Di “American Dream”, di questi tempi, se ne vedono sempre meno. Tra i più fulgidi esempi c’è però, e senza alcuna ombra di dubbio, la storia di Brendan Greene e del suo progetto, PlayerUnknown’s Battlegrounds. Nato sotto forma di mod di Arma 3, caricata poco più di tre anni fa sui server del sito Mod DB dall’allora sconosciuto utente PlayerUnknown (e nome non fu più azzeccato, ndr), ha iniziato a fare il giro della rete, sorretto da un massiccio passaparola e da un entusiasmo dovuto all’interessante formula adottata, a sua volta ispirata dal romanzo “Battle Royale” di Koushun Takami.
Con quel progetto alimentato da sola passione, Brendan gettò le fondamenta di quello che è, senza timore di smentita, il gioco del momento. PlayerUnknown’s Battlegrounds lo gioca praticamente chiunque, ne scrive praticamente chiunque, lo vede giocato su Twitch praticamente chiunque, nonostante sia ancora un po’ spigoloso, povero di contenuti, per giunta in Early Access. Eppure sono più di 10 milioni gli utenti che han deciso di dargli fiducia (e 30 €), e circa un quinto lo si trova perennemente online, ad intasare i poveri server del team, Bluehole Studio, che ora segue e dà vita alla brillante intuizione di Greene, stracciando giorno dopo giorno record su record, e guardando dalla cima della classifica dei titoli più giocati, dall’alto verso il basso, capisaldi del calibro di Dota 2 e Counter-Strike: Global Offensive.
Ma cos’ha di così speciale? Continuate a leggere per scoprirlo.
Come detto, ad aver lasciato il segno è la formula di gioco alla base di PlayerUnknown’s Battlegrounds, che prende l’ossatura principale tutta realismo e sopravvivenza del già citato Arma 3, e ci costruisce attorno un vero e proprio show, un “Last Man Standing” in cui non necessariamente il più forte resta in vita come ultimo superstite e viene dichiarato vincitore. Non serve la forza, non serve crearsi un arsenale, o rincorrere giri di “Prestigio” per sfoggiare l’arma più colorata e potente in circolazione. Non serve nulla di tutto ciò perché, semplicemente, non è contemplato: manca un sistema di crescita, di accumulo punti esperienza (mentre l’esperienza in sé per sé, accumulata a suon di partite, beh, quella è fondamentale), e soprattutto, si scende sul campo di battaglia vestiti dei soli accessori (puramente estetici) trovati nelle loot box acquistabili con la valuta in-game, che però non hanno alcun impatto sulle performance dei giocatori, 100 in ogni partita, tutti ad armi pari, anzi, sprovvisti delle stesse.
Quelle bisogna sperare di trovarle da qualche parte: già, perché nonostante l’enorme (e al momento unica) mappa abbia centri abitati, zone industriali, strutture e foreste ben riconoscibili, anche dall’alto, la disposizione di armi, munizioni, med-kit e protezioni all’interno di case e depositi è assolutamente casuale. In alcune aree, quelle solitamente più popolate dai giocatori più esperti, sarà più semplice trovarne, ma sono fortuna e casualità a regnare sovrane in ogni partita: in alcune occasioni ci siamo ritrovati con l’arsenale pieno (si trovano “zaini” più capienti, ma pur sempre con un limite, e si possono equipaggiare quattro diverse tipologie di arma per volta: melee, pistola, shotgun e fucile automatico) uscendo dalla prima casupola ripulita, in altre, siamo finiti in Top 10 armati di una misera pistola. Diventa quindi impossibile avere un personale punto di riferimento, in quanto la disposizione randomica degli oggetti smonta le già poche certezze presenti, costringendo però il giocatore ad adattarsi ad ogni nuova partita, rendendola, di fatto, sempre diversa, unica ed imprevedibile.
Ed è proprio l’imprevidibilità il piatto forte di PlayerUnknown’s Battlegrounds: stiamo pur sempre parlando di cento giocatori con cento diversi approcci, cento diversi modi di ragionare e di adattarsi ai fattori esterni, e anche cento diversi momenti in cui decidono di paracadutarsi dall’aereo che, all’inizio di ogni partita, sorvola l’isola per “scaricare” i partecipanti. Basta poi aggiungere a questa marea di variabili la stessa possibilità di trovare un misero machete o un devastante mitra, ed ecco spiegato il successo delle trasmissioni sulle piattaforme di streaming, con lunghi match da 20-30 minuti mai uguali tra loro e seguiti con attenzione fino all’ultimo momento, ma anche tra i giocatori stessi, assetati di adrenalina, di una tensione crescente, che accompagna non solo negli scontri a fuoco, il più delle volte meno frequenti di quel che si può immaginare (almeno nei primi frangenti), quanto più negli spostamenti da un rifugio all’altro, da una succosa fonte di loot all’altra.
Il terrore di beccarsi un proiettile in testa, di essere visti dagli avversari, di finire nella trappola di qualcuno meglio equipaggiato, è impagabile, e ad accrescere quell’ansia perenne ci pensa il solo alleato, almeno nella modalità in solitaria (ci sono server ad hoc per giocare in due o con una squadra vera e propria), a disposizione di ogni giocatore. Ci riferiamo al rumore, ma anche l’assenza dello stesso: sparatorie in lontananza ci fanno capire che è il caso di cambiare strada; un aereo che sorvola l’isola copre qualsiasi colpo sparato, rappresentando la perfetta occasione per una kill indisturbata; e infine all’interno delle case stesse, in cui ogni passo e cigolio separano la vita dalla morte, e una semplice porta lasciata aperta instilla il timore di avere una potenziale minaccia a qualche metro di distanza. Ogni dettaglio conta in PlayerUnknown’s Battlegrounds, così come ogni singolo errore di valutazione.
A rendere ancor più elettrizzante la formula ci pensa la costante necessità, da parte del giocatore, di muoversi, pena, la morte: una necessità dettata, in primis, dai bombardamenti casuali all’interno di aree rosse, segnalate sulla mappa con tanto di messaggi e alert su schermo che invitano ad allontanarsi il prima possibile (camperoni inclusi), ma anche e soprattutto dall’enorme barriera blu che restringe man mano l’area di gioco, lasciando solo pochi minuti per esplorare case e strutture a caccia di equipaggiamento, per poi iniziare a convogliare i giocatori verso un unico punto, anch’esso sempre diverso da partita a partita. In realtà la morte, con somma gioia dei ritardatari o dei meno attenti, non è istantanea: i giocatori più esperti e muniti di med-kit possono infatti sfidare questa forza sovrannaturale, così da dedicarsi al loot più sfrenato senza il timore di ritrovarsi altri avversari tra i piedi, ma anche in questo caso è richiesta prontezza, astuzia, e possibilmente un veicolo con cui spostarsi più agilmente quando le cure (che comunque richiedono dei secondi di pericolosa inattività per essere utilizzate) scarseggiano. Veicoli, peraltro, indubbiamente utili, ma che, per forza di cose, applicano un bersaglio ben visibile sulla testa del giocatore, ben riconoscibili come saranno anche a distanza.
L’importante, comunque, è lasciarsi indirizzare da questa barriera e confluire nel teatro dello scontro finale, badando bene di potenziare quanto più possibile il proprio arsenale, sperando di trovare protezioni per corpo e volto di livello maggiore – ne sono 3 in totale –, mirini più precisi, caricatori più ampi e tante altre piccole modifiche in grado di cambiare feeling ed efficacia delle armi trovate. È negli ultimi frangenti che si decide l’esito del match, con il cuore che batte a mille perché bisogna dare il tutto per tutto, essendo molto più difficile esplorare e migliorare l’equipaggiamento con calma, e non essendoci seconde chance: perché una volta morti (ed è tremendamente semplice, tra i med-kit scarsi e l’attuale bilanciamento delle armi), non ci sono respawn, resurrezioni magiche e le comodità offerte da tanti altri sparatutto in terza o prima persona (a proposito, qui è possibile alternarle in qualsiasi momento). Si termina la partita, si contano le kill fatte e i Battle Points ottenuti (acquistabili anche con soldi veri), e si risale (rapidamente, merito della mole immensa di utenti) sull’aereo, ma in un’altra lobby, con tanti altri giocatori, per un’altra partita totalmente diversa dalla precedente e dall’esito ugualmente imprevedibile.
E il bello è che la sconfitta, durante le nostre prove, non è mai riuscita a frenare quella voglia di tornare in battaglia, di aprire ogni singola porta con il costante timore di ritrovarsi delle canne di un fucile puntate alla tempia o i rimasugli di qualcuno che è stato più veloce, di gioire per aver raccolto qualche preziosa granata o il fondamentale mirino 8X. Nonostante i bug che resistono alla frequente pulizia da parte del team di sviluppo, alle hitbox ancora da sistemare, ai crash (sporadici), agli inevitabili momenti morti tra una sparatoria e l’altra che alle lunghe diventano pesanti (ma anche lì, è la casualità a posizionarli nella partita), alla povertà di contenuti, e alla confusione dovuta ad un arsenale forse troppo vasto e frastagliato, tra armi e decine di mod il più delle volte incompatibili tra loro, da scartare e da sacrificare senza starci a ragionare troppo per via della fretta (cattiva consigliera, lo sappiamo) che una simile formula richiede. Per non parlare dell’assenza di un posto tranquillo, magari un vero e proprio poligono di tiro in cui far pratica con quel vasto e confusionario arsenale senza macchiare le proprie statistiche, e di riflesso, il proprio curriculum. Problemi tranquillamente risolvibili da qui al lancio, tra nuove mappe e feature in arrivo, e patch con cui correggere il tiro, su richiesta di una community appassionata e sempre più numerosa, come detto, da record.
Bluehole ha tra le mani qualcosa di pazzesco, che, se sviluppato a dovere, potrebbe anche dire la sua in altri contesti, a partire da quello esport, grazie anche all’approdo su console (con conseguente ed ulteriore sdoganamento), con Microsoft interessatissima ad un’esclusiva a tempo indeterminato sulla sua Xbox One. Ma il condizionale è d’obbligo. E il team si gode il successo al di sopra di ogni rosea aspettativa, sperando però che non si monti troppo la testa, e che non finisca stritolato sotto l’enorme pressione che il successo, le attenzioni e i riflettori si portano dietro.