha mostrato una buona padronanza di Unity, seppur in alcuni passaggi iniziali (privi di filtri sporchi e di effetti “di disturbo”) abbiamo notato alcune piccole sbavature e un alias non proprio leggero. La direzione artistica complessiva, dal canto proprio, maschera astutamente i limiti tecnici (comprensibili) del team di sviluppo, facendo passare quasi tutte le sbavature in secondo piano e catalizzando il focus del giocatore sulla componente psicologica e “folle” dell’esplorazione. La componente audio, al contrario, eccelle sotto ogni punto di vista: dalla colonna sonora di gioco, mai invasiva ma abile nell’enfatizzare i passaggi ad alto tasso di adrenalina, alla realizzazione degli FX ambientali. Il suono dei passi, degli oggetti che cadono, le porte che cigolano e i misteriosi fruscii in fondo al corridoio, dove la luce non arriva: il tutto condito da un temporale che martella incessante, che accompagna il fischio del vento in una notte difficile da dimenticare. In una notte dove tutte le cose dimenticate tornano a galla.

L’agghiacciante trailer di Layers of Fear.

In conclusione…

Layers of Fear è un titolo coraggioso. Non è facile percorrere il solco tracciato dal leggendario P.T., considerando lo stato embrionale in cui si trova questo sottogenere horror “inventato” da Kojima e Del Toro come teaser per la celebre IP Konami. Una scommessa difficile, rischiosa, inverosimilmente apprezzabile all’unanimità dal pubblico: una serie di potenziali ostacoli tutto tranne che secondari per uno sviluppatore ancora giovanissimo come Bloober Team, a cui invece vanno riconosciuti tutti i meriti del caso per aver portato a termine la propria impresa.

Perché Layers of Fear, per certi versi, è una scommessa vinta. Non è perfetto, anzi, e tanto alcune implementazioni tecnologiche quanto un paio di scelte di design stanno a testimoniare qualche peccatuccio d’inesperienza del team con base in Polonia. Allo stesso modo, tuttavia, le forti reminiscenze letterarie, la capacità di destabilizzare e inquietare il giocatore con l’utilizzo sapiente dell’alterazione spaziale, il ricorso a tecniche fortemente cinematografiche per condensare il senso d’ansia e oppressione funzionano alla meraviglia, rendendo l’esperienza di gioco, per quanto estremamente lineare,angosciante e memorabile. Bisogna essere amanti dell’horror psicologico, quello sottile come una lama di rasoio, per apprezzare la complessità e la lucida follia della narrativa di Layers of Fear: ma se non avrete paura di perdervi nel testamento di un pittore privo del senno e, pennellata dopo pennellata, scendere sempre più in profondità in una psiche erosa dalle ossessioni personali, troverete in questo titolo un piccolo diamante. Grezzo, ma prezioso come un quadro da museo.

Voto: 8/10

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