Editoriale 19 Nov 2024

Il senso di PlayStation 5 Pro – Editoriale

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Una console inevitabile?

Vale la pena chiederselo. Vale la pena chiedersi se PlayStation 5 Pro non sia altro che il frutto di una speculazione, un modo come un altro per gonfiare i conti, oppure se, a ben vedere, si tratta di una console inevitabile, persino auspicabile vista la direzione che sta prendendo il mondo console nella sua globalità.

Del resto, Nintendo Switch punta con decisione al suo ottavo anno di vita, senza che ancora sia stato annunciato il suo successore; Xbox, dal canto suo, come testimonia l’ultima campagna marketing, si appresta a smaterializzarsi e a tramutarsi a tutti gli effetti in un servizio e non in una singola piattaforma.

Considerando il campionato a parte che gioca la Grande N, insomma, il rischio concreto che stiamo correndo e di ritrovarci con la sola Sony a difendere il baluardo delle console tradizionali, del tutto interessata a continuare a vendere hardware e a farlo in quel settore che, grazie alle sue PlayStation, è riuscita a far evolvere e a plasmare generazione, dopo generazione.

Una cosa è certa: il mondo dei videogiochi sta attraversando un’importante e per certi versi drammatica trasformazione. Non si vedeva un cambiamento così netto e sensibile dai tempi del così detto Atari Shock, quando nel 1983 il mercato si saturò e registrò sensibili cali in termini di vendite. All’epoca, manco a dirlo, toccò proprio a Nintendo e al suo NES ristabilire l’ordine e dimostrare empiricamente come bastasse puntare su un controllo qualità più ferreo affinché l’interesse verso i videogiochi si riaccendesse quasi per magia. Ma oggi?

Oggi la situazione è profondamente diversa, nel bene e nel male. L’offerta è enormemente più ampia e variegata che mai. Si sono affiancati modelli di business fino a cinque anni fa relativamente poco esplorati, come i free-to-play o i servizi di abbonamento. Gli stessi utenti sono cambiati e con essa la percezione di cosa sia un videogioco.

La crisi dei modelli produttivi classici è sotto gli occhi di tutti. Tra progetti che falliscono anche quando vendono bene, per costi di sviluppo ormai insostenibili; vecchie saghe che non funzionano più come un tempo, si prenda Final Fantasy per esempio; e l’estrema difficoltà con cui nuovi brand e IP riescono a farsi strada nel mercato. Licenziamenti e chiusure di studi, insomma, non sono unicamente attribuibili a pessime scelte dirigenziali, per quanto errori e sviste ai piani alti, spesso impunite, si siano moltiplicate progressivamente.

La Slim e la Pro messe a confronto

Difficile quindi fare stime o ipotesi su come potrà essere il mondo del gaming tra altri cinque anni, quando il ricambio generazionale degli utenti avrà compiuto un altro passo, quando i giovani videogiocatori del domani saranno nati in un contesto dove le piattaforme di riferimento, vuoi o non vuoi, sono gli smartphone, non certo le console come le abbiamo concepite fino ad oggi, e dove cloud gaming e servizi in abbonamento faranno ancor più da padroni.

Eppure, in una simile situazione è utile ricordare le parole di Satoru Iwata, compianto ex-presidente di Nintendo, perfettamente consapevole di cosa rendesse tanto forte e anche solida la sua azienda. Non solo giochi ben realizzati o che innovassero il genere di riferimento, quanto produzioni capaci di segnare un’epoca, di entrare prepotentemente nell’immaginario di un pubblico quanto più trasversale e variegato possibile. Il primissimo Super Mario sta a Wii Sports, come Tetris sta a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, giochi temporalmente molto distanti tra loro, ma che tracciano un sentiero che per forza di cose conducono a console targate Nintendo, unici device su cui è possibile fruirli e giocarli, creando un legame diretto, indissolubile e stabile tra pubblico e marchio.

Ecco, Sony sta cercando di fare qualcosa di assolutamente simile, pur con una strategia completamente diversa, meno certa sul piano dei risultati, ma che cerca di insinuarsi nel medesimo sentiero. A ben pensarci, del resto, è stato sempre così per il colosso nipponico. Già ai tempi della primissima PlayStation non furono principalmente i titoli first party a farne la fortuna. Sony si limitò a costruire la miglior piattaforma possibile per rendere lo sviluppo snello e che si avvantaggiasse del formato scelto, i CD-ROM. PlayStation 2 seppe sfruttare il vantaggio accumulato, diventando il centro nevralgico per qualsiasi software house in giro per il mondo. PlayStation 3 fece il passo più lungo della gamba, ma è innegabile che il Cell, il processore della console, aveva il potenziale per mettere nelle mani dei programmatori un’autentica Formula 1. Infine, con PlayStation 4 si ritornò ad una progettazione più classica, in linea con un’architettura PC che puntasse alla massima efficienza.

Con l’ultima ammiraglia targata Sony, il discorso è diventato molto più complicato per i tanti fattori citati poco sopra. Nonostante gli ottimi dati vendita registrati fino a qui, è sotto gli occhi di tutti che stia mancando qualcosa, che non ci sia più né quel dominio di una volta, né la certezza che la pubblicazione su PlayStation 5 sia garanzia di buoni risultati.

L’élite dell’élite, la PlayStation 5 Pro con la livrea della primissima PlayStation ha fatto gola a tantissimi appassionati

Così, dopo fin troppi anni con pochi titoli first party di successo, dopo il disastro Concord, dopo un futuro ancora più incerto, Sony ha deciso di puntare su ciò che più di ogni altra cosa ha sempre distinto il brand PlayStation, ovvero le console stesse. In PlayStation 5 Pro risuonano potentemente le parole di Satoru Iwata. Tanto sono necessari i giochi per certificare la solidità del marchio Nintendo, tanto lo sono le console per dare una reale dimensione a ciò che definiamo PlayStation.

Per quanto il business di Sony si stia ramificando, con titoli che debuttano anche su PC, il cuore dell’esperienza ruota ancora intorno all’hardware e al senso di esclusività che ancora si prova ogni volta che si stringe il pad tra le mani. Ed ecco che PlayStation 5 Pro, al di là del prezzo, al di là dei reali benefici apportati in termini di prestazioni, trova il suo senso, la chiave di lettura attraverso cui analizzare il reale motivo del suo concepimento.

La sua sola esistenza, al di là degli effettivi dati vendita, certifica e fortifica il marchio PlayStation, chiamato a sopravvivere a questa mareggiata, a questo terremoto che sta scuotendo l’industria sin dalle sue basi.

Basterà per far sopravvivere il concetto di console? Basterà per legittimare il lancio di PlayStation 6? Basterà per convincere le nuove generazioni che avere una console a casa serva realmente a qualcosa?

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