23 Apr 2018

Detroit: Become Human – Anteprima

“A questo mondo non piace chi è diverso, Markus. Non permettere a nessuno di decidere chi sei.”

 

Queste parole racchiudono perfettamente il senso di Detroit: Become Human, il nuovo titolo nato dalla mente di David Cage e sviluppato da Quantic Dream. Sono forti non solo perché, all’interno di un videogioco, raccontano uno spaccato di quella che è anche la nostra realtà – la paura del diverso e l’imposizione sugli altri in base alle proprie convinzioni – ma soprattutto perché sono rivolte a un androide: un oggetto, umano solo nell’aspetto, che non dovrebbe provare emozioni ma, come presto vedremo, indubbiamente succede. È un discorso complesso ed “emozioni” potrebbe non essere il termine corretto ma qualcosa scatta nei protagonisti di Detroit: Become Human, a dimostrazione che proprio chi non consideriamo umano è forse molto più sensibile di noi stessi. Quale messaggio Cage voglia trasmettere nella sua interezza potremo saperlo solo a gioco completo, eppure alcuni stralci sono filtrati nelle due ore di hands-on a Milano – dove abbiamo anche scambiato due parole con il lead writer Adam Williams.

Siamo nel 2038 a Detroit, chiamata anche “la città degli androidi”. Un futuro non troppo lontano dal nostro tempo in cui la tecnologia è progredita al punto da permettere lo sviluppo di macchine senzienti in tutto e per tutto simili agli esseri umani, inibite tuttavia da una specifica programmazione volta a suddividerli in diverse categorie a seconda del loro utilizzo: alcuni operano nei servizi pubblici, altri si prendono cura delle persone, fino ad affiancare le forze dell’ordine in quanto modelli avanzati. Sono perfettamente integrati all’interno di una società che però, nel migliore dei casi, li tollera come uno strumento utile e nei peggiori li osteggia accusandoli di avere rubato il lavoro – riducendo alcuni cittadini a una vita di stenti ed espedienti per sopravvivere.

In un certo senso è come vedere un secondo Blade Runner e fa sorridere pensare che negli anni ’80 il futuro immaginato da Ridley Scott sia il nostro presente (per chi non lo ricordasse, il film è ambientato nel 2019), senza replicanti e solo con l’immaginazione come unico mezzo per esplorare un domani che, presto o tardi, diventerà oggi. Prima ancora del cinema, a dirla tutta, c’è stato Isaac Asimov negli anni ’50 a immaginare un futuro dove robot senzienti sarebbero stati creati e messi a servizio e protezione dell’umanità, per finire poi a fare l’esatto contrario. Insomma, siamo sempre all’inseguimento di questo futuro distopico che ha popolato le menti di diversi autori fino ad arrivare allo stesso Cage il quale, ispirato anche dalle teorie dello scienziato Ray Kurzweil autore del saggio “La singolarità è vicina”, ci presenta le possibili conseguenze di un affidamento totale dell’uomo alla tecnologia – ignaro o forse incurante di quei sottili meccanismi sotto la superficie e del fatto che non importa quanto avanzata, una programmazione può sempre essere violata. Il problema sorge quando a farlo è la macchina che avrebbe dovuto obbedirvi.

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Il focus di Detroit: Become Human è proprio questo. La creazione di una crepa all’interno di una società apparentemente perfetta, la nascita dei cosiddetti “Devianti”: androidi che hanno violato la propria programmazione spinti da stimoli esterni tragicamente troppo umani perché noi, da giocatori e spettatori, non possiamo riconoscerli. C’è l’istinto di sopravvivenza, quello di protezione verso altri, di ribellione verso una condizione che è stata imposta… le cause sono molteplici e dipendono dai contesti ma la conseguenza è univoca, questi androidi diventano un pericolo per la società perché arrivano a comportarsi fuori dagli schemi. E, riprendendo l’introduzione dell’articolo, a nessuno piace chi è diverso: un’accezione che ha almeno un duplice significato – diversità fisica, sì, ma anche mentale. Sì ha paura di ciò che non si conosce, di qualcosa che va oltre le nostre abitudini e il nostro modo di pensare, ed è proprio questo che spinge il governo a una spietata caccia ai Devianti: macchine che per la prima volta sperimentano il libero arbitrio sono imprevedibili e l’imprevedibilità non trova posto in una società come quella di Detroit. Lo sa bene Markus, forse il Deviante per eccellenza, ma lo sperimenta anche Kara nella sua volontà di proteggere Alice e chissà, forse arriverà a pensarlo persino l’ambiguo Connor, il personaggio più difficile da interpretare ma al contempo pericoloso per gli altri due protagonisti perché il suo compito specifico è dare la caccia ai Devianti – un Rick Deckard in giacca e cravatta, che non sogna unicorni a occhi aperti e applica con assoluta dedizione la programmazione per cui è creato.

Detroit: Become Human è una storia che cambia riga dopo riga

Tutto questo però, il modo in cui i protagonisti decidono di comportarsi e le conseguenze che ne derivano, dipendono interamente da noi e mai prima di adesso l’illusione della scelta non si mette più di traverso rispetto alla narrazione. Sembra che Quantic Dream stia davvero dicendo al giocatore “vai, costruisci la tua storia” e la portata di questa possibilità è chiaramente espressa dal diagramma di flusso che potremo consultare alla fine di ogni capitolo: sono così tante le variabili e altrettante le imprevedibili conseguenze che ne derivano da farci vivere le situazioni con maggior impatto di quanto sia mai accaduto in precedenza. Questa volta, letteralmente, la vita dei personaggi è sul palmo della nostra mano e la loro sorte sarà determinata soltanto dalle nostre decisioni. Vivere o morire non è mai stato così semplice, in Detroit: Become Human ma, aspetto ancora più coinvolgente, al racconto non importa se qualcuno rimane indietro: continuerà fino alla sua conclusione, prendendo semplicemente una svolta diversa. Siamo di fronte a una storia che cambia non pagina dopo pagina, bensì riga dopo riga. Uno spaccato impietoso di quella che potrebbe essere la vita stessa, senza seconde possibilità: certo, potremmo ingannare il sistema e cercare altre soluzioni ma chissà che non ci riportino allo stesso punto o a qualcosa di addirittura peggiore. Il fascino del gioco è anche questo: fondarsi sull’incertezza del futuro, persino quello più immediato.

Prendiamo a esempio la situazione che tutti abbiamo imparato a conoscere in questi mesi di presentazioni e gameplay: l’ostaggio. Connor è chiamato a offrire supporto in una situazione estremamente delicata dove un Deviante ha ucciso il padre della famiglia presso cui lavorava e preso in ostaggio la figlia, che minaccia con una pistola sul bordo del balcone a chissà quanti piani di altezza. È stressato e, come il gioco stesso ci insegna, un androide che eccede nei livelli di stress (potremmo chiamarlo sovraccarico) non solo diventa pericoloso per gli altri ma tende all’autodistruzione. Detroit: Become Human non rivoluziona il gameplay rispetto a quanto abbiamo visto con Heavy Rain o Beyond: Two Souls ma arricchisce l’interazione con l’ambiente e, soprattutto, rimane uno dei pochi titoli a sfruttare nel complesso le caratteristiche del DualShock 4 – touchpad e controlli di movimento in primis. Abbiamo molte possibilità per concludere questa triste vicenda tuttavia è ovvio voler puntare a quella migliore, ovvero costruire un contesto rilassato entro il quale il Deviante possa sentirsi abbastanza tranquillo da negoziare. Per far questo è necessario analizzare la scena del crimine in ogni minimo dettaglio, così da aumentare le nostre possibilità di successo, e una volta sul campo sfruttare al meglio i dati ottenuti per spingere il Deviante a fidarsi di noi. È un delicato equilibrio tra fermezza e accondiscendenza, nel quale impedire all’androide di avere il polso della situazione ma al contempo fargli credere di essere al comando. Una parte fondamentale deriva dunque dall’esplorazione, il resto è tutto in mano nostra e del nostro istinto. Per stabilire i fatti, Connor può analizzare la scena e dare vita a un palazzo mentale (similmente a Jayden in Heavy Rain o nella serie Batman Arkham) dove ricostruire l’accaduto: la situazione può essere gestita a piacimento, ruotando la telecamera di trecentosessanta gradi per trovare il dettaglio che ci sta sfuggendo, mandando avanti o riavvolgendo la sequenza fino a trovare il punto giusto. Soddisfatte le condizioni, i fatti diventeranno più chiari.

Detroit: Become Human è un interactive drama profondo e coinvolgente

La recitazione di Connor, impersonato dall’attore Bryan Dechart, è particolarmente forte. Crea un imbarazzante distacco verso la situazione che delinea l’assoluta mancanza di emozioni dell’androide: è come se stesse sforzandosi di apparire umano ed è proprio questa evidente contraddizione a rendere significativo l’intero capitolo. Se il diagramma poco sopra, riferito proprio a questa situazione, vi sembra piuttosto diramato sappiate che ce ne sono di molto più complessi andando avanti e che le situazioni si faranno più complicate a mano a mano che i rispettivi intrecci narrativi dei personaggi si complicheranno. Ognuno mostra una natura (di nuovo, è possibile parlare in questi termini?) differente che starà a noi sviluppare o meno. Guideremo una rivoluzione sanguinosa nei panni di Markus, oppure ci dimostreremo un leader che vuole solo il bene della sua “gente” e non intende creare un conflitto che peserà per entrambe le parti? Nei panni di Kara, proteggeremo Alice senza creare alcun legame con lei o seguiremo quello che a conti fatti potrebbe essere considerato un istinto materno? Cosa ne sarà poi di Connor, il cacciatore di Devianti, quando la sua strada – ed è probabile accadrà – si incrocerà con quella degli altri due protagonisti? Detroit: Become Human non è un gioco di riflessi pronti e prove fisiche da superare ma una storia nella quale si susseguono scenari che chiedono a noi di essere diretti. Un interactive drama profondo e coinvolgente, dove svestiamo i panni del giocatore per vestire quello del regista: questa volta con un controllo sulle singole situazioni come non si era ancora visto.

“Che cos’è, dunque, la Singolarità?”, scrive Kurzweil. “È un periodo futuro in cui il ritmo del cambiamento tecnologico sarà così rapido e il suo impatto così profondo, che la vita umana ne sarà trasformata in modo irreversibile”. È una prospettiva affascinante, tipicamente eccentrica e controversa, in perfetto stile Quantic Dream che ci ha già abituato a simili slanci, ma Detroit: Become Human è diverso – tocca temi molto importanti e al contempo scottanti, difficili da trattare. Ce li pone di fronte in tutta la loro durezza, nel brutale realismo che li distingue. E lo fa mettendoci in mano un androide che pretende di essere umano, colpendoci forse (lo scopriremo definitivamente solo a gioco completo) con una verità destabilizzante: in un futuro nemmeno troppo lontano, i veri umani potrebbero essere proprio gli androidi.