Lo ammetto: l’ultima cosa che mi sarei aspettato da questo Oreshika: Tainted Bloodline è il suo innegabile talento nello strapparmi costantemente delle esclamazioni di gioia e stupore. Sembrava il solito JRPG per otaku, col suo look alla Naruto e le sue meccaniche stantie e divorate dalla ruggine. Basta davvero poco, però, per capire che sottovalutandolo si commette un errore gravissimo, pari solo al comportamento di Sony nei confronti della sua PS Vita (della quale il titolo di Alfa System è un’esclusiva), sedotta e abbandonata senza un giusto motivo, un peccato capitale. Un mix pressoché perfetto di generi e meccaniche provenienti da capolavori del passato (posso definirlo “La risposta di Sony a Fire Emblem”? Ecco, l’ho fatto) che mi ha fatto amare il dungeon crawling, e mi ha ricordato quanto fosse bello perdersi, dopo anni di aiutini, mappe e cursori in bella vista, in un videogioco.
Tutto inizia a farsi intrigante sin dall’incipit: Kyoto, estate del 1118. Dei preziosi doni degli dei spariscono misteriosamente, e gli uomini, come punizione, vengono massacrati da tsunami e terremoti. La debolezza spirituale tipica dell’uomo timoroso di dio porta l’imperatore a credere, su consiglio di un misterioso mago, che l’unico modo per calmare l’ira delle divinità è di sterminare il clan colpevole di non aver protetto le preziose reliquie, il vostro, ormai condannato all’oblio. Una strana creatura dei cieli offre però una seconda chance alla nostra gente, riportata in vita per poter ottenere la meritata vendetta recuperando gli artefatti e ripagando con la stessa moneta Seimei, l’infausto consigliere.
Ma una maledizione, anzi due, finiscono col complicare le cose: quella della Caducità non permette ad alcun membro del clan di sopravvivere per più di due anni, mentre quella della Stirpe Interrotta non permette ai componenti della famiglia di accoppiarsi con altri umani e quindi di generare una discendenza. Nulla però gli impedisce di chiedere una mano (e… qualcos’altro) agli dei stessi, ben felici di contribuire alla causa, e di alleviare l’ingiusta punizione. Lo scopo del giocatore sarà quindi quello di setacciare il Giappone alla ricerca dei doni trafugati, e di raggiungere un tale livello di potere da poter contrastare quello che non è un semplice mago, ma qualcosa di molto più pericoloso.
Oreshika è strapieno di trovate originali sparse in ogni angolo del gameplay, dettagli di un dedalo di opzioni, valori da tener d’occhio e sfumature che offrono un dipinto variegato e profondo, ma a tratti, purtroppo, un po’ confusionario. La sua anima ha un duplice volto: da una parte c’è il dungeon crawling spietato, incorniciato da un affresco JRPG per quanto concerne il combat system, vecchia scuola e spartano quanto basta grazie a scontri a turni estremamente asciutti e diretti. Tutto ruota attorno ai leader, di entrambe le compagini: muore il vostro, Game Over, muore quello dell’IA, vittoria e via verso nuove avventure. Se da una parte la scelta sembra assurda, in quanto rischia di appiattire gli scontri (che sarà possibile concluderli in una manciata di secondi), dall’altra presenta quel pizzico di azzardo che rende il tutto imprevedibile, e così prima di ogni battaglia, una roulette decreterà cos’è che il giocatore otterrà alla fine della stessa: dal completo nulla, al denaro utile a comprare oggetti ed equipaggiamento, passando per armi o armature speciali e perfino abilità. Più nemici si uccidono, più denaro, devozione (valuta grazie alla quale sarà possibile accoppiarsi con gli dei) e oggetti preziosi si ottengono, ma dimostrarsi troppo forti ai nemici rischia di far fuggire il leader avversario con il maltolto, restando così a bocca asciutta, mentre concentrare i vostri attacchi solo su di lui vi permetterà di risparmiare tempo e di portare a casa sicuramente qualcosa.
C’è poi però l’essenza gestionale, contorta e profonda a tal punto da richiedere la presenza di Kochin, un esserino dalle facoltà magiche che ci accompagnerà lungo tutta questa peculiare avventura, preziosa tanto in battaglia, nelle vesti di donnola che attaccherà di tanto in tanto i nemici e proteggerà il leader da colpi letali, ma soprattutto nella fase più ragionata dell’intricato e ricchissimo gameplay di Oreshika, fatto non solo, come detto, di combattimenti. La residenza del vostro clan è l’hub centrale, dove sarà possibile organizzare equipaggiamento ed inventario, selezionare i membri del party e pianificare il delicato equilibrio familiare a suon di accoppiamenti e dinastie studiate sin nei minimi dettagli: preparatevi a perdervi in un mare di statistiche e mix di DNA destinati a fallire (o a sfornare il pargolo definitivo).
In città sarà possibile fare acquisti ed investire nelle attività, per migliorare le riserve di oggetti acquistabili e ospitare fabbri ai quali richiedere armi ed armature speciali, tramandabili di generazione in generazione. Un calendario segnalerà eventi importanti di cui tener conto, divisi in mesi (l’unità di misura con la quale viene scandito il tempo, vero tiranno): dalle nascite al raggiungimento della maturità, ma soprattutto, le festività, momento nevralgico della main quest, e capirete sin da subito che il tempo stesso sarà la risorsa più preziosa in Oreshika, non solo per via dell’assenza dei comodi save system moderni.
Insieme a Kochin sarà possibile pianificare ogni singola azione, dal far spazio nell’inventario alla raccolta di oggetti e al completamento di subquest (che spesso richiedono di uccidere un certo numero di nemici), in quanto lo scorrere inesorabile dei mesi (ogni membro del clan non potrà superare i 24 mesi, ricordate?) richiederà di agire in fretta e nella maniera più efficiente. Si dovrà quindi gestire al meglio le nascite per poter così avere sempre nuova linfa vitale nel clan (più in là nella storia si potranno anche assoldare mercenari e adottare membri di altri clan), ed uscire all’avventura in uno dei numerosi dungeon presenti con cognizione di causa, tenendo sempre d’occhio il calendario e non rischiare di perdersi qualche importante evento. Ogni uscita porterà via un mese intero, la cui durata in minuti reali dipenderà dalla gentile concessione che fa Oreshika ad ogni giocatore ad inizio del playthrough: si potrà scegliere se dedicare da un minimo di 30 ad un massimo di 100 ore al gioco, e da ciò dipenderà quanto tempo passerete a massacrare oni in qualche anfratto. Nulla vi impedirà di restare anche più mesi, ma oltre al rischio di perdere membri nel mentre (per cause naturali), ci sono vari elementi da tenere d’occhio, come il vigore: subire troppi danni, così come trascorrere troppo tempo senza riposo o senza cure, farà scendere pericolosamente tale valore (impossibile da ripristinare), che una volta prossimo allo zero porterà ad una morte certa.
L’esplorazione dei dungeon è, paradossalmente, una delle parti più interessanti e al contempo frustranti dell’intera esperienza. Apparentemente lineari e pieni di zone indistinguibili tra di loro, sono dei labirinti nei quali più si entra nel profondo, più vengono messe alla prova le abilità del giocatore, che tra strategia, gestione delle risorse, orientamento ed intuito dovrà barcamenarsi tra membri del party moribondi, chiavi da cercare e sentieri in continuo cambiamento, in un mix di estasi hardcore e confusione allo stato puro che farà piacere ai giocatori più scafati, ma terrà ben lontani quelli meno pazienti. Un esempio lampante sta proprio nelle missioni principali, il cui completamento è lontano anni luce dal concetto di “linearità”: nelle profondità di alcuni dungeon saranno presenti dei portali per il Feast of All Demons, nei quali sfiderete Seimei e i suoi scagnozzi in molteplici occasioni, da visitare in mesi specifici. Cercarli il mese stesso col rischio di non trovarli vi costringerà ad aspettare altri 12 mesi, ma partire alla ricerca con troppo anticipo rischierà di farvi trovare spompati e mezzi morti dai nemici che troverete al di là del portale. La vera soddisfazione, però, starà proprio nell’esplorare più volte un singolo dungeon, cercando di memorizzare la strada per la meta stabilita, per potersi muovere in futuro in maniera più ponderata e con meno perdite possibili o semplicemente per sbloccare ogni scorciatoia e potersi dedicare al grinding, un concetto al quale la permadeath incontrollabile di Oreshika dona tutto un altro significato.
Come detto, i personaggi non possono superare i 24 mesi di vita, e allora che senso ha fargli apprendere nuove skill o comprargli armi sempre più potenti? È qui che entra in gioco il valore centrale della dinastia, che passa da essere un semplice orpello da menzionare in qualche scheda tecnica al meccanismo di un piano con una visione ampia e ben precisa, e l’accumulo di oggetti, denaro ed abilità, attribuite a delle pergamene che vengono condivise tra i famigliari, va visto più come un investimento per il futuro della propria gente che come mero passatempo.
L’aumento esponenziale della difficoltà di nemici e boss rappresenta così un’occasione per pianificare gli anni a venire del clan: potrete sacrificare membri per fargli esplorare il più possibile i dungeon, in modo da trovare oggetti che torneranno utili tra due o tre generazioni, o fare i salti mortali per sbloccare una nuova classe, ed avere così nipoti sempre più potenti e versatili da usare in combattimento. Il giocatore è così libero di giocare al proprio ritmo, di prendere dimestichezza con le complesse meccaniche senza fretta o tempi morti, e di accumulare esperienza e conoscenza con cui affrontare futuri playthrough in maniera più soddisfacente e vincente.
Futuri, perché il primo impatto sarà davvero devastante ed annichilente (soprattutto se l’inglese è un optional), tra decine di statistiche e valori infilati nello scorrere della trama uno dopo l’altro senza troppe spiegazioni o convenevoli, oppure dungeon da digerire e metabolizzare dopo dieci o quindici incursioni nei loro meandri, alla ricerca di ghiotti oggetti, nuovi nemici e qualche tesoro dimenticato la scorsa volta. Nonostante ci sia Kochin ad assistere il giocatore, a sbrigare le sue faccende, anche le più noiose, e a tener traccia di ogni evento e prossima mossa, la confusione tende continuamente a regnare sovrana, un ostacolo che rivendica l’anima hardcore e old school di Oreshika: Tainted Bloodlines, seguito di quel Ore no Shikabane wo Koete Yuke apparso sulla prima PlayStation ben 16 anni fa, la cui essenza impregna ogni coloratissimo pixel del suo discendente, il cui design irresistibile e narutesco rischia di attirare a sé anche giocatori ben poco affini ad indigeribili meccaniche JRPG.
I dungeon, seppur non troppo variegati (forse più per confondere il giocatore che per imperizia o scarsa creatività), sono splendidi, colorati e curatissimi, la cui visione è disturbata unicamente da una telecamera da mal di mare, mentre i nemici, nonostante non manchino numerose colorazioni di identici modelli, hanno uno stile davvero particolare ed aggressivo, degli oni infernali rivisitati in chiave (tecnica, non artistica) Paper Mario, per via della loro natura bidimensionale. Grande cura è stata riposta anche nei dialoghi, nelle cutscenes in stile anime, nei brani tipicamente nipponici e nell’aspetto dei membri del clan, tutti diversi tra loro ed influenzati dai genitori, siano essi uomini, donne o uno tra le decine e decine di dei.
In conclusione…
Oreshika: Tainted Bloodlines è l’ennesima perla che non ti aspetti: sequel di un titolo sconosciutissimo rilasciato nel 1999, esclusiva di una console lasciata morire e lanciato sul mercato quasi di soppiatto, forse proprio per la vergogna provata nel mal celato (e riuscitissimo) intento di darsi da soli la proverbiale zappa sui piedi. Un JRPG vecchia scuola intenso, ricco di cose da fare, profondo e che sprizza originalità da ogni poro, nonostante l’impostazione antiquata e l’essenza volutamente hardcore, tra complesse meccaniche da metabolizzare perdendosi nella sua splendida storia di vendetta e di onore, e dungeon infernali da esplorare senza aiuti, senza indicazioni, senza la mano dello sviluppatore ad illuminare la via al giocatore.
Una telecamera spesso fastidiosa e nauseabonda, unitamente ad una confusione generale che si respira tanto nell’interfaccia utente, quanto nella macchinosità di alcuni elementi del gameplay, tengono a debita distanza l’agognata l’eccellenza, ma per chi scrive è senza dubbio uno degli RPG più interessanti ed originali degli ultimi anni. Duro ma appagante, bello sia da vedere che da giocare, sempre pronto a rimescolare le carte in tavola e sicuramente non per tutti. Il Fire Emblem che Sony non è mai riuscita ad offrire? Perché no.
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