The Dark Pictures Anthology è la naturale evoluzione del percorso che Supermassive Games ha avviato nel 2015 con il molto apprezzato Until Dawn. Riprendendo le redini del genere horror, gli sviluppatori hanno costruito una discesa nell’incubo basandosi su leggende, miti e sul folklore che caratterizzano la nostra storia dall’alba dei tempi: i precedenti Little Hope e Man of Medan non ci hanno convinto appieno, mancando di quel mordente che abbiamo invece trovato in Until Dawn.
In occasione del terzo capitolo, House of Ashes, previsto per quest’anno, abbiamo avuto la possibilità di vedere in anteprima una porzione di gameplay. Nel complesso le premesse ci hanno lasciato un’impressione positiva, a partire dalla scelta dell’ambientazione e di riflesso degli orrori che andremo a vivere: ispirato a film quali Alien, Predator e The Descent, ma anche a opere letterarie come Alle Montagne della Follia di Lovecraft, House of Ashes ci porta indietro al 2003, nel corso del conflitto iracheno.
Seguiremo le vicende di un’unità delle Forze Speciali, sul posto per indagare in merito alla presenza di armi chimiche: entrati in conflitto con le forze locali, precipiteranno nel sottosuolo a causa di un cedimento nel terreno e si ritroveranno prigionieri di un tempio antichissimo, circondati da orrori contro i quali non esiste davvero preparazione. Dopo la leggenda della Ourang Medan e passati i processi alle streghe di Salem, Supermassive punta questa volta sulla culla della vita, la Mesopotamia, e la leggenda del re-dio accadico Narām-Sîn: figura realmente esistita duemiladuecento anni prima di Cristo, questo sovrano è passato alla storia come il primo – se non l’unico – a essersi elevato a divinità.
Il saccheggio perpetrato ai danni del tempio di Enlil avrebbe, secondo il mito, portato disgrazia sul suo popolo che sarebbe “sacrificato” per evitare che la vendetta del dio si abbattesse su tutta la Mesopotamia: l’invasione da parte dei Gutei è un fatto storico, riadattato in forma di leggenda per giustificare la caduta dell’impero accadico. Attorno a questo incrocio tra mito e realtà storica gli sviluppatori hanno dato vita al terzo capitolo della loro antologia, che non cambia solo tono per quanto riguarda il genere di horror portato a schermo (il cosidetto exploration horror) ma abbandona, per la prima volta, le inquadrature fisse a favore della telecamera a trecentosessanta gradi. Questo cambio di registro ci ha colto di sorpresa ma ci trova assolutamente favorevoli, perché riteniamo che pur avendo diversi vantaggi dalla loro, le inquadrature fisse direzionassero fin troppo il giocatore evitandogli la libertà che invece House of Ashes si prepara a offrire – questo grazie anche all’aggiunta della torcia per incentivare e facilitare l’esplorazione.
Non solo, le inquadrature fisse andavano anche a preannunciare al giocatore che sarebbe potuto succedere qualcosa, lasciandolo sì nell’incertezza di cosa sarebbe accaduto e soprattutto se, ma dall’altro lato preparandolo; ora, senza sapere dove e quando si presenterà il pericolo, c’è la possibilità di sentirsi ancora più immersi e coinvolti nell’esperienza, che grazie alla sua ambientazione cupa e claustrofobica, nella quale spopolano minacce concrete e tangibili, sembra pronta a terrorizzarci a dovere.
A rendere molto interessante House of Ashes è il fatto che questa volta l’esperienza si focalizza sull’azione ma non per questo si lascia indietro la sua immancabile natura horror: in termini di sviluppo, ha sicuramente richiesto un approccio diverso, una sfida maggiore se vogliamo, per riuscire a realizzare sequenze credibili e al cardiopalma. Da quanto abbiamo visto, il motion capture ha richiesto un particolare tipo di direzione e lo stesso casting è stato gestito con particolare cura, consapevoli che i protagonisti avrebbero dovuto avere una preparazione più mirata – stiamo parlando di soldati, dopotutto.
The Dark Pictures Anthology: House of Ashes spezza i legami con il passato per un’esperienza molto più promettente
Ci è inoltre piaciuta la possibilità che venga stressata la meccanica relativa ai tratti del personaggio. Per chi ricorda Until Dawn e alcuni dei suoi disastrosi esiti dovuti a una gestione delle relazioni personali discutibili, questo costante bilanciamento nelle relazioni con gli altri personaggi (chiamato appunto Trai System) è stato ereditato da The Dark Pictures Anthology ma senza lo stesso mordente: in parole povere, né Little Hope né Man of Medan hanno restituito la medesima sensazione di rischio nell’interagire con gli altri personaggi.
Certo, si venivano a creare attriti, simpatie e antipatie ma in nessuna delle nostre partite queste si sono concretizzate in un vero pericolo per il personaggio “colpevole”, a differenza di quanto successo in Until Dawn tra Chris e Ashley che ci ha davvero lasciati senza parole. Vuoi per via di scelte morali meno sfumate, o perché davvero non c’era spazio per situazioni simili, i primi due capitoli dell’antologia non ci hanno lasciato la sensazione di andare incontro a esiti inaspettati: ci sono stati momenti in cui il karma è tornato a colpirci, persino sul finale, soltanto però in relazione a scelte che coinvolgevano noi stessi e non altri.
È possibile che House of Ashes torni a premere di più sulla questione delle relazioni, considerato che americani e iracheni si trovano intrappolati in una situazione da cui sarebbe più semplice uscire collaborando: il nemico comune sarà abbastanza per spingerci a fidarci di chi fino a un attimo prima guardavamo dal mirino del nostro fucile? Questa possibilità, unita ai cambiamenti nel gameplay e un’ambientazione che punta sia su una leggenda molto particolare sia sulla presenza di un pericolo che non è esclusivamente nella nostra testa, come nei capitoli precedenti, apre a scenari molto interessanti. Siamo molto curiosi di provarlo con mano per vedere se queste prime, positive impressioni si concretizzeranno.