Colonia – Se pensate non esista nulla di più difficile e bastardo di Dark Souls, molto probabilmente non avete mai giocato a Cuphead. Il titolo d’esordio dei simpatici fratelli Moldenhauer, canadesi nonostante un nome dalle forti reminiscenze teutoniche, è un qualcosa che va ben oltre il semplice concetto di “shooter/platform” difficile. Proprio come l’antagonista dei due eroi dalla testa a tazza, siamo di fronte ad un qualcosa di diabolico ed estremamente punitivo, un lupo famelico travestito da agnellino che, per l’occasione, sfoggia una direzione artistica che si rià al 100% ai vecchi cartoni degli anni ’30. Già, quasi un secolo fa, quando esistevano le matite di Walt Disney e Fleischer – e quando i cartoni animati facevano ancora ridere davvero. In occasione di gamescom 2015 abbiamo avuto l’onore di scendere nuovamente nel vivo dell’azione di questo viaggio conturbante, tanto affascinante quanto diabolico, cercando di sopravvivere il più a lungo possibile in un universo malato fatto di swing e charleston. E sì, non serve dirlo: abbiamo siglato un record enorme di game over.
Partiamo dalle cose semplici. Cuphead è un titolo piuttosto strano, una sorta di Metal Slug (da cui eredita gean parte delle meccaniche) quasi totalmente votato alle boss fight. Stando alle parole del dinamico duo di fratelli, si tratta di un “run & gun” in cui i due uomini tazza, dopo aver perso una scommessa col Diavolo, devono far di tutto per pagarla – e salvare la propria anima. Come dicevamo poco fa, il titolo presenta una struttura abbastanza atipica tanto nella struttura platform più tradizionale quanto in quella del canonico side-scrolling shooter. Ci si muove su una mappa di gioco con visuale aerea, in modo analogo a quello dei vecchi RPG giapponesi, e da questa si accede in modo assolutamente libero al livello da affrontare. Alcuni di questi, non ancora presentati, presentano una struttura a piattaforme più tradizionale (alla “Old Rayman”, per intenderci, ma nettamente più complicati), anche se la maggior parte dei livelli condurrà rapidamente allo scontro con enormi creature.
Enormi, e divertentissime. Ciascuna boss fight di Cuphead, a ben vedere, non solo è un’esperienza esilarante (come andremo a spiegare a breve), ma una delle principali cause della dannazione della vostra anima agli inferi. Anche perchè ciascun boss disponibile presenta almeno tre forme differenti da abbattere, progressivamente più forti (e badate, stiamo usando un eufemismo) e meno prevedibili nei pattern d’attacco. Manco vi diciamo che, doveste mai esere abbattuti al terzo stadio del boss, lo scontro ricomincerebbe da capo. E giù improperi.
Che poi ammettiamolo, morirete tante di quelle volte da rischiare di uccidere qualcuno in casa vostra. E più si muore (e più si perde la voce gridando improperi come lupi mannari alla luna), più la voglia di rivalsa si fa sentire nel giocatore, che finisce rapidamente in una spirale di tossicodipendenza videoludica destinata a terminare – forse – soltanto una volta abbattuto il farabutto. A tal proposito, uno degli aspetti più meravigliosi e “old fashioned” di Cuphead è la necessità viscerale di imparare a memoria i pattern d’attacco di ciascun boss. Impossibile anche solo sperare di mandarlo al tappeto al primo incontro, vista la quantità di attacchi, i cambi di ritmo e le mille variabili impreviste di cui si compone ciascuno scontro. Tocca dunque mettersi lì, testa e orecchie basse, a prendere sonore legnate sino a quando riuscirete a prevedere l’altrui comportamento con secondi di anticipo. E poi morirete ancora, tranquilli, ma avrete qualche speranza in più.
Come dicevamo, la direzione artistica e il charachter design di Cuphead è forse una delle cose più belle mai vista nella nostra carriera di videogiocatori. Non solo per l’indiscutibile fascino che un tratto di matita di quasi novant’anni fa, ai giorni d’oggi, riesce ad esercitare, ma anche per l’incurabile pazzia dei due fratelli Moldenhauer, che hanno dato vita a creature di fine livello che boh, definire allucinanti rischierebbe d’esser riduttivo.
Qualcosa dell’ordine di un’immensa Patata Diabolica, che scaglia contro i due eroi qualsiasi cosa le capiti a tiro. Abbattetela e al suo posto apparirà una carota dall’espressione schizofrenica, che ad intervalli regolari emette onde circolari dalla fronte dopo essersi portate le mani alle tempie. Follia pura? Non avete ancora visto le due Rane Pugili, che saltano da una parte all’altra dello schermo e, se messe alle strette, si “agganciano” una all’altra e danno vita ad una slot machine (qualcuno mi spieghi il motivo, vi prego) da cui esce ogni genere di cosa utile ad ammazzarci alla velocità della luce. E questo è solo l’inizio, tranquilli.
C’è un treno che in realtà è un’enorme Scheletro, che si diverte a menare cazzotti lungo tutto lo schermo (provate voi ad evitarlo saltando da una micro piattaforma ad un’altra di un treno in movimento), un enorme pennuto che volta con la propria casetta di legno ancorata sulle spalle e che sputa uova di ogni forma e colore addosso ai nostri eroi, per l’occasione a bordo di velivoli in perfetto stile cartoon da seconda guerra mondiale, o un tizio identico al dispettoso Bluto del vecchio Popey (altra evidente fonte di ispirazione del team di sviluppo) che ci bombarda dalla sua barca e, se colpito troppo volte, ci sguinzaglia contro i suoi due pescicani. Che sono due squali col muso da bulldog, tanto per intenderci: e tutto questo mentre da “dietro”, ad intervallipiù o meno regolari, uno squalo vero e proprio ci arriva dalle spalle, regalandoci un altra settimana di permanenza all’inferno. Ah, le ultime che vi abbiamo citato erano tutte forme base dei vari boss, sapevatelo.
Cuphead, come intuibile, nasce per due giocatori in cooperativa locale, anche se – chiaramente – è affrontabilissimo anche in single player (a tal riguardo, uno dei fratelli canadesi ci ha giurato che, se affrontato in solitaria, il coefficiente di difficoltà sarà risettato in modo appropriato). Il control schema, allo stato attuale, è quanto di più elementare si possa pretendere da una tale tipologia di gioco: un tasto per saltare, uno per sparare, i dorsali per effettuare un breve dash aereo (fondamentale quando la mole di “colpi” su schermo tende vorticosamente all’infinito) e uno per attivare la super mossa di entrambi gli eroi. E ok, lo stick sinistro per muoversi, ma fin qui pensiamo ci foste arrivati già da un pezzo.
Se sullo stile davvero, non c’è nulla da dire se non “capolavoro inarrivabile”, possiamo spendere le ultime parole sulla colonna sonora di Cuphead, che manco a farlo apposta si conferma un tripudio meraviglioso di sonorità “dei bei tempi”: uno swing sfrenato ed irrefrenabile, autentico ritmo che esce dallo schermo e ti sale dalle dita, sino ad impossessarsi del cervello. Saremo di fronte ad un indie del programma ID@Xbox ma, ragazzi, se questa è la caratura degli indipendenti di nuova generazione, qui possiamo solo inziare a festeggiare.
Dovete giocare a Cuphead. Punto. Vi farà incazzare come delle iene, vi rovinerà parecchie serate, probabilmente sarà il viatico alla distruzione di pad e tastiere tanto il veleno che vi inietterà nel sangue ma davvero, dovete giocarlo. Il titolo di Studio MDHR è un’autentico prodigio all’interno del panorama indipendente di Xbox One, una meraviglia per gli occhi e per le orecchie che offre un gameplay sì bastardo e dannatamente orientato al trial&error, ma capace di incollare davanti allo schermo per ore ed ore. E questo, magari, senza nemmeno riuscire ad abbattere un maledettissimo boss: ma voi ci riproverete, ancora ed ancora…
Sappiate solo una cosa: iniziatelo, e Cuphead vi ruberà il sonno. E probabilmente non solo quello. Ma lasciatevelo sfuggire, bollandolo come l’ennesimo giochino da “indipendenti”, e che il Diavolo dei Moldenhauer vi possa pigliare.
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