Avevo da poco ricevuto in regalo una PlayStation 2 nuova, fiammante e pure slim. Quel genere di regalo che un ragazzino appassionato di videogiochi ha sempre desiderato. Anche quello sul quale rimuginavo costantemente, mentre giravo nei negozi di elettronica con i miei genitori e troppi pochi soldi in tasca. Vengo da una famiglia umile, e il lusso del videogioco è stato per sempre qualcosa da sudare, e poter avere una console era un’esperienza magica, qualcosa che non volevo assolutamente sprecare.
Oltre alla “playstation due” avevo ricevuto un’altro splendido regalo, la leggendaria e unica banconota da 50€. Sì, proprio quella, avete indovinato: la cinquantaeuro della nonna. Quella banconota luminosa ed enorme era un’altra opportunità, il piccolo me di circa 13 (14 forse? non ricordo, i primi acciacchi del tempo) anni aveva in mente un piano ben preciso: andare al Trony e comprare un gioco nuovo per la sua console nuova. Cioè ragazzi, non ditemi che anche voi non avreste fatto lo stesso?!
La vetrina di quell’anno era particolare, perché c’era niente poco di meno che un titolo chiamato Final Fantasy XII che luccicava con il suo artwork meraviglioso su sfondo bianco. Final Fantasy è una serie dal valore emotivo per me inestimabile, ma quella è una storia per un altro tempo. Poco distante dal gioco con protagonisti Vaan e compagnia, qualcosa colse la mia attenzione: una copertina brillante e luccicante (letteralmente!) con dei personaggi Disney insieme ad altri, mai visti prima, ma bellissimi e unici.
Non avevo mai visto qualcosa del genere: un gioco con… i personaggi Disney?! Il fato mi stava forse suggerendo che Disney Channel era solo il primo passo dell’azienda verso la conquista del mondo (e col senno di poi non avevo tutti i torti) o, forse, mi stava portando a comprare quel gioco bizzarro dalla copertina bellissima. Quel gioco era Kingdom Hearts II, e fu per me un’esperienza magica. Un ragazzo che spende i suoi ultimi giorni dell’estate in balia di strani eventi che lo portano a conoscere un ragazzo, Sora, una persona speciale nella sua vita perché custodisce il suo cuore. Ora, non è questo il luogo per discutere dell’intricata e contorta trama del figliol prodigo di Nomura, perché sto cercando di raccontare una storia lineare e senza tanti plot-twist. Fatto sta che dopo quel Natale, fino all’estate successiva, proprio come Roxas, Kingdom Hearts II aveva prepotentemente conquistato il mio cuore, lasciandomi a bocca aperta, confuso ma assolutamente in estasi per l’avventura che stavo vivendo in giro per i mondi.
Sora è un personaggio piuttosto classico, una sorta di tavola bianca in cui il giocatore può immedesimarsi facilmente. Un ragazzo gioviale, un po’ ingenuo, alla disperata ricerca dei suoi amici. Non importa cosa si frapponga tra lui e loro, Sora non si fermerà e continuerà a lottare. Il premio? Un sorriso, un abbraccio, la sincera riconoscenza. Per me, giocare nei panni di Sora non era solo immedesimarmi in un personaggio, era rendermi conto che una parte di me era proprio come lui: ingenuo sì (sicuramente allora più di oggi), ma con la voglia di proteggere e aiutare gli altri, con il sorriso sulle labbra anche quando tutto sembra perduto, sempre pronto ad intervenire per difendere le mie versioni di Kairi e Riku.
Mentre Sora aiutava la Bestia e riprendersi Belle, o a cercare Re Topolino per conto di Pippo e Paperino, io riuscivo per la prima volta a vedere qualcuno come me, con i capelli un po’ arruffati e parole come “amicizia” ben stampate in testa, tanto da idealizzarle in concetti un po’ astratti che solo crescendo ho imparato davvero a comprendere, restituendo a quella parola il suo giusto peso e valore. Non mi interessava sparare ai passanti di GTA San Andreas, nonostante sia un efficace modo come un altro per scaricare un po’ di stress (un po’ come tirare l’ascia nel nuovo God of War!) io volevo essere il proverbiale buono, e Sora era proprio quello: stupidamente buono. Col tempo il mio affetto per quel gioco non è affatto cambiato, ma sono probabilmente cambiato io. Dallo stupidamente buono sono diventato meno stupidamente buono, perché crescere significa anche scontrarsi con quello che non dipende da te, devi imparare ad accettarlo ed andare avanti.
“Sora, non cambiare mai”
Qualche anno dopo, in Kingdom Hearts trovai un dialogo che risuonò fortissimo in me: “Sora, non cambiare mai”. Mi ero reso conto che, pur crescendo e vivendo nuove avventure, lui non era cambiato ma solo cresciuto. Era ancora quel ragazzo che andava in un’isola con i suoi amici, quelli che aveva giurato di proteggere. Il suo cuore era ancora aperto a chiunque ne avesse bisogno, perché la sua forza era lì, in quella che gli davano gli altri. Kingdom Hearts fu per me come la bottega di magia che viene raccontata nel libro di James Doty, un neurochirurgo che, all’età di 12 anni, entrò nel retrobottega di un’anziana signora, che gli svelò il segreto della felicità e come combattere il dolore. La terza lezione era un concetto banale, semplice ma al tempo stesso complesso: “aprire il proprio cuore”, ma per lui era difficile farlo, essendo cresciuto in povertà e faticando a perdonare gli altri e sé stesso. Colpito dalla sfortuna e perdendo la sua fama di neurochirurgo, Doty decide di rientrare nella bottega di magia che aveva scoperto tantissimi anni prima, per ritrovare il segreto che la misteriosa signora custodiva: “Ho aperto il mio cuore e mi resi conto che aveva il potere di connettersi con tutti quelli che incontravo”.
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Hey, questa è proprio la lezione che Kingdom Hearts vuole raccontare, e sebbene quel bonaccione di Nomura ci fa spesso arrabbiare, non è affatto male, non trovate? Sora non sarebbe mai stato solo, così. E mentre lui si faceva strada tra individui incappucciati e Heartless che lo perseguitavano, io pensavo “no grazie, sto bene così”, sconfiggerò la mia organizzazione XIII e non le permetterò di cambiarmi. Continuerò a voler bene alle persone per il puro gusto di farlo, perché quello era il vero potere di Sora, il suo cuore, e perché non poteva essere il mio?
Non avrò una spada a forma di chiave o i piedoni giganti, né vestiti pieni di cerniere (Nomura, disegnami qualche outfit, grazie) ma penso di cavarmela. Credo che ciò che sto cercando di dire sia in realtà un concetto molto semplice, quanto spesso difficile da applicare nella dura giungla che c’è la fuori. Ma ci proverò, perché da quel giorno in cui comprai Kingdom Hearts II ne ho fatta di strada, così come ne ha fatta lui e voi, che magari siete arrivati a legger fino a qui e state segretamente esclamando “Cavoli, forse era meglio leggere un libro di Fabio Volo”. Ma tra qualche anno spero di ritrovarlo ancora lì, sulla spiaggia delle Isole del Destino, per poter dire “Non sono cambiato, guarda”, ho solo imparato a rispettare me stesso. E con una zattera abbracceremo le onde del mare per vedere il mondo, disponibile a chiunque voglia salirvi sopra.
Il biglietto? È gratis.
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