Definire il primissimo Alone in the Dark come un titolo “progressista” non ci sembra un’affermazione tanto sbagliata. Non a caso Frédérick Raynal e Infogrames, nel lontano 1992, hanno aperto la strada verso un genere che ha, in un certo senso, accontentando gli amanti dell’horror e del soprannaturale.
Più di qualcuno, temprato videoludicamente dalle prime rughe espressive, non può dimenticare quelle atmosfere squisitamente “lovecraftiane”, l’inquietante villa Derceto e gli iconici baffoni di Edward Carnby (o forse sì). Di fatto, non possiamo ignorare la storia, e Alone in The Dark è sicuramente uno dei punti fermi di un genere reso grandioso in seguito da Resident Evil.
Negli ultimi anni ne abbiamo visti di remake, appunto, del già citato Resident Evil, accolto con estrema positività dagli appassionati di mezzo mondo (a parte RE3, ma questa è un’altra storia). E dunque anche Alone in the Dark entra in questa positiva spirale, ma a differenza di altre produzioni analoghe, in questo caso c’è stata anche una rivisitazione narrativa che si ispira agli stessi elementi narrativi delle opere di Lovecraft.
Alone in the Dark è dunque un’esperienza nuova di zecca che richiama alcuni dei punti chiave del capitolo originale, introducendo un gameplay action in terza persona (molto simile per certi aspetti a quello di Resident Evil) e una serie di enigmi ingegnosi che metteranno a dura prova i giocatori meno ferrati.
Tuttavia, come scopriremo, questa esperienza non è tutta rose e fiori (se così si può dire di un survival horror), anche per via di un gameplay che ci è sembrato fin troppo datato e caratterizzato da diversi problemi.
Il gotico sudista è uno dei temi portanti di Alone in the Dark, in cui i personaggi vivono in ambienti poco accoglienti, talvolta abbandonati, e si ritrovano in situazioni decisamente grottesche. Alone in the Dark è un viaggio delirante che ci farà scoprire l’oscurità che si cela dietro le pareti di Derceto, un istituto psichiatrico per pazienti con delle grosse patologie mentali.
Siamo agli inizi negli anni ’20. Emily Hartwood, con l’aiuto del detective privato Edward Carnby, si recherà nella villa Derceto per investigare sull’improvvisa scomparsa dello zio. Già dalle prime battute di gioco qualcosa non quadra, dei misteri inquietanti sembrano prendere piede nelle stanze dell’istituto psichiatrico. Nella camera di Jeremy tuttavia sono presenti degli indizi, delle note che accennano a degli eventi surreali e a un’enigmatica presenza di un “uomo nero”. Una sopravvivenza disperata si prospetta per i nostri due protagonisti, tra le mura di un luogo che trasuda angoscia e tensione.
Al netto di alcuni problemi, Alone in the Dark è stato un viaggio interessante
Prima di passare all’azione, dovremo decidere quali panni indossare: quelli dell’investigatore privato Edward Carnby (con le fattezze e le doti recitative di David Harbour, noto per Stranger Things) oppure dell’intraprendente Jodie Comer (famosa per la serie televisiva Killing Eve). Questa scelta cambierà il nostro approccio ad Alone in the Dark. Jodie passerà il suo tempo a esplorare la villa, a risolvere enigmi e a ricercare le tracce del detective tra le varie mura.
Per Carnby invece le cose sono un po’ diverse: più azione, tensione e mostri terrificanti in altri mondi pronti a fargli rizzare i capelli (ma dopotutto lui è un uomo d’altri tempi, tutto d’un pezzo). A essere totalmente onesti, per godersi a pieno Alone in the Dark occorrerà completare entrambe le campagne, per capire alcune sequenze nel migliore dei modi ma soprattutto per affrontare le paure e il passato dei nostri protagonisti.
Per completare la campagna di Carnby occorreranno circa 7/8 ore, indicatore che salirà qualora si decida di intraprendere entrambi i percorsi (cosa che noi consigliamo vivamente). Il lato più “action” dell’esperienza è rappresentato dalla campagna con il detective, un ruolo che non fa esplodere completamente le doti recitative di Harbour, ma che dona quel fascino noir di altri tempi all’intera produzione.
Carnby affronterà le sue paure passando tra due diversi mondi: le stanze dell’istituto psichiatrico (così come avveniva nel titolo originale) e luoghi misteriosi creati dalla mente di Jeremy. L’inseguimento attraverso questi luoghi, attivabili generalmente dopo aver risolto degli enigmi nel mondo reale, ci faranno entrare in contatto con essere mostruosi che daranno parecchio filo da torcere, soprattutto alle difficoltà più elevate. L’inserimento di questo mondo alternativo ha permesso di creare un’esperienza ancora più angosciante, pregna di paure e pericoli che solo una mente insana può generare.
Il punto debole della produzione tuttavia si evidenzia proprio quando si passa all’azione, ovvero quando dovremo affrontare orribili creature faccia a faccia. Traendo spunto da altre produzioni simili (tipo Resident Evil), potremo schivare gli attacchi, colpire gli avversari con armi improvvisate come pale o tubi di ferro (deperibili dopo qualche uso), scaricare una parte delle munizioni delle nostre armi e utilizzare mattoni o bottiglie per distrarre l’avversario.
Le sezioni di combattimento appaiono goffe e poco sincronizzate nei movimenti, che si mostrano decisamente poco naturali. Per non parlare di un sistema di mira che ha mostrato il fianco in più di un’occasione: a volte anche centrando bene con il mirino, il colpo non è andato a buon segno. Anche l’impatto dei colpi e i movimenti dei vari cattivoni non ci hanno pienamente convinto. In altre parole, le animazioni dell’intero gioco ci sono sembrate legnose e ancorate agli inizi della scorsa generazione di console. Anche per quel che concerne l’apertura delle porte, la corsa e i passi felpati nelle sezioni stealth.
Alone in the Dark è un survival horror, in cui la morte dovrebbe sopraggiungere in ogni frangente con annessa paura. Per rendere questo possibile e far vivere il vero “terrore”, le munizioni dovevano essere scarse anche a livello di difficoltà intermedio: in questo modo potevano essere sfruttate meglio le caratteristiche stealth per evitare i mostri e dare maggiore importanza agli oggetti da lancio presenti in quasi ogni dove.
Dal punto di vista degli enigmi, bisogna riconoscerlo, è stato fatto un lavoro coi fiocchi. I tanti indizi che troveremo lungo il percorso ci daranno qualche suggerimento per risolvere diverse sezioni da puzzle game. È stata riposta una cura certosina nell’elaborazioni dei testi, surreali e lovecraftiani, che ci hanno lasciato una piacevole sensazione (anche l’adattamento in italiano è stato parecchio convincente). Non ditelo in giro, ma sbloccare una cassaforte ci ha dato parecchi grattacapi, questo per farvi capire che, anche se non ci sono enigmi ambientali così complessi, dovremo comunque spremerci le meningi.
Un altro elemento comune con i remake di Resident Evil è la mappa di gioco, ovvero la planimetria di Derceto Mansion. Ogni stanza presenterà un colore che cambierà in base allo stato di completamento, eventuali rompicapi opzionali e porte che possono essere aperte (non prima di aver trovato la chiave, si intende). Oltre agli oggetti chiave delle nostre indagini, potremo raccogliere i cosiddetti Lagniappe (ninnoli) che daranno accesso ad alcune informazioni proibite quando avremo completato un set. Qualora siate curiosi di conoscere nuove informazioni, la ricerca dei ninnoli potrebbe allungare la durata complessiva dell’esperienza.
L’impianto ludico ha mostrato il fianco in più di un’occasione
Durante le nostre due campagne in compagnia di Alone in the Dark, abbiamo riscontrato diversi glitch grafici, situazioni di pop-in e un fastidiosissimo bug che ha eliminato completamente l’audio del gioco. Siamo consapevoli che in fase di review possano succedere questi imprevisti e convinti che gli sviluppatori faranno di tutto per rendere il titolo sempre più godibile.
Alone in the Dark mette al centro della sua storia la cosiddetta “malattia mentale”, un tema che permettere di spingere la narrazione verso vette sempre più angoscianti e ricche di terrore. E su questo riesce molto bene, impreziosito da musiche inquietanti, noir e da una distinta dose di doom jazz.
Volevamo soffermarci anche su alcuni extra, ovvero sui filtri vintage che aggiungono un ulteriore tocco visivo alla nostra esperienza (come l’effetto seppia). Ma quello che ci ha colpito di più sono i commenti del regista, ovvero dei punti d’interazione in tutto il gioco in cui possiamo ascoltare curiosità sullo sviluppo. Unica nota stonata è che non sono sottotitolate nel nostro idioma, un problema per chi non mastica la lingua inglese.
La scelta di due attori famosi come David Harbour e Jodie Comer ha donato uno spessore non indifferente all’intera produzione, soprattutto nel rapporto con gli altri personaggi che popolano la mansione. Il racconto si dimostra profondo e ricco di sfumature conducendoci a un finale molto interessante: su questo punto non possiamo fare altro che elogiare il lavoro di Mikael Hedberg, autore noto per SOMA e Amnesia.
Le ambientazioni nel complesso ci sono piaciute, ma ci è sembrato che il motore di gioco non sia stato sfruttato al massimo, anzi. Siamo dell’idea che sotto questo punto di vista si poteva (e probabilmente doveva) fare molto più. Su console PlayStation e Xbox si può optare tra scelta grafica o prestazioni: il nostro consiglio è quello di non cercare la qualità, perché il frame rate è talmente ballerino che rischiereste di non godervi al massimo tutta la storia.
Al netto di alcuni problemi, tra cui anche compenetrazioni poligonali, Alone in the Dark è stato un viaggio interessante che tuttavia meritava un supporto ludico più impattante, considerando quanto lavoro è stato fatto per renderlo più che interessante.
Il tanto atteso ritorno di Alone in the Dark ci ha proiettati in mondi sovrannaturali e mistici, ispirati a quell’universo di H.P. Lovecraft che molti di noi amano enormemente. Un progetto che tuttavia ci ha convinto in parte: se da un lato siamo rimasti incantati dalle ambientazioni, dall’esplorazione, dagli enigmi (anche se alcuni un po’ ripetitivi) e da una storia convincente, dall’altro l’impianto ludico ha mostrato il fianco in più di un’occasione rivelandosi meno solido rispetto alle aspettative. In ogni caso, la strada da percorrere ci sembra quella giusta per il franchise, un po’ lasciato sulla mensola a prendere polvere in questi ultimi anni. Rimane comunque un’esperienza che qualsiasi amante dell’horror e delle storie in stile “Lovecraft” dovrebbe far sua almeno una volta. Non capita tutti i giorni di addentrarsi nel funesto maniero Derceto alla scoperta di oscuri segreti. |
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