Che quella attuale sia la generazione delle re-master in alta definizione non è una novità: a cadenza quasi mensile, infatti, ci vengono riproposte (in questo 2017 fortunatamente unitamente ad un debito numero di prodotti nuovi di pacca) ri-edizioni di vecchie glorie, attualizzate ed adattate alle nuove tecnologie, al fine di riempire un parco titoli fino a qualche mese fa risibile e di dubbio spessore.
Capita dunque di vedere tornare alla ribalta giochi di pochi anni fa, giochi dell’anno appena passato o, come in questo caso, prodotti la cui genesi dista oramai quasi quattro lustri dalla data attuale. The Silver Case infatti, primo gioco di Suda 51 a vedere la luce sotto l’egida dei Grasshopper Manifacture, vide il suo dayone nell’oramai lontanissimo 1999 non lambendo mai, almeno fino alla pubblicazione dell’edizione PC nell’anno domini 2016, la luce in territorio occidentale. Giunge dunque la possibilità, con questa remaster, di saggiare con mano una delle prime opere dell’oramai affermatissimo maestro giapponese, la prima in cui ebbe piena libertà creativa per via della pubblicazione indipendente, una carriera che lo avrebbe poi visto rilasciare prodotti del calibro di Killer 7, Lollipop Chainsaw, Shadows of the Damned, Killer is Dead e, non ultimo, Let it Die.
Dimenticate però la spensieratezza di Lollipop Chainsaw, la giocabilità di Shadows of the Damned ed il fascino ammiccante di Killer is Dead: The Silver Case mostra appieno, anche in questa sua incarnazione in alta definizione, tutti i limiti di sviluppo (stilistici e non) di un prodotto ideato e prodotto oramai due decadi fa. L’attualizzazione fatta al fine di rendere utilizzabile The Silver Case su macchine di nuova generazione non ha infatti toccato minimamente l’impianto di gioco riportando appieno, in positivo ed in negativo, tutte le caratteristiche che resero famoso questo pur interessante prodotto, piccola gemma acerba creata da un allora giovane (e forse meno smaliziato) Goichi Suda.
Il poliedrico game designer nipponico ci trasporta in una avveniristica Tokyo, in un retro-futuro a cavallo tra il millennio da poco conclusosi e quello attuale, oramai giunta ad un livello di sovrappopolazione disumano, condizione per cui la stessa megalopoli è stata divisa in ben ventiquattro distretti, ognuno con una governance ed una polizia propria atta a mantenere e ripristinare l’ordine dello stesso. In questa Tokyo distopica prendono il via una serie di eventi, apparentemente scollegati l’uno dall’altro, che ci vedranno sulle tracce di un serial killer in azione all’interno del ventiquattresimo distretto: nei panni di Akira “Big Dick…”, un novellino appena entrato in servizio nelle forze di polizia, ci troveremo dunque a ripercorrere le azioni di questo misterioso criminale per assicurarlo alla giustizia, in quello che sarà Trasmitter, il primo dei due macroepisodi che comporranno la trama di The Silver Case.
The Silver Case mostra appieno tutti i limiti di sviluppo (stilistici e non) di un prodotto ideato e prodotto oramai due decadi fa
Akira, anonimo ed introverso, non brilla di certo per carisma o caratterizzazione e ci risulterà dunque difficile immedesimarci o per lo meno condividere le sue (poche) emozioni e le azioni messe in atto per smascherare il killer da noi ricercato: tutto ciò, però, risulta frutto di una ben determinata scelta stilistica che vuole, nella neutralità più assoluta del protagonista, una tara distintiva delle visual novel tanto in voga in giappone verso la fine degli anni 90, genere cui The Silver Case può essere facilmente ascritto. Le visual novel infatti vivono e si autoalimentano grazie alla loro struttura narrativa creando dunque, con il lento progredire degli eventi (e con una contestuale raccolta di dati utili a decifrarli) il climax necessario alla evoluzione della storia stessa. Alla impalpabilità del protagonista fa però da contraltare la caratterizzazione dell’ambiente di gioco e di molti dei comprimari che, in puro stile Suda 51, sposteranno la narrazione verso il grottesco, il surreale o, molto spesso, verso la cruda ed efferata realtà che il nostro comprimario si troverà ad affrontare.
Se non bastasse tutto ciò a relegare in una nicchia abbastanza determinata questo The Silver Case, alla stessa maniera non aiuta la scelta di non localizzare altro che in inglese il primo gioco dell’epoca Grasshopper Manifacture: il trovarsi davanti ad interi wall of text di dialoghi in inglese contenenti nomi, riferimenti geografici ed una pletora di informazioni, se non utili, essenziali alla corretta prosecuzione nell’iter narrativo, decurterà ulteriormente il parco utenti cui questo gioco potrà rivolgersi, andando a svilire lo sforzo creativo profuso dagli autori per creare un setting noire-thriller futuristico che nulla ha da invidiare a ben più blasonati esponenti della fantascienza.
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Terminare il capitolo “trasmitter” ci darà modo di impersonare, in “Placebo”, i panni di Tokio Morishima, giornalista incaricato di informare i lettori riguardo le “gesta” del killer di cui sopra e narrando, dunque, da un punto di vista differente la storia vissuta fino ad ora. Trama a parte, ciò che abbatte drasticamente l’interesse nei confronti del seppur ben realizzato “The Silver Case” è la giocabilità: per la quasi totalità del playthrough ci troveremo infatti ad effettuare scelte dopo aver letto immensi muri di testo, avendo a che fare con ritmi narrativi lentissimi, moli di dati pantagruelici ed un livello di interazione con il mondo esterno ai minimi storici. Comprendiamo appieno che tutto ciò vada ad innestarsi alla perfezione nel genere delle visual novel ma, altresì, ravvisiamo quanto questo sistema di gioco, forse accettabile nel lontano 1999, anno di uscita di questo prodotto Grasshopper Manifacture, sia quanto di più astruso ed anacronistico in un periodo in cui l’utenza si è spostata su giochi che fanno dell’ibrido narrazione-interazione la chiave del loro successo.
Ciò che abbatte drasticamente l’interesse nei confronti del seppur ben realizzato “The Silver Case” è la giocabilità.
Dove giocabilità ed interattività falliscono la prova dell’invecchiamento, riesce il comparto grafico: pur non avendo subito drastici cambiamenti da quello concepito oramai diciotto anni fa, lo stesso si fa apprezzare per via di un gusto retrò che ben si sposa con le atmosfere noire-thriller della narrazione. La scelta stilistica di limitare l’impianto grafico ad una serie di vignette, seppure intervallate da brevi sequenze in full motion video e da animazioni spartane, rende benissimo l’atmosfera claustrofobica che si respira nella Tokyo distopica ideata da Suda 51. Alla stessa maniera la colonna sonora, ritoccata ed ottimizzata da Akira Yamaoka, riesce benissimo nel suo intento, contribuendo a definire e rifinire le atmosfere asfittiche dei ventiquattro distretti di Tokyo per tutto il playthrough.
The Silver Case non è un gioco per tutti anzi, The Silver Case è decisamente un gioco per pochi. Interattività ridotta all’osso e sovrabbondanza di informazioni di difficile gestione lanciano The Silver Case in un limbo di poco superiore alla sufficienza, raggiunta solo grazie ad una trama appassionante ma indecifrabile e ad un comparto grafico-sonoro apprezzabile. La mancata traduzione in italiano va a limitare ancor di più l’utenza di una visual novel che porta su di se il peso dei 18 anni che separano i nostri giorni dal suo dayone originale. Consigliato solo se siete fan sfegatati di Suda 51, dotati però di pazienza e spirito di sacrificio: vi serviranno entrambe |
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