cuphead
News 15 Ott 2016

Cuphead – Prova GamesWeek 16

Milano – Uno dei ricordi più belli che ho di questo lavoro risale a due anni fa, Los Angeles, party serale Microsoft nel corso dell’E3. Musica, cibo e alcool, ovviamente, ma anche postazioni di gioco con Xbox One fiammanti, al cui interno erano state caricate build preliminari di una lunga serie di esclusive. Esclusive tra cui spiccava Cuphead, il meraviglioso “platform del 1936” mostrato al pubblico per la prima volta soltanto un anno prima e, finalmente, giocabile. Mi avvicino baldanzoso alla postazione, forte di una esperienza più che ventennale nel platform, e trovo un simpatico giovanotto ad attendermi: mi accoglie con sorriso e pacca sulla spalla, ci infiliamo le cuffie al grido (suo) di “Let’s Kick Some Ass“. Nemmeno il tempo di dirmi “Non osare provare a morire” che Mugman, il personaggio sotto il mio controllo, era un fantasma evanescente che svolazzava nello schermo: una situazione che, da lì ai minuti successivi, finì per ripetersi una dozzina di volte, fino a quando in preda alla vergogna decisi di salutare il mio compagno di partita, promettendogli che quando ci saremmo rivisti lo avrei stupito. Ora non ricordo se quel simpatico ragazzo si chiamasse Chad o Jared (per caso ho già detto che, quella sera, era girato parecchio alcool?); tuttavia mi ricordo distintamente due cose. La prima, che di cognome faceva Moldenhauer e che trattasi di uno dei due fondatori di Studio MDHR; la seconda, che con sto maledetto gioco ho un conto in sospeso.

Lo devo ammettere: il rinvio di Cuphead ad una metà imprecista del 2017 me le ha fatte girare parecchio. Non perché nutra dubbi sull’assurda opera prima di Studio MDHR: al contrario, piuttosto, perché quanto provato sino ad ora ha messo in moto una macchina dell’hype potenzialmente disastrosa. Il perché ve lo dico subito: Cuphead è una bomba. Probabilmente è la cosa più difficile contro cui sbatterete il muso, vi farà imprecare come un veterano del girone degli eretici e, non certo ultima, vi farà sentire degli inetti completi perchè, stringi stringi, si tratta di un platform dove devi saltare ostacoli, sparare ai nemici e nulla di più. Poi afferri il pad tra le mani, controlli uno dei due protagonisti e succedono due cose: o sei un incapace stratosferico tu, o sei di fronte al figlio del demonio travestito da cartone animato anni ’30. Che poi quella vera delle due è la seconda: ma al posto tuo non sarei comunque così certo delle mie capacità.

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Cuphead è un platform a due dimensioni. Una robina semplice, direte voi, una di quelle cose in cui si salta da una piattaforma all’altra, si spara contro qualche simpatico nemico e, balzellon balzelloni, ci si avvicina verso il boss di turno per una sana sfida all’ultimo sangue: e via, sino ai titoli di coda. Mettiamo subito in chiaro una cosa: il titolo dei fratelli Moldenhauer è tutto tranne che un platform tradizionale. La struttura del gioco varia nettamente dalla tradizione millenaria delle piattaforme, sostituendo la classica sequenzialità dei livelli con un approccio “simil open world“, dove Cuphead e Mugman si muovono liberamente permettendo al giocatore di scegliere lo scenario da affrontare nell’ordine che più si preferisce. L’unico gesto di gentilezza dello sviluppatore nei confronti di chi terrà il pad tra le mani: un dato di fatto di cui, credeteci, vi accorgerete nell’arco di una manciata di secondi.

I livelli di Cuphead sono suddivisi in due tipologie distinte: una variante più “tradizionale”, piena zeppa di piccoli mostriciattoli bastardissimi che faranno di tutto per ostacolare il nostro cammino, e una – nettamente più interessante – che risponde al nome di “boss-fight”. Difficile chiedere qualcosa di più autoesplicativo. Del resto, il focus di Studio MDHR era abbastanza evidente sin dai primi video gameplay di Cuphead: fornire al giocatore una lunga serie di boss fight, ciascuna articolata su una serie di due, tre o addirittura quattro evoluzioni del nemico corrente, in grado di spingere al limite i riflessi e le abilità di ciascun giocatore. L’assenza di un ordine obbligato di esecuzione dovrebbe lasciarvi intuire già una cosa: non esiste un boss più facile di un altro. La curva di difficoltà, senza mezzi termini, è l’equivalente di una palazzina di dodici piani contro cui finirete per sbattere il muso più e più volte, laddove la memorizzazione di specifici pattern di attacco avversari non basterà a garantire in alcun modo il successo.

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I motivi sono presto detti. Il primo, semplicemente, perché ciascun boss di Cuphead presenta un numero di evoluzioni variabili (alcuni mostri avranno tre forme, altri addirittura quattro) che elevano ulteriormente una difficoltà già di per sé mostruosa: non solo imparare i pattern di ciascuna forma è una missione improba, ma ci saranno così tanti oggetti su schermo da schivare che difficilmente avrete anche solo cinque secondi per capire da dove essi arrivino. Secondo, ma non meno importante, mai distrarsi. Il boss (o i boss) contro cui ci si andrà a scontrare, in molti casi, godranno di aiuti “speciali” da parte di creature apparentemente appartenenti allo scenario. Un esempio è il Pirata Bluto (ribattezzato in questo modo per la sua somiglianza all’antagonista di Braccio di Ferro), che non pago di svuotare in nostra direzione un’arsenale intero, potrà contare sui servigi di uno simpatico squalo – che muovendosi quatto quatto dalle retrovie, in più di qualche occasione ci ha spedito all’obitorio con un dash inevitabile

Tenete a mente un’altra cosa: fatevi mandare a tappeto dal mostro ed è finita. Non esiste checkpoint, non esiste grazia, non esiste tolleranza: la boss fight ripartirà dall’inizio, costringendovi ad una dannazione eterna negli infimi gironi infernali, in compagnia di fiamme e forconi. Sotto questa luce, non nascondiamo che Cuphead possa essere per più di qualcuno una produzione ai limiti del frustrante: e dobbiamo ammettere che quello dei fratelli Moldenhauer è tutto tranne che un titolo per tutti. Sadico, punitivo e derisorio, Cuphead offre un’esperienza rivolta agli amanti delle sfide ai limiti dell’impossibile, dove il trial&error è parte integrante del gameplay e dove l’allenamento, la dedizione e dei riflessi sovrumani rappresentano la chiave per un lungo e sudato successo. Un successo che, quando arriva, è un po’ come vincere la Coppa del Mondo di calcio giocando bendati: avete una possibilità su un miliardo di riuscirci, ma se ci riuscite vi sentite i padroni dell’universo.

Dovete giocare a Cuphead. Punto.

Per quanto riguarda lo stile e, più in generale, lo scheletro tecnologico di Cuphead, le immagini in galleria parlano abbondantemente da sole. Il titolo di Studio MDHR vanta una direzione artistica più unica che rara, in grado di trasformare un cartone animato anni ’30 (riprodotto con una cura del dettaglio esemplare, dal colore slavato ai contorni delle immagini più accentuati) in un prodotto interattivo giocabile su un sistema ad alta definizione. Difficile non restare di sasso nell’osservare i due eroi sfrecciare lungo il livello, impegnati ad abbattere creature assurde, una più carismatica ed ispirata dell’altra. C’è studio, attenzione, e una ricerca a dir modo maniacale nell’operato dello sviluppatore, che non sbaglia nemmeno quando si parla di componente sonora. L’accompagnamento musicale di Cuphead, un medley di jingle scanzonati dalla fischiettata facile, è perfetto, in linea al 100% con lo stile retrò dell’intrattentimento tipico di 80 primavere or sono: può sembrare un’affermazione banale, ma non c’è modo migliore per capire la magnificenza di Cuphead che stringere un pad tra le mani e morire svariate dozzine di volte. Sarete incazzati come delle iene, ma amerete il gioco alla follia.

Dovete giocare a Cuphead. Punto. Vi farà incazzare come delle iene, vi rovinerà parecchie serate, probabilmente sarà il viatico alla distruzione di pad e tastiere tanto il veleno che vi inietterà nel sangue ma davvero, dovete giocarlo“. Questo dicevamo di Cuphead lo scorso anno, dopo una prova più approfondita (e meno annebbiata dall’alcool) del titolo dei ragazzi Moldenhauer: questo, parola più parola meno, è quello che vogliamo ribadire dopo l’odierna prova nella cornice milanese di GamesWeek 2016. Sarà un titolo difficile, per non dire difficilissimo, sarà sempre pronto a percularvi con sorrisi beffardi ogniqualvolta il vostro personaggio passi a miglior vita, sarà probabilmente l’esperienza più deleteria per la propria autostima dai tempi di Dark Souls: ma che il Diavolo ci colga, siamo di fronte ad una delle esclusive Microsoft più accattivanti e attese di questa generazione.

Di Cuphead e Mugman, i due fratelli soliti far affari col Demonio per poi passare il resto della propria esistenza a cercare di evitare la dannazione eterna, sentiremo ancora parlare parecchio. La difficoltà esagerata, la colonna sonora strepitosa, la direzione artistica fuori da ogni scala umana capace di lasciare attoniti già al primo sguardo: nella ricetta segreta dei fratelli Moldenhauer c’è tutto quello che serve per scrivere a grandi lettere il nome di un brand di successo. Una scommessa così vinta in partenza che, quasi quasi, ci verrebbe quasi da giocarci l’anima.

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