News 23 Apr 2015

State of Decay: Year-One Survival Edition – Recensione

Basta con i titoli ad ambientazione zombie. Ha ancora senso massacrare inermi mangiacervello nel 2015?

Provate a chiederlo ad Undead Labs, giovane team di Seattle con una sola grande passione: esatto, gli zombie. E un solo gioco all’attivo a tema… zombie. Il loro operato è la però la prova che l’amore per queste creature tanto abusate nel cinema e nei videogiochi non sempre finisce col portare verso la solita, piatta opera a metà tra la critica sociale e la pura e semplice attrazione per i brandelli di pelle penzolanti: il loro State of Decay, apparso nel 2013 prima su Xbox 360 e poi su PC, rappresentava la classica, piacevolissima eccezione.

Un titolo dall’attitudine indie (aka coraggioso, ma tutelato dalle resistenti ali di Microsoft) e dal costo contenuto, che a patto di scendere a pesanti compromessi tecnici, era in grado di regalare un’esperienza godibilissima e longeva, soprattutto rispetto agli standard dei titoloni da milioni di dollari.

L’annuncio dell’ennesimo “remaster” aveva quindi il sapore della seconda chance, del ritorno di fiamma che poteva sdoganare ad un pubblico ancor più ampio la piccola perla di U.L., o quanto meno renderlo un ricco antipasto in attesa di quel DayZ tanto pubblicizzato su PS4, in arrivo anche su Xbox One, prima o poi. Ma la radice dei mali del titolo originale, a quanto pare, era ben più profonda del previsto.

Il sole cocente, la barca sul lago immobile, le battute tra amici: un incipit che più classico non si può. Quella tra Ed e Marcus è la tipica scampagnata destinata a finire malissimo, tra braccia mozzate e urla di dolore. La fuga dal Monte Tanner, i primi contatti con questi “strani esseri” apparsi all’improvviso e il ritrovarsi in uno dei primi avamposti sfruttati dai pochi rimasti umani per difendersi da questa nuova minaccia, senza però comprendere l’origine e l’entità di tale epidemia, questa “febbre nera” che sembra aver colpito l’intera Trumbull Valley. I dialoghi (complice anche la pessima ed approssimativa localizzazione italiana) non brilleranno per acume, gli eventi vedranno la solita cospirazione di mezzo, con l’esercito impegnato a segregare i presunti infetti in quella valle di lacrime e di buttare via la chiave invece che a trarli in salvo, o campagnoli bastardi che non cederanno neanche una pillola di medicinale, o bestialità che verranno commesse nel sacro nome della sopravvivenza, ma la vera forza della martoriata narrazione di State of Decay sta nel suo spargere col contagocce piccoli spezzoni di vita passata, di quando si stava meglio, di quando il vero problema era l’antenna della TV che non funzionava, e non c’era bisogno di tenere continuamente monitorati cibo e medicine.

Paradossalmente, infatti, vengono meglio raccontate le storie parallele ed apparentemente inutili di ogni singolo individuo che incontreremo che la trama stessa, ma il motivo è forse nascosto nell’importanza della personalità di ognuno di quegli individui, la cui esperienza pre-apocalisse ha plasmato quel che loro sono ora e quel che loro porteranno all’economia della comunità. E la collettività stessa è proprio la protagonista di State of Decay: non c’è una sola figura a mandare avanti la baracca, in quanto i nostri alter ego rispettano in maniera più o meno coerente i ritmi e i limiti della vita vera. In base alle loro attitudini e passioni potranno eccellere nella resistenza o nella leadership, potranno aumentare le proprie skill facendo pratica (combattendo o correndo, si diventa più forti o si aumenta il “fiato”), e la stanchezza come le ferite profonde si faranno sentire nel rendimento, rendendoli più deboli e destinati alla morte (che sì, sarà definitiva). Del sano turn-over ci permetterà quindi di dargli il tempo di recuperare le forze (nella speranza che non muoiano durante la notte), vista la necessità di tenerli sempre in forma, e limitare i rastrellamenti di beni in due o più superstiti se si è appena sopravvissuti all’ennesima orda nemica non sarà una così pessima idea.

La natura di State of Decay è prettamente sandbox, quindi non avrete delle missioni da compiere in base al personaggio (tant’è che in molti dialoghi – con i sottotitoli in italiano – ci si riferisce al solo maschile anche impersonando una donna, ndr), ma sarà un unico, lungo flusso di quest influenzate dal tempo e dal modo in cui vengono, se vengono, portate a termine. Aiutare dei sopravvissuti sbloccherà nuove missioni (e nuovi potenziali alleati nella propria base o vicini con i quali scambiare risorse), far scorrere troppo tempo per salvare X o Y figura chiave rischierà di compromettere la salvaguardia del gruppo, soprattutto se si muore nel mentre e si finisce col perdere non uno ma due tasselli del puzzle, e non poche decisioni plasmeranno l’ ambientazione stessa, soprattutto quando dovrete decidere dove impiantare la vostra base operativa, o se trasformare in un avamposto la casa o il garage appena ripulito. Non aspettatevi poi chissà quale varietà nelle missioni: salva Tizio, ripulisci X posto, ammazza Y tipo di zombie (ce ne sono di diversi tipi, uno più letale dell’altro, come gli Strilloni che stordiranno gli umani nelle vicinanze o i temibili bestioni). Ma a trascinare il giocatore nelle fasi più avanzate ed intriganti dell’avventura non sarà la qualità della narrazione, bensì le forti emozioni che solo un survival ben fatto riesce a trasmettere.

Il senso di impotenza provocato dalla facilità con la quale verrete feriti o dalla distruttibilità delle armi bianche, da alternare con fucili e pistole macchinosi e con munizioni sempre carenti; il terrore palpabile di far sviluppare le abilità di un determinato personaggio, per poi vederlo miseramente morire, diviso a metà con chirurgica precisione da un’orda di famelici zombie; i sussurri e i gorgoglii che vi accompagneranno di notte mentre proverete ad avvicinarvi di soppiatto ad un nemico, o ad un baule o una credenza lasciati incustoditi, da esaminare e svuotare, zaino e peso permettendo. Chiamare qualcuno dalla base per segnalare che c’è una buona scorta di beni da recuperare e pregare che non gli accada nulla mentre si avventurerà in solitaria; depositare pesanti bastoni e chiavi inglesi da conservare per gli assalti improvvisi sul pick-up lasciato ancora acceso dal precedente proprietario che chissà dov’è, o in cosa si è trasformato, nella speranza che però non esploda tutto lasciandoci a bocca asciutta.

Ogni mossa, ogni gesto andranno pesati, e non solo per la stamina, che se gestita in modo sconsiderato porterà ben presto all’inevitabile fiatone che non aiuterà minimamente con quel gruppo di zombie in arrivo da destra: rifiutare un aiuto porterà le sue conseguenze, così come la dispersione di “Ascendente”, sorta di valuta semi-tangibile, che si avrà sulla comunità, la più preziosa merce di scambio, in quanto permetterà di costruire ed ampliare le basi (che potranno essere trasferite a proprio piacimento nei piccoli centri abitati separati da fiumi, boschi e deserti) con dormitori o palestre, di eseguire speciali comandi (ricariche di energia al volo, costruzione di avamposti, etc), ma anche e soprattutto di “contrattare” con le varie comunità di sopravvissuti (inclusa quella in cui vivono i personaggi giocanti): depositare armi, munizioni e materiali negli appositi punti aumenterà l’ascendente, che potrà essere “investito” prelevando altri oggetti più utili da portare in avanscoperta (come gli antidolorifici o gli snack, utili per ripristinare rispettivamente salute ed energia) e lasciando al gruppo armi troppo pesanti e munizioni che non entrano nello zaino dagli slot limitati.

C’è poi il combattimento, scarno, legnoso e a tratti scomodo; difetti che sembrano quasi voluti, figlio improvvisato com’è della necessità e non della vanagloria: si può mirare e sparare, i più parsimoniosi potranno sfruttare i veicoli per non sacrificare munizioni, si può anche prendere a legnate, o per evitare di restare a mani nude troppo in fretta, a calci, magari mentre il nostro compagno trattiene lo sventurato nemico di turno “all’americana” (purtroppo controllato da un’IA altalenante, almeno quando non deciderà di abbandonarci senza un motivo preciso), uno dei tanti ed accaniti nemici che ci inseguirà in lungo e in largo con ben più astuzia dei soliti zombie a cui siamo abituati. Ma poi c’è la telecamera schizofrenica, le animazioni pesanti come macigni, i bug che sfiorano il ridicolo (auto fagocitate dalla strada, nemici e personaggi che si incastrano non proprio raramente), ed evidenti rallentamenti, soprattutto quando, alla guida, si raggiungono nuove aree. Gli stessi problemi della versione Xbox 360, insomma. “You had one job”, direbbe qualcuno, ma no, Undead Labs si è limitata a dare una ripulita alle texture, a migliorare ombre ed illuminazione e ad aumentare la risoluzione (a 1080p) e stop, il resto dei problemi è tutto lì, incluso il miraggio dei 30 fps raggiunti, forse, stando fermi in un luogo chiuso.

A chiudere il pacchetto di questa Year-One Survival Edition, oltre a nuovi oggetti, personaggi, brani della colonna sonora, achievements (ora portano a ben 1500 G) e features come il supporto al DVR, ci pensano i due corposi DLC, Breakdown e Lifeline, che vanno a raddoppiare la già di per sé ottima longevità di State of Decay (si passa dalle 13/14 della sola main quest a 25/26 ore totali, ed oltre, perlustrando ogni singolo anfratto), con il primo che enfatizza ulteriormente l’impostazione sandbox rimuovendo qualsiasi velleità narrativa e gettando il giocatore in un loop sempre più arduo di combattimenti e missioni con avversari via via più difficili da massacrare, mentre il secondo, più classico, permette di vivere i momenti precedenti all’epidemia nei panni di un plotone dell’esercito, con un gameplay molto più brutale e balistico.

Se ci concedete una lamentela un po’ puerile, la mancanza di una modalità cooperativa, se non di una struttura MMO alla DayZ, si sente profondamente, e per quanto il team abbia lasciato intendere più volte che uno State of Decay online sia in lavorazione, la promessa e mai pervenuta possibilità di scorrazzare per la Trumbull Valley in compagnia di un amico è dura da mandar giù. Non sarebbe forse stato un game changer, ma sicuramente sarebbe potuto essere uno dei suoi più brillanti punti di forza.

In conclusione…

Su Xbox 360, State of Decay era un ottimo gioco con tante idee interessanti e ben sviluppate, ma dal comparto tecnico decisamente da rivedere, colpa di bug e rallentamenti frequenti. La versione Xbox One, come accaduto in altri illustri casi (Devil May Cry e Dark Souls II su tutti), avrebbe dovuto rappresentare l’occasione di potersi godere finalmente quel gran bel titolo con una fluidità e una qualità visiva dignitosa, ma purtroppo qualcosa è andato storto.

L’atmosfera c’è, la costante sensazione di precarietà e morte anche, e la soddisfazione per ogni superstite portato in vita, per ogni base conquistata e personalizzata o per ogni abilità del proprio personaggio preferito portata al massimo è perfettamente incastonata in un concentrato di scelte delicate, brividi lungo la schiena e concentrazione costante, ma il frame rate paludoso e zoppicante, la grafica ereditata dalla scorsa generazione e i numerosi problemi tecnici sono ancora al loro posto, nonostante i quasi due anni di patch e fix, e persino i 3,7 GB di aggiornamento rilasciati proprio nel giorno in cui scriviamo questo articolo.

Il valore innegabile del gioco, il prezzo estremamente contenuto (30 €) e la natura indipendente del team permettono però di chiudere un occhio e di dare un’opportunità ad uno dei pochi “survival” in circolazione (o quanto meno degno di tale nome), che riesce a catturare in maniera egregia quelle atmosfere che tanto piaceranno ai fan del “solito” The Walking Dead. Lasciano comunque l’amaro in bocca i non pochi difetti che, come fantasmi, si sono tutti ripresentati all’appello, almeno nella versione da noi testata.

Segnaliamo inoltre che i salvataggi della versione old-gen sono compatibili (e che i possessori di tale versione avranno anche uno sconto del 33% nel caso di upgrade alla versione Xbox One).

Voto: 7/10

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