Get Even
21 Giu 2017

Get Even – Recensione

Get Even non è un titolo facile da inquadrare. Viscerale, subdolo e con un talento innato nell’ingannare le aspettative e le previsioni del giocatore, l’ultima opera dei ragazzi di The Farm 51 è uno di quei titoli che, senza mezzi termini, o si ama o si odia. Ce lo disse, in tempi non sospetti, lo stesso producer del team Polacco al termine di un’hands on entusiastico – almeno per noi – in quel di gamescom 2016: un’affermazione a cui, su due piedi, ci riusciva quasi difficile credere, viste e considerate le ottime premesse su cui poggiava la nuova IP Bandai Namco – senza considerare la bontà di un team di sviluppo sì ancora relativamente giovane, ma capace di regalare esperienze interessanti come Chernobyl VR, NecroVisioN o Deadfall Adventures. Del resto, era impossibile non cogliere già in quei primissimi minuti di Get Even un fascino morboso e malato: una scatola nera che gioca con la realtà e l’allucinazione, delineando un contorno tra ragione e follia destinato, minuto dopo minuto, a divenire più esile e sfumato.

Su Get Even, inutile nasconderlo, avevamo riposto parecchie speranze. Quel fascino weird che ricordava il Lynch dei tempi migliori, unito alle visioni deliranti di Memento e agli incubi ad occhi aperti di It Follows, ci sembravano il terreno ideale per coltivare un thriller inedito, angosciante, capace di reinterpretare in modo insolito e personale un terreno battuto oramai sin troppo volte – e, sfortunatamente, non sempre con rispetto. Dopo aver trascorso parecchio tempo in compagnia di Cole Black in un viaggio dove reale e virtuale vanno drammaticamente a mescolarsi, portando in superficie angosce sopite e peccati di cui, probabilmente, sarebbe stato meglio dimenticarsi del tutto, possiamo affermare due cose. Che la realtà virtuale, se messa nelle mani sbagliate, potrebbe essere meno divertente di quanto si pensi. E che Get Even, al netto di una narrazione strepitosa, ha soddisfatto buona parte delle nostre aspettative.

Get Even ruota attorno a Cole Black, investigatore privato dal passato oscuro nonché misterioso perno di un puzzle indecifrabile la cui chiave di lettura, a quanto pare, è nascosta da qualche parte nella sua testa. Una situazione non certo inedita quella tratteggiata da The Farm 51, soprattutto in un contesto da celluloide dove gli incipit di questo genere si contano facilmente: eppure lo sviluppatore polacco stupisce già dai primissimi minuti, quando un rapimento “semplice” soltanto all’apparenza dà il via ad un effetto domino imprevisto ed imprevedibile, col torvo protagonista sopravvissuto ad un esplosione e ritrovatosi con un assurdo macchinario per la realtà virtuale, il Pandora, ancorato sul capo. Il resto è una scatola cinese di ricordi, ricreati e interpolati dal “Pandora VR” in modo da essere “rivissuti” da Black stesso, e di angosciante esplorazione all’interno di quel che rimane di una vecchia casa di cura – rea della conduzione di esperimenti sulla psiche umana malata non certo tradizionali. Il tutto guidati da Red, autoritaria voce androgina che parla attraverso i numerosi schermi dislocati nella struttura e che, di volta in volta, ci esorterà ad abbandonare dubbi ed incertezze per spingerci alla ricerca, all’esplorazione e al reperimento di indizi sfuggiti alla nostra memoria, utili alla ricomposizione ultima del puzzle.

Get EvenUn puzzle che si rivela essere molto più diabolico e complesso del previsto già dopo le battute introduttive del gioco, quando un flashback all’apparenza privo di significato ci fa rivivere (a mo di Matrix, ad onor del vero) i passi di un pericoloso furto, operato da Black stesso ai danni di una multinazionale specializzata nel settore tecnologico della difesa. Un’arma direzionale, quella che ci accompagnerà per la quasi totalità delle sequenze Pandora e che, da comodamente nascosti dietro un riparo, permette di “piegarne” la canna per colpire il nemico in tutta tranquillità, senza abbandonare la copertura. Qual è il legame tra questo furto e il rapimento incriminato con cui si apre Get Even? Beh, questo sta a voi scoprirlo: una scoperta indubbiamente coinvolgente e affascinante, forte di un comparto narrativo estremamente ben congegnato dallo sviluppatore polacco che, dosando sapientemente piccoli bocconi narrativi, porta a compimento un puzzle mastodontico incline al colpo di scena e all’inaspettato.

Get Even si muove dunque su due binari narrativi contrapposti, seppur profondamente dipendenti uno dall’altro: quello reale, o presunto tale, che vede Black districarsi tra le pareti di un manicomio fatiscente pieno di ceffi malintenzionati, anch’essi “equipaggiati” di un sistema Pandora ed organizzati secondo uno schema gerarchico che fa riferimento al Mastro Burattinaio, e quello “virtuale”, figlio della tecnologia attorno alla quale gioca l’intero titolo e che permette al nostro alter ego, guidato pedissequamente dall’oscuro Red, di rivivere sequenze passate della propria vita. Sequenze che lui ha dimenticato per qualche oscuro motivo, ma che sono rimaste impresse come ricordi nella sua memoria – e dunque accessibili, grazie al delicato marchingegno. Un marchingegno futuristico, tanto interessante quanto inquietante, sulla cui genesi vigono segreti indicibili le cui barriere man mano sono destinate a sgretolarsi.

Get Even si muove su due binari contrapposti, seppur profondamente dipendenti

L’ambivalenza narrativa trova un degno parallelo anche in termini di gameplay, anch’esso composto da due filoni distinti che vanno ad alternare una profonda esplorazione investigativa ad una componente shooter, purtroppo appena sufficiente. Focus del nostro peregrinare nell’insana casa di cura e, parallelamente, all’interno delle ricostruzioni dei nostri ricordi è il reperimento di indizi, necessari a sbrogliare il nodo gordiano culminante nel rapimento della fanciulla senza nome e, inesorabilmente, a svelare loschi figuri, tradimenti e misteri che sottendono allo scellerato evento. A facilitare il compito del detective ci pensa un piccolo palmare portatile, dalle dimensioni di uno smartphone di nuova generazione, che offre un interessante set di feature indispensabili per una veloce analisi forense: un rilevatore termico, una torcia al luminol per l’identificazione delle tracce organiche, un sistema di acquisizione fotografica delle prove collegato ad un’intelligenza artificiale che, in perfetta autonomia, reperisce qualsivoglia informazione (dall’identità allo stesso DNA, passando per le tradizionali impronte digitali) a partire dal reperto scansionato.

Il grosso degli indizi, inutile dirlo, è da ricercare nella scarsa dozzina di ricordi di cui si compone la nostra indagine – ciascuno dei quali potrà essere rivissuto un numero arbitrario di volte, non appena acquisito l’accesso alla stanza delle prove. Raccogliere il 100% degli indizi disponibili premierà il giocatore con un codice, necessario a sbloccare una porta elettronica non accessibile “al primo giro” e dietro cui, di solito, si nascondono nuove armi e oggetti interessanti. Un trucco che giova non poco alla rigiocabilità del titolo, che offre comunque un set di finali multipli dipendenti da alcune scelte e da specifiche condotte adottate nel playthrough (un approccio “total stealth”, per quanto complicato da adottare nelle sequenze conclusive, potrebbe riservare sorprese non indifferenti).

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In modo del tutto parallelo prosegue il filone “reale”, che vede Black imprigionato in una struttura inospitale e popolata da individui poco raccomandabili. L’imperativo è farsi strada lungo le varie insidie che si celano tra quelle pareti, senza tuttavia disdegnare la risoluzione di un paio di enigmi ambientali e, ancora una volta, la raccolta di indizi, testimonianze e documentazioni, che danno uno sguardo ulteriormente approfondito al macrocosmo che gravita attorno alle sciagurate vicende che vedono protagonista il nostro alter ego. L’esplorazione, per quanto affascinante e coinvolgente si dimostri – grazie anche alla versatilità dello strumento in possesso di Black – soffre però di una linearità alquanto evidente, laddove l’esistenza di un unico percorso principale e pochissime deviazioni (destinate comunque a divenire cieche entro pochi metri) rendono impossibile perdersi o di ritrovarsi spaesati, senza intuire la prossima mossa. Get Even è carismatico come pochi nella propria narrazione, e questo rappresenta uno dei pungoli meglio riusciti dagli scrittori di Farm 51 per spingere ulteriormente all’esplorazione e alla ricerca di indizi – una scelta che premia in termini di longevità, che si assesta sulle 12 ore circa per una run “normale” ma, stando a quanto riferito dagli stessi dev, può triplicare o addirittura quadruplicare per stanare ogni singolo indizio.

L’altro lato della medaglia, tuttavia, coincide con una ripetitività nelle azioni di gioco a tratti evidente: non fosse per il citato mordente narrativo (e per la quantità di informazioni interessanti sciorinate dal nostro assistente digitale) difficilmente, dopo il primo giro di boa, l’interesse a scansionare prove o a raccogliere evidenze rimarrebbe elevato come nelle battute iniziali. Lo sviluppatore ovvia parzialmente a questo problema alternando l’esplorazione “investigativa” a brevi sezioni oniriche – dai chiari rimandi Hollywoodiani – forieri di ulteriori dettagli sul passato di elementi cruciali nell’economia della storia. Una soluzione interessante, che getta ulteriore benzina sul quel fuoco “weird” che permea l’intera produzione.

Get Even è carismatico come pochi nella propria narrazione

Dove Get Even incespica in modo evidente è nella propria componente shooting, mai davvero incisiva (nonostante le possibili soluzioni derivanti dall’utilizzo della pistola angolare) e – specie nelle fasi conclusive – ai limiti del fastidioso e frustrante. Dell’assenza di un feeling distintivo associato a ciascuna arma finirete per dimenticarvi in fretta, di fronte ad una intelligenza artificiale nemica un po’ troppo datata e ad una gestione della balistica in generale abbastanza approssimativa – un fucile da sniper che non dà traccia di oscillazione a zoom massimo, nel 2017, qualche perplessità te la fa venire.

Nel complesso, le fasi shooting si dimostrano raffazzonate e non propriamente profonde, lasciando aperta sulla carta la possibilità (per chiunque non prediliga l’approccio stealth) di fare letteralmente fuoco e fiamme senza troppi indugi, nonostante i rimproveri costanti di Red. Complice la scarsa resistenza al fuoco nemico del protagonista, destinato a cadere rapidamente sotto le raffiche nemiche, e l’assenza di un mirino tradizionale per l’arma angolare, sostituito dallo stesso schermo del nostro gingillo, per gran parte del tempo si finisce a sparare da dietro una copertura, aspettando che la testa del morituro di turno faccia capolino quella frazione di secondo che basta a siglare l’ennesimo headshot. Un’idea interessante, questo è indubbio, ma sfruttata soltanto parzialmente.

get evenPositivamente più impressionante l’impianto tecnologico di Get Even, capace di convincere in termini tanto sonori quanto grafici al netto di un paio di piccole imperfezioni. Lato audio, ottima la prestazione della tecnologia Auro-3D, capace non solo di spazializzare in modo significativo ciascuna sorgente sonora (a patto di avere un headset con adeguato supporto all’audio multicanale), ma anche di dare corpo e rotondità a ciascun suono – per un risultato che, alla prova dei fatti, si è convalidato convincente e piacevole. Ottima senza riserva la colonna sonora, firmata da Olivier Derivière e capace di irretire i sensi del giocatore sin dal menù di gioco iniziale. Inebriante, ma allo stesso tempo oscura e misteriosa proprio come la sceneggiatura di Get Even, quella di Derivière è una delle opere più interessanti che abbiamo ascoltato nell’ultimo periodo.

Get Even è un titolo controverso

Per quanto concerne la direzione grafica, Get Even vanta delle esterne interessanti e dettagliate, a cui si alternano sequenze interne particolarmente claustrofobiche e ben riuscite. La cura del dettaglio in termini di environment (basta osservare i pavimenti scalcinati della location iniziale, o le mura erose e dipinte da graffiti sbiaditi) lascia senza parole anche su PS4 Pro, facendo sperare risultati persino migliori per la versione PC: certo, alcuni tratti appaiono più asettici e meno particolareggiati di altri, ma il colpo d’occhio complessivo risulta sempre soddisfacente ed estremamente realistico.

L’unico neo è rappresentato dal set di animazioni non sempre aggiornatissime e da delle routine comportamentali nemiche leggermente anacronistiche: non un peccato capitale in un quadretto che predilige le tinte cupe e la penombra, innestandovi tecnologie futuribili quali ologrammi e virtualizzazione dei ricordi. Un “tecnologicamente pericoloso” reso su schermo in modo interessante, con corpi che si formando progressivamente come matrici di pixel regalando istantanee del passato, per poi degradarsi quasi davanti ai nostri occhi lasciando solo una bozza della propria superficie. Ma che Get Even fosse maledettamente weird, questo ve l’avevamo già ribadito più volte.

Conclusioni

Get Even è un titolo controverso. Morboso nella narrazione, suadente ed ammaliante nella colonna sonora, introduce accorgimenti di gameplay interessanti e funzionali nel proprio complesso destinati tuttavia ad inciampare in una serie di difetti di cui è difficile non accorgersi. Da una linearità evidente ad una ripetitività non certo trascurabile delle meccaniche base, passando per una componente shooting solo sufficiente e con ampi spazi di ottimizzazione, l’ultima fatica di The Farm 51 si colloca in una posizione intermedia, dimostrandosi maggiormente appetibile agli amanti della sceneggiatura e del colpo di scena (per i quali il voto in calce può essere tranquillamente alzato di un punticino) piuttosto che agli affezionanti della sparatoria e dell’azione.

Forte nelle tematiche narrate, criptico e volutamente inintelligibile se non una volta raggiunte le battute conclusive, Get Even è un climax ascendente di quesiti, dubbi, e angoscianti rivelazioni che preludono misteri ancora più oscuri. Una dicotomia costante, capace di danzare voluttuosamente sopra quel filo che separa la lucidità dalla follia più profonda: un biglietto da visita estremamente accattivante, quello presentato dal team polacco, ma che – forse – avrebbe meritato qualche accorgimento ulteriore una volta stretto il pad tra le mani. Di certo, le molteplici chiavi di lettura – così come molteplici saranno i finali a disposizione del giocatore – rappresentano un valore aggiunto non certo trascurabile nell’economia della produzione: ma, al posto vostro, non ci fideremmo delle semplici apparenze. Nell’intricato ordito tessuto dai sensi, dai ricordi e dalle elaborazioni digitali del Pandora, non c’è abbastanza luce per illuminarne le numerose zone d’ombra.