Editoriale 02 Mag 2014

Perché ci siamo illusi che Dark Souls fosse un’eccezione

Molti videogiocatori, anche i più lontani dal genere, prima o poi si sono confrontati con Dark Souls in qualche modo. L’interesse è iniziato in vari modi, forse un articolo che ne descrivesse la difficoltà, altri per lo slogan di cui si fregia, il famoso ” Prepare to Die ” interpretato come una sfida o un monito. Fatto sta che con l’uscita del secondo capitolo e il rumore che ha fatto molti si sono informati e magari procurati uno dei due capitoli già in giro da alcuni anni, Dark Souls o Demon Souls, prima di investire in un nuovo gioco che forse non fa al caso loro. Ciononostante non sono mancati gli imprudenti, non è stato raro aggirarmi per un Gamestop e trovare una copia usata a due giorni dalla di uscita; lì per lì sorridi, provi a immaginare l’età del malcapitato e la sua prima reazione, a quali eventi l’abbiano portato a cogliere il frutto proibito per cui è stato cacciato dall’Eden dei giochi dalle soddisfazioni facili. Riflettendoci sopra ho però pensato a come siano cambiati i tempi, di come al contrario del mio improprio paragone biblico, noi non siamo stati cacciati in origine da quell’Eden, piuttosto l’abbiamo creato.

Sarò onesto: neanche io avevo idea di cosa fosse Dark Souls. Tutto era iniziato con il classico enigma dei regali di Natale del 2011, la disperata ricerca di qualcosa che non fosse banale e neanche inutile e, possibilmente, che non facesse dimagrire troppo il portafoglio. Demon Souls era un altro titolo a me sconosciuto ma ebbi modo di perdonarmi per via dell’esclusiva Ps3. Quando fai un regalo a un videogiocatore inizi a pensare al suo genere preferito, a qualcosa che possa offrire un’esperienza nuova e che non sappia di ” so che ti piacciono la macedonia e Naruto, quindi eccoti qui Fruit Ninja “. Nel mio caso avevo associato i capolavori di Fallout e Elder Scrolls firmati Bethesda con lo spirito orientale dei film prodotti da Studio Ghibli. Quel che ne è uscito fuori è stato qualcosa dal sapore RPG prodotto dall’industria giapponese Namco, recentemente pubblicato e di cui osservai i primi 15 minuti di gioco con il pensiero ” sembra simpatico, non è difficile, magari se pure la trama è buona gli darei pure un sette “. Tanta arroganza e superficialità fu punita in molteplici modi ma ad oggi direi che quel masochismo inconscio ha dato i suoi frutti. Mi procurai una Limited Edition usata dal Gamestop della zona con il radar del sospetto spento e misi il mio personale Nightmare before Christmas sotto l’albero.

Convivendo con il destinatario del regalo, mi accorsi che l’interesse verso il gioco da parte del diretto interessato diminuiva in maniera direttamente proporzionale alla mia personale voglia di giocarci. Il colpo di grazia fu dato una volta al cospetto dell’infausta Queelag, in un ambiente dal sapore macabro e deprimente che avrebbe privato il povero Totoro di entrambe le verginità al solo trovarcisi dentro. La staffetta per proseguire fu messa nelle mie mani e da allora è lì rimasta anche per il secondo capitolo. Come guidato da una strana reazione chimica che non seppi ben precisare, boss dopo boss e sfida dopo sfida ringiovanii di qualche anno andando però sempre in negativo con quelli persi per travaso di bile contro gli arcieri di Anor Londo, il tutto fino a che non spolpai completamente il gioco e mi ritenni soddisfatto. Ma cos’era successo?

Ho ormai assistito ad alcuni passaggi generazionali. Hanno introdotto gli obiettivi e i trofei per invogliare i giocatori ad approfondire le loro esperienze, anche se a volte mi sembra che il gioco siano diventati gli obiettivi stessi. E lentamente ho assistito senza rendermene conto a un cambiamento lento e inesorabile paragonabile al calare della quantità di patatine che si trovano in una busta: prima ci riempivo la ciotola delle serie tv, adesso a malapena quella degli intermezzi pubblicitari. I miei borbottii iniziarono con Tutorial e spiegazioni step-by-step su cosa fare in qualsiasi parte del gioco, aggiunte a cui ho cercato di ribellarmi come un anziano che si rifiuti di esser spiegato come funziona un cellulare: la pizza per la cena la ordino io, fatemi provare a digitare alcuni tasti e prima o poi il fattorino arriverà. La sensazione di sconforto si è poi propagata quando la guerra su Call of Duty e sparatutto simili ha reso necessario l’uso di un Headset o auricolari specifici, attrezzatura di cui ero sprovvisto e che ha reso la mia anzianità più evidente, come se mi stessi rifiutando di installare un apparecchio Amplifon. Mi sono trovato in una guerra impari contro giovinastri e adolescenti dall’udito (artificiale) più fine e dalla parolaccia facile, ma nonostante ciò non mi sono arreso: non solo rispetto a Scimmiosvaldo avevo il dono del pollice opponibile, ma anche quello del pollice martoriato da saletta, un esemplare non più così comune e familiare solo a chi  conosce la disperazione di difendere strenuamente l’unico gettone rimasto per Metal Slug.

A questo punto del discorso il mio lamentarmi suona probabilmente realmente appropriato a quello di un anziano. Arrivo però al dunque: non è Dark Souls ad essere difficile. Siamo noi che non siamo più abituati a cosa sia la difficoltà nei videogiochi.

Il capolavoro firmato Namco ha restituito un pò di quel che si era dimenticato ai giocatori più vissuti e ha donato un’opportunità a quelli più giovani. Esaminiamo il fenomeno da un gioco che non sembra avere assolutamente niente in comune con Dark Souls: Super Mario Bros. Era un’era dove il mondo era scettico su quanto intrattenimento un videogioco potesse offrire, dove un pixel rappresentava un personaggio e dove potevi compiere una sola azione: il salto. Con un salto dovevi dominare orde e orde di nemici, dovevi superare ostacoli insormontabili, dovevi salvare il mondo e la principessa, dovevi schiacciare il cattivo di turno ed umiliare un’intelligenza artificiale cattiva e severa. Non c’erano guide su internet, non c’erano frequenti postazioni di salvataggio, non c’era qualcuno che ti dicesse che alcuni tubi ti avrebbero portato in altri livelli. Nel mio caso personale, il tutto condito da lingue anglofone e improbabili all’epoca a me sconosciute, rendendomi una pedina preda di conversazioni astruse ed esperimenti basati su tasti premuti a caso. E con quale coraggio vogliamo lamentarci di non aver avuto indicazioni al Firelink Shrine?

Quasi oserei definire Dark Souls generoso verso i propri giocatori. Non apparirà mai la classica scritta ” Game Over ” che manderà le nostre 5 ore di tentativi all’obitorio senza passare dal Via. Ti permette di fare esperienza e provare all’infinito senza reali disastrose conseguenze all’interno del gioco. Si potrà raggiungere una nuova area dopo aver sconfitto quel boss difficilissimo e non dover tremare al pensiero di dover sopportare il calvario nuovamente non appena qualche nuova meccanica del gioco a noi sconosciuta finirà per ucciderci. Non vivremo più la frustrazione di Ghost ‘n’ Goblins, dove anche qualora tu sia riuscito ad arrivare all’ultimo livello, dovrai mettere a frutto tutta l’esperienza accumulata per ricominciare da capo dall’inizio. Non avremo più quel minuto di dolore  tormentandoci nella save room di Resident Evil perché abbiamo finito i nastri d’inchiostro e non abbiamo la minima idea di come salvare la notte prima del compito di matematica.

Dark Souls mi ha fatto un po’ riprendere. Ho potuto rivivere quei brividi, almeno in parte, per quelle sensazioni atrofizzate che pochi giochi mi danno. Ero convinto che Dark Souls fosse un eccezione prima di capire che, in fondo, l’eccezione è venuta molto prima per me: quando i giochi sono diventati troppo indulgenti. La filosofia di adesso non è quella di offrire una sfida, è semplicemente quella di portare delle persone per mano attraverso un nuovo mondo. Io però quella mano non la voglio, la vorrei scacciare via con un bastone e semplicemente avviarmi verso il mondo sconosciuto da solo. Poco importa se cadrò: quando non potrò rialzarmi avrò capito che è il mio momento di appendere il controller al chiodo, che non sono neanche più degno del livello ” cow ” di Diablo.

Nel frattempo potrò sperare che in futuro Dark Souls diventi la regola, non l’eccezione. Speranza vana direte voi che state lì seduti in ultima fila con la Limited Edition di FIFA, ma il mio anatema darà quattro braccia in più al portiere avversario e un arbitraggio che neanche Moggi saprebbe fornire. E a voi laggiù che comprate il gioco dell’ultimo film Disney per vostro figlio, perché lo trattate così male? Regalate loro la delusione della vita che la scuola sia facile, che l’amore sia facile, che essere i migliori sia facile. E quando si chiuderanno in camera a piangere perché non hanno la figurina olografica di Topochu vi interrogherete su cosa abbiate sbagliato.

Sarà quello il momento opportuno di andare nel vostro scaffale dei videogiochi e prendere quella custodia tetra e tenebrosa che ben conoscente. Non servirà neanche guardarla, capirete che è lei dalle ammaccature e dai segni dei morsi della vostra dentatura che fu. Vi sembrerà di dissotterrare il gioco proibito, la maledizione eterna di Jumanji, il mostro sotto al letto che avete smesso di temere una volta finito il gioco. Mettetelo nelle mani del vostro pargolo e lasciate che comprenda da solo la semplice filosofia di Dark Souls.

Avrai tante possibilità nella tua vita, ma se impari dai tuoi errori prima o poi riuscirai a vincere.

E comunque preparati a morire.

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