Premessa: ieri sera ho potuto assistere all’anteprima assoluta di I, Frankenstein – in quel di Milano – grazie al gentile invito di Koch Media. Per rispettare l'”embargo”, la recensione ufficiale uscirà la mattina del 23 Gennaio, data di uscita dell’action movie nelle sale del Bel paese. Nella recensione riporterò anche la breve presentazione fatta dall’attore protagonista Aaron Eckart, presente in sala per l’evento.
Passiamo alla pellicola di oggi, in cui fantascienza e animazione si fondono a plasmare una storia già ascoltata, ma non per questo priva di fascino. Già, perché è questa la parolina magica che anima i modelli 3D di Shinji Aramaki. Quest’ultimo (regista giapponese, classe 1960) si è accollato un bastimento carico carico di responsabilità scomodando una vera e propria icona del manga, un personaggio che non conosce la corruzione del tempo, nella fiction come nella realtà visto che siamo qui a parlarne a più di quarant’anni dalla “nascita”. Sto parlando di Harlock, capitano dell’Arcadia, reietto nemico di un impero corrotto, e potente pirata… o, forse, unica e ultima speranza per una razza (la nostra) che proprio non ne vuole sapere di dire addio al proprio pianeta d’origine, alla propria casa, alla Terra.
Il primo e più comune errore di valutazione che potreste fare è considerare Capitan Harlock una storiella per bambini, un cartone animato, solo più caotico e con le navicelle spaziali. Tuttavia, registi come Miyazaki hanno reso più che chiaro il seguente concetto: non è importante la forma espressiva ma quanto viene espresso, anche un cartone animato può aspirare allo status di capolavoro o opera d’arte. Il film di Aramaki può essere molte cose, ma di certo non è scontato o banale, né d’altra parte inutilmente cervellotico o complicato. E’ una bella storia, una di quelle classiche in cui l’intreccio ci sballotta tra amore, odio, battaglie, atti di sommo coraggio o somma viltà, amici, nemici, il buono e il cattivo, spesso divisi da una linea troppo sottile per fungere da limite. Non è un film d’essai per chi cerca maniacalmente l’autoriale, ma svolge più che bene il compito che gli spetta: intrattiene, racconta, rapisce.
Passando ai tecnicismi c’è poco (o nulla) da rimproverare alla produzione nipponica: le immagini spalanca-mascella si rincorrono per ognuno dei 115 minuti di film, la soundtrack incalza a dovere arricchendo le sequenze più concitate così come le più riflessive, il 3D è ben sfruttato ma mai invasivo… insomma, davvero un ottimo lavoro.
Consiglio il film a chiunque sia alla ricerca di un prodotto originale in un periodo di sconfortante “aridità”, in cui ogni opera meritevole vuole e deve essere l’invito ad un cambiamento e ad una nuova valorizzazione di quella grande arte che è il Cinema.
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A noi ricorda…
Assassin’s Creed IV: Black Flag: ebbene sì, ci sono più analogie di quante potreste trovarne ad una prima, distratta riflessione tra il manga siglato Aramaki e le peripezie di capitan Edward Kenway. Le date che si rincorrono sul calendario sono molto diverse, certo, ma lo spirito è lo stesso: pirati, o meglio avventurieri capaci di salutare una vita più o meno agiata per abbracciare un solo credo, la libertà.
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Anche per questa volta è tutto, l’appuntamento è per venerdì prossimo con la recensione di un film davvero intrigante, Disconnect: in un mondo in cui la rete collega cose e persone come mai prima d’ora, non si rischia di perdere il senso della realtà…e della misura?
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