Tacoma

Tacoma – Recensione Xbox One

Parlando dell’apprezzato genere del walking simulator, difficile non tirare in ballo ragazzi di Fullbright. L’indipendentissimo studio con sede nell’Oregon e composto alla fine dello scorso anno da poco meno di dieci dipendenti, oggigiorno lo conosciamo un po’ tutti: un titolo d’esordio come Gone Home, del resto, non capita certo a tutti. Un’avventura incredibile, quella tratteggiata dalla penna di Steve Gaynor, una storia morbosa dalla potentissima carica emotiva che, dopo aver giocato per gran parte del tempo con le certezze del proprio pubblico riusciva a disilluderle in un batter di ciglia, culminando in un magistrale plot twist finale.

Casa Greenbriar, un comprimario pieno zeppo di storie da raccontare travestito da semplice location: una genialata non da poco, quella di Fullbright, delle cui fortune successive siamo tutti ben a conoscenza. Fatta questa doverosa premessa, capirete da soli per quale motivo le aspettative su Tacoma fossero dannatamente alte: un titolo atteso per lungo tempo, questo walking simulator a tinte spaziali, dalle potenzialità narrative incredibili e infarcito di idee interessanti capaci di bissare, almeno sulla carta, il successo del predecessore. Dopo esserci avventurati per una sera nei panni di Amy Ferrier a bordo della stazione orbitante che dà il nome al gioco, non senza un pizzico di amarezza possiamo affermare che sì, Fullbright ci sa davvero fare in termini di narrazione. Ma forse, dopo l’inatteso successo di Gone Home, stavolta il passo ha superato (e non di poco) la lunghezza della gamba.

Tacoma

C’è qualcosa che non va a bordo della stazione orbitante Tacoma: l’impatto contro quello che ha tutta l’aria di essere un meteorite ne ha danneggiato in modo irrimediabile il sistema di areazione, lasciando ai sei ospiti della stazione poco meno di 50 ore di ossigeno: due giorni per trovare una soluzione, per organizzare in qualche modo un’evacuazione o per trovare il coraggio di affidarsi ad un sonno criostatico, seppur i test siano stati tutto tranne che favorevoli. Amy Ferrier, poche ore dopo la scadenza dell’impietoso timer, raggiunge Tacoma su incarico della Venturis Corporation, proprietaria del modulo orbitante, per recuperare quel che rimane di ODIN, avanguardistica Intelligenza Artificiale in grado di gestire ogni aspetto – anche quello più “umano” – della vita su Tacoma. Nemmeno l’ombra di un’anima viva ad attenderla, all’interno di uno scenario asettico e disabitato che non lascia presagire nulla di buono: ma una volta indossati i due moduli per la Realtà Aumentata, incredibili gingilli integrati con l’infrastruttura informatica della stazione, la verità inizia ad affiorare in compagnia di qualche inaspettato segreto.

La parte da leone in Tacoma spetta proprio al citato modulo per l’AR. Grazie ad esso sarà possibile rivivere spezzoni e sequenze di vita dei sei personaggi all’interno della base, con la possibilità di riavvolgere o far avanzare velocemente il tempo in modo da raggiungere rapidamente dettagli narrativi potenzialmente cruciali – indicati sulla barra di avanzamento da un punto di domanda, destinato poi ad assumere l’icona del personaggio a cui essi sono associati. Nella fattispecie, potremo aprire un’interfaccia dedicata a ciascun membro dell’equipaggio, accedendo in questo modo a chat, email o altre informazioni di carattere personale. Questo per dire, insomma, che di cose da scoprire nel titolo Fullbright ce ne sarebbero parecchie – per non dire troppe

Fullbright ci sa davvero fare in termini di narrazione

L’aspetto più interessante legato al riavvolgimento temporale, tuttavia, coincide con la possibilità di rivivere uno stesso spezzone del passato dell’equipaggio modificandone di volta in volta il punto di vista. Basta seguire un personaggio diverso nei propri alloggi, magari, per vederlo vittima della disperazione legata al dover salutare i propri cari via mail, o seguire due donne all’interno di un piccolo laboratorio per scoprire quasi accidentalmente l’amore che le lega. Quelli appena citati sono solo due dei numerosi esempi offerti da Tacoma, che sfruttando questo espediente di gameplay riesce ad articolare la propria narrazione in più piani paralleli, aventi in comune incipit ed epilogo: maggiore la curiosità e il tempo investiti nel “giocare” con il sistema di Realtà Aumentata, maggiori saranno le informazioni sul background della sfortunata truppa spaziale, in un lasso di tempo che spazia da nove mesi prima all’inaspettato incidente agli ultimi istanti prima dell’esaurimento delle scorte di ossigeno.

Tacoma

Sotto questa luce, l’impianto ludico di Tacoma non sembrerebbe soffrire di alcun impedimento capace di negare al titolo un risultato d’eccellenza come quello siglato da Gone Home. La realtà dei fatti è tuttavia più amara, e va dritta a scontrarsi contro una longevità particolarmente risicata, che raggiunge a fatica le due ore: considerando la quantità di informazioni elargite da ODIN e la presenza di ben sei membri dell’equipaggio, si finisce per ritrovarsi con troppa carne al fuoco e troppo poco spazio per approfondirla doverosamente. Il che, in altre parole, si traduce in una caratterizzazione soltanto abbozzata dei personaggi stavolta in gioco, con i quali non si entra mai davvero in empatia (contrariamente a quanto visto in Gone Home) e che finiscono per assumere i ruoli di anonimi attori in una vicenda intrigante solo all’inizio, ma destinata a scivolare rapidamente in un finale troppo affrettato e imprevedibile solo in parte. Fullbright stavolta prova a fare il passo più lungo della gamba, nel difficile tentativo di ricreare una sceneggiatura con personaggi convincenti in un lasso di tempo eccessivamente risicato: nessuno ha di che dire sulla bontà delle penne dei designer americani – e basta leggere i dialoghi per accorgersi di una qualità abbondantemente sopra la media, ma mai come questa volta la coperta è troppo corta per coprire spalle e piedi. E difficilmente riuscirete a legare “emotivamente” anche con uno solo degli sfortunati membri: sarà già tanto se ne ricorderete i nomi propri.

Tacoma appare più ragionevolmente come un’ottima intuizione dalle interessanti potenzialità, seppur sprecate in modo troppo frettoloso.

Al netto di questa inesorabile “frettolosità”, l’eccessiva linearità degli scenari di Tacoma e la riproposizione dei pattern d’azione passano quasi in secondo piano: tre saranno le zone da analizzare prima di aver accesso al cuore di ODIN, e per ciascuna di questa dovremo rivivere un paio di sequenze sfruttando il nostro impianto AR. Superati i dubbi iniziali, ci si ritrova a sfrecciare da un’area all’altra, attivando le sequenze in Realtà Aumentata e recuperando velocemente le informazioni necessarie a procedere: tutto in modo troppo freddo e disinteressato, seppur alcuni passaggi a forte carica emotiva un leggero segno lo lascino.Se Fullbright avesse sviluppato ulteriormente il proprio playtrough, regalando il giusto spazio a ciascun attore in scena ed estendendo (in termini sia quantitativi che qualitativi) l’esplorazione all’interno di Tacoma, saremmo di fronte ad un successore degnissimo del già citato Gone Home: per quanto mostrato in campo, Tacoma appare più ragionevolmente come un’ottima intuizione dalle interessanti potenzialità, seppur sprecate in modo troppo frettoloso. Un’esperienza interessante, sia chiaro, ma da questa gita nello spazio ci saremmo aspettati qualcosa di più emotivamente memorabile.

Conclusioni

Tacoma è un titolo interessante, figlio di un’intuizione estremamente appetibile e con una storia gradevole da raccontare: un’idea con delle potenzialità tangibili, in grado -sulla carta – di riuscire nel difficile compito di bissare il successo, per certi versi inatteso, siglato da Fullbright con Gone Home. Eppure, una volta raggiunti i credits, Tacoma ci ha convinto soltanto in parte, cadendo vittima della stessa ambizione del proprio team di sviluppo che, in un lasso di tempo troppo contenuto, cerca (vanamente) di racchiudere troppe cose. E il risultato, con queste premesse, può essere soltanto uno: non c’è spazio per approfondire la sfera più intima di ciascun personaggio, la sua emotività e le sue paure, relegandolo piuttosto al ruolo di attore semi-anonimo con cui è difficile instaurare anche un semplice legame.

Tacoma, insomma, scivola proprio a causa della volontà dello sviluppatore di catturare il giocatore, di coinvolgerlo in un universo interamente votato alla narrazione. Con una longevità maggiore e un occhio di riguardo più attento alla componente esplorativa, il secondogenito di Fullbright avrebbe potuto raggiungere risultati decisamente maggiori: per questa volta, purtroppo, dobbiamo accontentarci di un viaggio nello spazio che finisce per essere un po’ troppo anaffettivo. Forse persino più della stessa intelligenza artificiale che andiamo cercando.

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