Un tempo, complice l’impossibilità di poter collegare le console alla rete, non c’erano Early Access (più o meno ufficiali), patch del D1, o “Stagioni” a giustificare un videogioco mal riuscito. La build che finiva impressa sui dischi, e di conseguenza nelle menti e negli occhi dei giocatori, era per forza di cose quella definitiva.
One shot, one kill. Se il gioco spaccava, spaccava. Se aveva problemi irrisolvibili, eri segnato a vita, il team inaffidabile, degno solo di finire in un listicle 15-20 anni dopo sui “10 giochi più buggati di sempre”, di quelli che capita di leggere scrollando pigramente i social. Ma sia chiaro, era l’eccezione alla regola. Anche perché nessuno aveva voglia di beccarsi una causa, quando non una class action, per aver lanciato sul mercato un prodotto difettoso. Che poi, volente o nolente, la responsabilità te la dovevi prendere, e dovevi metterci anche la faccia. Non c’erano comunicati stampa che tenessero.
Un tempo, uno dopo l’altro, gli studi di sviluppo e i publisher più blasonati hanno iniziato a perder colpi, a trincerarsi dietro patch correttive e ad un mucchio di scuse. Erano in pochi a potersi fregiare di non aver sbagliato un colpo. E quando nemmeno di Rockstar Games ci si può più fidare, significa essere arrivati a un punto di non ritorno, a una rassegnazione che ci ricorda che sì, siamo in un’epoca in cui il software diventa più fluido e malleabile, in cui schifezze possono trasformarsi in capolavori (e viceversa), in cui ormai sviluppare videogiochi costa talmente tanto da poter giustificare la scelta di trattare gli acquirenti come dei beta tester.
Lo sappiamo benissimo ormai, il game development è un processo complesso, quasi alchemico, in cui i tentativi e i fallimenti sono all’ordine del giorno, quindi chi bazzica un minimo il settore, quantomeno prova a contestualizzare, più che a giustificare, certi problemi o disastri. L’eccezione alla regola è diventato il gioco che arriva sugli scaffali, digitali e non, perfetto, senza problemi invalidanti per l’esperienza, con i server funzionanti e il codice lindo e pinto. E di conseguenza, i reparti marketing passano più tempo a scrivere comunicati di scuse per la stampa e per i social, che altro, tra un po’. Da qualche settimana, persino quei “bad boys” di Rockstar sono stati costretti a chiedere scusa: non per un contenuto sopra le righe dei loro, una linea di dialogo troppo edgy, un easter egg piccante. Il problema è che han combinato più di una stronzata (passateci il termine forte), proprio quando non dovevano. Ovvero con uno, anzi, tre dei remake/remaster più desiderati degli ultimi anni.
La stronzata numero uno è stata quella di aver fatto uscire la Grand Theft Auto Trilogy Definitive Edition. O meglio, di averle dato quel nome. Perché quella che abbiamo tra le mani è una versione incredibilmente peggiore dell’originale: il restyle grafico ha provato a dare una forma ad ammassi di pixel che una forma non la avevano, facendolo però male, e offrendo volti orribili, modelli poligonali impossibili (le braccia di Ryder in GTA San Andreas, che è pure quello messo meglio, sono già meme). La fisica poi è insensata, con auto a volte ingovernabili, che impiegano meno tempo per prendere a fuoco, aumentando concretamente le morti accidentali.
Il pop-up, particolarmente evidente su Nintendo Switch, diventa il nemico numero uno, con altre vetture che compaiono all’improvviso sulla strada, rendendo così ogni inseguimento una sorta di roguelite, solo che morire per colpa di qualcuno che non sa ottimizzare un gioco di 15 anni non è proprio ‘sto gran divertimento. E le canzoni che mancano dalle radio (ma lì si apre un capitolo a parte sui problemi dei diritti d’autore e un occhio lo si può pure chiudere, ndr). E l’abuso dell’Intelligenza Artificiale in fase di sviluppo, con l’upscale automatizzato delle texture minato però da uno sbadato riconoscimento delle scritte originali, con typo ed errori sulle nuove insegne, persino sulle magliette degli scagnozzi di CJ. Speriamo non sia definitiva per davvero, perché qui serviranno una ventina di patch per renderlo minimamente decente. E per correttezza sì, è giusto dire che le patch stanno uscendo, con fix notes chilometriche, dei papiri che non vedevamo dai tempi di Cyberpunk 2077.
Il grosso errore sta nell’aver approvato questo mezzo scempio. Non è uno dei team interni ad averci messo mano (come si vociferava in origine), ma Grove Street Games, team vicino all’azienda già dal nome, e autore di pur discreti porting e conversioni (mobile, è bene precisarlo) di vecchi titoli della saga, proprio i 3 riproposti in questa trilogia, ma anche del mai troppo apprezzato Chinatown Wars. Ma è Rockstar ad aver dato l’ok alla versione finale e giocabile. Un gesto maldestro, degno dello stesso “sbadato” che ha permesso a CD Projekt RED di mettere in commercio il Cyberpunk 2077 old-gen (non siamo però agli stessi livelli, c’è da dire). Un gesto che non ti aspetti da gente che ha scritto pagine indimenticabili del gaming, e che ha (aveva?) standard stellari.
Ancor più grave, incredibilmente, è la scelta di considerare questo scempio, che è tutto fuorché definitivo, come l’unico modo per accedere alle 3 gemme del passato, GTA 3, Vice City e San Andreas, incluse in questa raccolta. Le versioni originali, e con esse decenni di lavoro di modder e community super dedicate e talentuose, erano sparite. Uno schiaffo filologico, una risata di scherno nei confronti di vera e propria storia del medium, rimpiazzata per rendere più appetibile, quando non conditio sine qua non, questa nuova edizione. Oltre al danno, la beffa, insomma.
Ma alla fine anche Rockstar ha dovuto chiedere scusa, e con le pive nel proverbiale sacco, ha reso nuovamente disponibili i titoli originali, regalandoli peraltro a chi ha comprato la nuova trilogia, giusto per dirgli che no, erano meglio quelli vecchi, scusate, “ma che abbiamo combinato?”.
Mi addolora dover scrivere queste cose e con questi toni, e lo dico da mega-fan della saga, giocata sin dal primissimo capitolo sull’altrettanto primissima PlayStation. Ma quando è troppo è troppo.
Su Switch mi ci sono comunque divertito come un tempo, pur con i già citati problemi, gli occhi da chiudere quando c’è qualche stortura di troppo, pur con certe ingenuità in fase di scrittura che all’epoca, da 15enne o giù di lì, non avevo gli strumenti critici per notare. Sulla Switch OLED, dove certe storture si notano meno e la strip di Vice City esplode di colore e vita, regala persino bei momenti, anche perché il rinnovato sistema di illuminazione dona molta più profondità e vigore al tutto. E i checkpoint intermedi (in San Andreas), così come la possibilità di ricominciare più agevolmente una missione fallita, rendono meno frustranti certi frangenti in passato poco memorabili.
Ma non si può non alzare la voce e chiedere a Rockstar di fare meglio, in futuro. Di controllare meglio, di approvare con più coscienza e meno a cuor leggero certe operazioni. Loro, come chiunque altro continui a voler chiedere il prezzo pieno per le proprie opere, senza però garantire una pienezza anche del controllo qualità delle stesse.
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