«Vogliamo costruire su quanto abbiamo realizzato con Heavy Rain. Abbiamo creato un genere. E vogliamo dimostrare che Heavy Rain non è stato una coincidenza o un colpo fortunato – che è stato davvero qualcosa che ha avuto un senso e che possiamo ripetere». L’anno è il 2011, Heavy Rain ha appena spiazzato milioni di possessori di PlayStation 3 e David Cage, all’anagrafe David De Gruttola, ha appena gettato le fondamenta definitive su cui posare i mattoni di un genere del tutto nuovo. Un genere destinato a far parlare di sé in modo polarizzante, tanto in termini positivi dall’oceanica pletora di seguaci dell’autore francese, quanto negativi, da chi ha sempre considerato la produzione Quantic Dream come un’evoluzione – persino opinabile – del defunto laser game. E c’è poco da fare, che piaccia o no il signor Cage è uno che la vede lunga: una lungimiranza che non significa certo successo garantito – e l’accoglienza “buona ma non troppo” di Beyond: Due Anime ne è la dimostrazione perfetta: ma che dimostra come, se lo studio francese tanto ha investito in questo ideale, un motivo c’è. E nell’anno del Signore 2018, un anno che i possessori di PS4 non dimenticheranno facilmente, quel motivo prende il nome di Detroit: Become Human.
Inutile dire che le aspettative sul quinto titolo dello studio parigino, già dal 2016, erano stellari. Vuoi per un comparto tecnologico all’avanguardia già dalle prime demo tecniche rilasciate, vuoi per quel fascino indiscutibile che la narrativa di Cage e soci ha saputo trasmettere (almeno su chi vi scrive) sin dai tempi del mai troppo lodato Omikron, Detroit: Become Human ha incarnato negli ultimi 24 mesi il sogno videoludico di milioni di giocatori, curiosi di scoprire i segreti di quell’universo futuristico e futuribile che tanto, almeno ad un primo sguardo fugace, deve a pietre miliari del calibro di Blade Runner. Che poi, a volerla dire davvero tutta, nelle oltre quindici ore circa di un primo playthrough, di citazioni alla letteratura sci-fi ne troverete tranquillamente a dismisura: il che può solo far piacere agli amanti del genere, questo è fuori da ogni dubbio, ma non cambia di una virgola quella che oggi è una verità incontrovertibile. Che David Cage e i suoi Quantic Dream hanno dato la consacrazione definitiva ad un progetto nato anni or sono, riuscendo a plasmare un’idea per certi versi quasi folle in un qualcosa di magnetico, indimenticabile, persino toccante. Detroit: Become Human non è solo quel capolavoro che stavamo aspettando in molti: ma è la materializzazione di una visione, di un modo unico di concepire questo medium. E che ci crediate o no, c’è solo da rimanere a bocca aperta.
Iniziamo questa analisi proprio da quello che, per molti, rappresenta il punto più critico dell’intero operato di Cage e Quantic Dream: le meccaniche di gioco. Chiunque abbia già avuto modo di provare con mano uno qualsiasi dei titoli del team francese, in special modo Heavy Rain o Beyond: Due Anime, difficilmente necessiterà di lunghi tempi di rodaggio prima di prendere confidenza col gameplay di Detroit: Become Human. Un titolo che, per propria stessa natura, evolve a nuova dimensione il concetto delle vecchie “avventure grafiche” combinando una matrice di carattere prevalentemente esplorativo a logiche di Quick Time Event e azioni contestuali, indicate a video dalla combinazione di tasti da premere al momento opportuno. Una logica drammaticamente semplice ed intuitiva, ma non per questo banale, che riesce a rendere l’avventura di Connor, Kara e Markus universale e adatta a chiunque, anche a chi non gode di eccessiva dimestichezza mentre stringe un pad tra le mani. Non è infatti casuale l’introduzione di una doppia modalità di gioco, scelta astuta che, semplificando le combinazioni di tasti richieste contestualmente, permette al giocatore meno esperto di concentrarsi maggiormente sulla narrazione senza incorrere in crampi alle dita – o, come nel caso di chi vi scrive, senza obbligare a ricorrere al naso o ad altri trucchi per premere il tasto indicato al momento opportuno. Viene da sé che la scelta ideale, tra le modalità Casual ed Experienced, dipende strettamente dal grado di confidenza del giocatore con le meccaniche tradizionali di Quantic Dream: la seconda, indubbiamente, renderà più probabili errori – che, inutile dirlo, pagheremo anche a caro prezzo non solo nell’immediato – e richiederà non poca “manualità”. Ma se, oltre alla narrazione, foste anche alla ricerca di una sfida stimolante e a tratti impietosa, indubbiamente è la scelta che fa al caso vostro.
Volendo semplificare al limite l’offerta ludica di Detroit: Become Human, il fulcro di gioco si sviluppa ancora una volta sull’esplorazione delle numerose location, sfruttando questa volta le particolari “doti” dei protagonisti androidi – che godono di una modalità visiva speciale, attivabile con la pressione dell’opportuno bumper, che permette in molti casi di indicare visivamente indizi, oggetti speciali o elementi con cui interagire. Una volta raggiunto il target, sarà lo stesso sistema ad indicare la modalità d’interazione ed eventuali attività secondarie ad esso collegate. Vale comunque sottolineare un paio di cose, a tal proposito: la prima, che approfondiremo nel dettaglio a breve, è la quasi totale libertà decisionale del giocatore, che potrà analizzare anche il dettaglio più marginale scrutando ogni centimetro dello scenario o, al contrario, omettere volutamente anche gran parte dell’interagibile, magari optando per un approccio a forza bruta dettato dall’istinto. La seconda, ugualmente interessante, è che nell’universo di Detroit: Become Human c’è spazio anche per l’estemporaneità e il “fuori dal seminato”: non mancheranno infatti eventi casuali, scatenati ad esempio dall’esplorazione di una zona particolare dello scenario, o sezioni con oggetti interessanti tuttavia non indicati dal nostro occhio elettronico. Inutile dire che l’iterazione con questi elementi porta con sé conseguenze anche impreviste, capaci addirittura di aprire nuovi bivi narrativi o nuove possibilità di dialogo. Ed è proprio qui che la situazione si fa interessante.
Con Detroit: Become Human c’è solo da rimanere a bocca aperta
Uno degli aspetti più sensazionali di Detroit: Become Human è quella che potremo definire un’esasperazione matematica del concetto di azione/reazione: grandissima parte delle nostre scelte, dalle più cruciali alle più banali (come può essere sfogliare un giornale, ad esempio, o decidere di chiudere elettronicamente una porta alle nostre spalle piuttosto che lasciarla aperta), va a delineare un albero narrativo di proporzioni inedite nella corrente generazione di videogiochi. Stiamo parlando di un approccio rivoluzionario in termini di sceneggiatura, che pone nelle mani di chi gioca un potere al limite del demiurgico nel dipingere quella che, a conti fatti, è una storia del tutto unica e personale. Non stiamo parlando solo di scelte critiche o moralmente devastanti, ma anche di azioni che, in più di qualche occasione, andiamo ad espletare senza nemmeno dare troppo peso. Ogni decisione, in Detroit, pesa come un macigno, e marca in modo indelebile uno e un solo percorso in quel diabolico albero narrativo che ci viene mostrato al termine di ogni scenario: un qualcosa di enorme e, lo ammettiamo, ai limiti dell’incredibile – a dimostrazione del fatto che, se Detroit s’è fatto attendere, ha avuto i propri validi motivi. Abbracciare un’opzione piuttosto di un’altra, scegliere alla cieca o ponderare quella che, al momento, pare la soluzione più corretta secondo la propria moralità – altro aspetto su cui, a breve, spenderemo un paio di righe – potranno avere conseguenze, alle volte persino inattese, non necessariamente nell’immediato intorno di gioco ma, e soprattutto, anche a distanza di ore sul binario narrativo di un altro personaggio. Senza contare il fatto che, proprio espletando alcune azioni specifiche, verranno sbloccate ulteriori opzioni di dialogo e di interazione normalmente bloccate capaci, in alcuni casi, di alterare la percezione e lo stato d’animo che altri NPC, o addirittura l’opinione pubblica, nutrono nei nostri confronti: ma attenzione, il fatto che inizialmente fossero “non disponibili” non significa che, una volta attive, rappresentino la scelta migliore.
Detroit: Become Human, insomma, ruota attorno al concetto di scelta nella sua forma più pura. Un sistema di ingranaggi oliati alla perfezione, che ruotano instancabili sul perno della volontà del giocatore, assecondandone di volta in volta empatie, rancori, dubbi e sospetti. Un butterfly effect di dimensioni ad oggi ineguagliate, che dipana un universo, quello della Detroit del 2038, dove nulla è scritto – e, anzi, tutto muta, nel bene o nel male, alla velocità della luce svelando nuovi percorsi in un labirinto narrativo che, lo ammettiamo senza alcun dubbio, farebbe impallidire gran parte della celluloide Hollywoodiana. Da qui, capirete benissimo due importanti punti a favore della quinta creatura di casa Quantic Dream: l’impossibilità di vedere tutto quello che c’è da vedere in una sola run – che anzi, almeno nel nostro caso, ha svelato solo una minuta percentuale dell’intero scibile di Detroit – da un lato, un coefficiente di rigiocabilità che raggiunge vette stellari dall’altro. Due osservazioni che ci portano ad un altro, fondamentale traguardo: che Detroit: Become Human non è un ibrido tra un laser game e la versione digitale di un libro game, ma la forma più pura di una visione creativa più unica che rara, che regala al giocatore quello che, forse, è il dono più prezioso. La possibilità di creare la propria avventura, passo dopo passo, decisione dopo decisione, errore dopo errore: una dote non certo per tutti, ma sulla cui grandezza c’è poco di cui discutere.
Avrete sicuramente notato come, giunti a questo punto della recensione, non sia stato ancora fatto accenno alla possente trama di Detroit: Become Human. Una scelta voluta, laddove riteniamo che il modo migliore di approcciarsi alla nuova esclusiva PlayStation sia quello di stringere il pad tra le mani con quante meno informazioni possibili a riguardo. Ci limiteremo dunque ad una rapida infarinatura narrativa, laddove da un lato sarebbe comunque impossibile estrapolare un racconto omogeneo (potremmo narrare la nostra avventura, che quasi certamente avrà ben poco a che vedere con quella che creerete voi stessi a partire dal prossimo 25 maggio), dall’altro incorreremmo nel rischio di spifferarvi sezioni e dettagli così critici che, come minimo, finiremmo vittime di feroci rivendicazioni. Detroit: Become Human è ambientato nella città che fa da nome al titolo, nell’anno 2038: alla società umana, evolutasi sì tecnologicamente ma ancora vittima dei retaggi del razzismo e della segregazione, si è progressivamente integrata quella androide, composta essenzialmente da macchine prive di emozioni il cui compito, per lo più, è quello di espletare tutte quelle mansioni che gli uomini, vuoi per pigrizia, vuoi per difficoltà oggettive, hanno accantonato. Markus, Kara e Connor sono tre modelli ultra-avanzati di androide sviluppati da Cyberlife, multinazionale ideatrice dei citati “robot”: servo amato e rispettato di un ricco artista il primo, sfortunata faccendiera di uno spacciatore violento la seconda, poliziotto futuristico coinvolto in casi umani-androidi il terzo. Già, avete intuito bene, omicidi e altri crimini legati alle macchine – o meglio, ai Devianti: perché tra i milioni di righe di codice che governano l’intelligenza artificiale degli androidi qualcosa va storto. Una scintilla, forse, la comparsa di un qualcosa di paragonabile alle emozioni umane e, nel tempo, destinato a tramutarsi in ribellione e autentica presa di coscienza. Di sé stessi, come esseri viventi, ma anche come di società richiedente diritti, stufa di anni di “schiavitù umana” e, proprio per questo, desiderosa di vivere liberamente la propria vita.
Sul parallelo con Blade Runner o altre pellicole del calibro di Io, Robot non riteniamo sia nemmeno il caso di spendere troppe righe: delle citazioni, dei rimandi filosofico-letterari, dei tratti che li accomunano in modo evidente ve ne accorgerete praticamente già dopo pochi capitoli – e sì, di sicuro apprezzerete la classe narrativa dietro alla penna di Cage. La potenza dirompente dello sceneggiatore, tuttavia, risiede nella sua capacità di bucare la quarta parete riempiendo di dubbi e incertezze l’animo di chi gioca: sono davvero macchine, quelle con cui avremo a che fare nelle prossime ore, o nascosto nei meandri dei loro miliardi di circuiti c’è qualcosa di più? La luce dietro ai loro occhi, le lacrime, la capacità di replicare le stesse emozioni della razza umana solo solo codice, istruzioni eseguite in modo esemplare o, forse, c’è qualcosa che va oltre la mera elettronica? Chi siamo noi per vessare, colpire, indurre in schiavitù quegli “esseri”, che obbediscono ciecamente al proprio padrone senza fiatare? Chi è davvero più umano tra noi e “loro”?
Chi è davvero più umano tra noi e “loro”?
Detroit: Become Human, a prescindere dalla strada e dalle scelte che deciderete di perseguire (siano esse pacifiche, apatiche o addirittura violente agli occhi del mondo), sfocia in una critica alla razza umana, forte di un metalinguaggio che abbonda di tecnologia e di orpelli cari alla letteratura sci-fi ma, al contempo, in grado di offrire una chiave di lettura tanto semplice quanto drammatica. Se in Heavy Rain il fulcro della questione era il “cosa saresti disposto a fare per salvare la persona che ami”, in Detroit: Become Human il messaggio di Quantic Dream assume dei connotati universali, schiaccianti: possiamo davvero ritenerci giudici unici ed infallibili, decidendo chi è davvero vivo e chi no? Sta forse a noi decretare la libertà di un essere che la reclama a gran voce? L’umanità secondo Cage assume così più forme, inclini di volta in volta alla compassione, all’odio, alla comprensione o alla repressione: tematiche “violente” in un videogioco, inutile girarci attorno, che riflettono nella metafora della megalopoli invasa dagli androidi secoli e secoli di “vita” in termini assoluti. Uno scenario drammatico, pregno di tematiche razziali e discriminatorie, ma al contempo illuminato da “presunte macchine” desiderose di amare, nonostante tutto, di creare una famiglia, di scegliere da soli la strada da percorrere.
Ecco perché, paradossalmente, la prodigiosa tecnologia di Detroit: Become Human passa quasi in secondo piano, eclissata dalla totale libertà decisionale, seppur relegata ad ambientazione tutto tranne che open, da un lato e dall’importanza del messaggio veicolato dal playtrough, dall’altro. Certo è che siamo nuovamente di fronte ad un paradigma tecnologico, proprio come lo erano stati a tempo debito i già citati Heavy Rain o Beyond: stato dell’arte del motion capture, recitazione di chiara matrice cinematografica, modellazione e ambientazione al limite del fotorealismo. Potremmo snocciolarvi particolari fini a loro stessi come un ottimo sistema di illuminazione, una gestione degli effetti sontuosa, una colonna sonora e un doppiaggio semplicemente perfetti o, parimenti, una componente emotiva dirompente dalle animazioni facciali dei protagonisti (che, giusto a voler trovare il proverbiale pelo nell’uovo, incappano ogni tanto in qualche movimento legnoso): ma l’avrete capito, si tratterebbe di chiacchiere da nerd relative ad un prodotto che guadagna sul campo, e con i fatti, la propria magnificenza. Un’opera che, da videogioco, diventa qualcosa di più profondo e, allo stesso tempo, meraviglioso.
Tre protagonisti, tre storie, un oceano di possibilità. Questo è Detroit: Become Human, il capolavoro annunciato di casa Quantic Dream che, inutile dirlo, ha mantenuto alla perfezione sino all’ultima promessa. Un’opera mastodontica e monumentale, figlia di una visione già da tempo abiurata da una buona fetta di giocatori ma che, oggi più che mai, dimostra di saper dire la propria in un panorama dove il coraggio e l’originalità non sempre pagano. La quinta opera dello studio parigino è l’evoluzione perfetta di un cammino intrapreso due generazioni di console or sono, consapevole dei propri errori (e annessi limiti) del passato ma oggigiorno, nel proprio contesto, semplicemente inattaccabile. Un’esperienza lontana dal tradizionale concetto di videogioco, questo è chiaro, che difficilmente riuscirà ad avvicinare i detrattori secolari del genere: allo stesso tempo, però, siamo di fronte a qualcosa capace di trascendere i propri stessi confini e, cosa più importante, capace di donare al giocatore il potere di plasmare sin dalle fondamenta una storia appassionante di diversità, di auto-coscienza, di “vita”. Dopo il successo clamoroso di Heavy Rain, insomma, David Cage porta a casa una nuova acclamazione con quella che, ad oggi, rappresenta la sua scrittura più complessa e profonda. Quantic Dream confeziona un capolavoro in grado di intrattenerci, emozionarci, appassionarci e farci riflettere. E, per quanto incredibile possa sembrare, in grado di farci diventare persino un po’ più umani. |