18 Mag 2016

Battleborn – Recensione

Le creazioni di Gearbox non sono mai banali, specialmente se si guarda nella rinomata serie di Borderlands. Difficilmente si può trovare nel vasto mercato videoludico una società che lascia tali impronte nei suoi giochi e nei generi utilizzati: se è Gearbox, si vede, istantaneamente. È un grandissimo pregio quello di essere inimitabili ed inconfondibili, quindi tanto vale sfruttare una tale fortuna (senza nulla togliere all’impegno messo) e continuare sul proprio cammino. Battleborn è il nuovo titolo della casa americana, un gioco che guarda al fratello maggiore per lanciarsi con la stessa foga tra le mani dei giocatori. Spesso paragonato ad Overwatch, creazione di Blizzard, Battleborn porta invece verso un altro tipo di gameplay, meno incentrato sul combattimento preciso faccia a faccia e ben più aperto a quello in arene enormi, piene di nemici con abilità imprevedibili.

Non si parla ovviamente di un titolo perfetto. Battleborn riesce a divertire in qualsiasi momento, sempre che abbiate una squadra a circondarvi, ma non è esente da errori tecnici dovuti sia alla natura del gioco che alla probabile inesperienza di Gearbox in un progetto così diverso da quelli realizzati prima d’ora. Mettere il gameplay davanti ad una storia memorabile è una decisione che spesso risulta estremamente impopolare tra i giocatori e anche nella critica, ma del resto la struttura di Battleborn non permette grandissime esplorazioni al di fuori dei suoi confini.

Gearbox ha deciso di prendersi una pausa dallo sviluppo della serie di Borderlands, ma abbandonare totalmente una linea di pensiero è quasi impossibile se essa ha rappresentato così tanto, sia per gli sviluppatori che per i giocatori. Battleborn mantiene dunque tutta quell’atmosfera cartoonesca e inquietamente weirdo, composta non solo dallo stile grafico pieno di colori, ma anche da quell’humor che si diverte a camminare sulla linea tra sensato e inopportuno. Non mancano quindi le mezze risate durante i dialoghi delle missioni, spesso pronti a scherzare su ogni frase e prendere in giro chi gioca. Tuttavia, se davvero volessimo soltanto sorridere davanti allo schermo, allora sarebbe molto meno costoso fare del semplice zapping in TV. Oltre allo humor c’è infatti ben poco di quanto Borderlands ha offerto in tutti questi anni: ciò non significa che Battleborn non sia un gioco divertente, ma la predisposizione alle battute passa in secondo piano se non c’è una solida storia a fare da sfondo.

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La spiegazione della trama è facile ed intuitiva, lasciata nelle mani di una lunga animazione che mostra al giocatore il background. I Battleborn non sono altro che eroi collegati dallo stesso destino, ovvero difendere l’ultima stella esistente, Solus, dagli attacchi dei perfidi Varelsi, comandati da Rendain. Nonostante le differenze razziali e culturali tra tutti i personaggi giocabili, essi lavorano in sinergia per fronteggiare il male comune, non risparmiandosi comunque battute dark o pesanti prese per i fondelli. Il gruppo è dunque parecchio unito e guidato dal solito vecchio bacucco, Kleese, giocabile a sua volta, ma divertente da tenere nel proprio auricolare durante le missioni. Il fine comune non riesce però a mantenere l’attenzione per tutta la durata della storia, che, per quanto possa risultare ben studiata, può essere quasi tralasciata se si gioca insieme ad altra gente via internet.

E proprio questo è il problema principale di Battleborn, imputabile solo in parte agli sviluppatori. La costruzione multiplayer scagiona infatti sensibilmente il team di Gearbox, poiché difficilmente giochi del genere sono coadiuvati da una storyline ben costruita e facile da seguire. Basti vedere Destiny, che al lancio aveva lasciato perplessi molti giocatori per non avere uno scheletro sotto la sua soffice pelle di FPS/MMO/RPG. Eppure, il titolo di Bungie aveva una certa progressione nella sua storia, fatta per preparare agli aggiornamenti futuri, alle attività più impegnative e al multiplayer competitivo. Battleborn invece non ha nemmeno questo e butta il giocatore nella costrizione di cercare lobby di estranei pur di non giocare da solo: ad un matchmaking farraginoso e decisamente lento si aggiunge l’impossibilità di scegliere in modo preventivo la missione desiderata, cadendo dunque nelle mani della democrazia tra massimo 5 giocatori.

Battleborn riesce a divertire in qualsiasi momento, sempre che abbiate una squadra a circondarvi

Fin dall’inizio ci sono dunque due vie da seguire. La prima è quella che conduce all’intera esperienza single player, fatta di una storia che narra le gesta eroiche dei Battleborn: missione dopo missione, vari eroi vengono sbloccati, sia per la campagna che per la modalità multiplayer. Questo è l’unico modo per godere appieno della trama creata da Gearbox, che non eccelle in fatto di profondità, ma propone comunque lunghe missioni variegate tra loro, propedeutiche all’azione competitiva. Il raggiungimento di obiettivi, la difesa di più basi contemporaneamente e la lotta sincronizzata contro un boss estremamente corazzato sono elementi onnipresenti in tutta la linea narrativa, che gode anche di un gradevolissimo sistema di cutscene a corto animato. Lo stile grafico, in queste occasioni, cambia leggermente per favorirne uno diverso, più consono alle animazioni in stile cartoon e decisamente ben realizzato. Per gli amanti della risoluzione estrema e dell’azione potrebbe risultare uno spreco di tempo, ma chi invece riesce a vedere dietro il lavoro di un semplice video saprà apprezzare e quantomeno immaginare l’impegno messo nella realizzazione di un simile corto animato.

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Dal punto di vista del gameplay, tuttavia, giocare da soli è paragonabile a mettersi un cipresso tra le ruote: la quantità di nemici, la difficoltà indefinita e quasi imprevedibile, gli obiettivi non adattati al gruppo e la grossa disparità di potenziale tra i personaggi sono tutti ottimi motivi per cercare qualcun altro con cui giocare, grazie al matchmaking integrato. Questa è la seconda via eventuale per godersi Battleborn, ma preclude quasi ogni possibilità di capire la storia del gioco: non si possono infatti selezionare le missioni prima di cercare i giocatori, quindi tutti votano per una missione tra quelle proposte casualmente dal server. Il risultato è l’accontentare solo uno o due giocatori, spezzando la linea narrativa degli altri: questi ultimi probabilmente mai cattureranno le sfumature della vera trama e non comprenderanno appieno il conflitto contro Rendain, il supercattivo di turno. Il multiplayer è però il miglior modo per giocare a tutti gli effetti, poiché dà la possibilità ad un massimo di 5 persone di cooperare tra loro, utilizzando vari personaggi e creando una sinergia imbattibile per portare a termine la missione.

Personalmente, adoro essere di supporto ai giocatori, sacrificando le abilità offensive per creare invece una linea difensiva compatta ed impenetrabile. Un personaggio perfetto per questo ruolo è Miko, una specie di guerriera ninja/samurai fungiforme con doti curative ed una predisposizione all’aiuto dei compagni. Avere in squadra un compagno con tali poteri permette di resistere agli attacchi dei nemici e dunque perdere meno vite preziose. Questo però non si può dire nel caso in cui si giochi da soli: Miko ora diventa inutile, con un potere offensivo irrisorio e che spesso non fa nemmeno il solletico agli scudi avversari.

Le differenze tra i vari Battleborn sono quindi molto profonde e generano una grossa disparità di potenziale. Da un certo punto di vista, ciò è un fattore positivo, poiché è impossibile trovare abilità simili tra gli eroi, quindi Gearbox ha il merito di aver creato 25 figure estremamente diverse e ugualmente appetibili. Dall’altro, il divario costringe spesso a non utilizzare il proprio eroe preferito in determinate situazioni, a causa della costruzione delle varie missioni o del team già formato.

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Ciò che però risulta comune a tutti i Battleborn è il modo in cui essi evolvono le loro abilità durante la missione. Ogni volta che si intraprende un livello della campagna, l’esperienza viene infatti azzerata ed è necessario ricominciare ad affettare nemici per sbloccare le varie abilità messe a disposizione. Dopo un certo livello potremo utilizzare una mossa speciale in più, ma per il resto si tratta di diminuire i tempi di ricarica, aumentare i danni, rendere più pericolose le skills e costruire un albero abbastanza solido per il boss finale. La lunghezza delle missioni, che arrivano circa a 40 minuti, non si fa quasi sentire e ciò permette di non annoiarsi. Si parla sempre e comunque di lobby da 5 giocatori, dove non c’è un secondo per respirare e le ondate di nemici spesso arrivano addirittura a sopraffare il team per la loro quantità.

Una storia che narra le gesta eroiche dei Battleborn: missione dopo missione, vari eroi vengono sbloccati, sia per la campagna che per la modalità multiplayer

Entrando nel multiplayer competitivo si vede invece l’anima più matura del gioco, quella che strizza un occhio ai MOBA e mostra a tutti cosa significano le lotte in arena viste in primo piano. Le modalità principali sono comparabili a quelle dei classici FPS, ma ciò che veramente fa notare l’impronta MOBA è l’Incursione, che si sposta dalla visione aerea alla prima persona per far capire quanto caos ci sia nell’azione sfrenata di Battleborn. È questo il momento in cui la potenza conta più della precisione, dove una smitragliata con tanto di urla e faccia truce risulta più utile di una tattica studiata a bocce ferme. Situazioni del genere si presentano anche durante la campagna, ma umiliare un avversario umano è indubbiamente molto più gratificante di schiacciare un qualsiasi mob del computer.

Due sono le pecche maggiori, ma possono facilmente essere risolte con un semplicissimo aggiornamento: una è quella che riguarda l’impossibilità di scegliere la missioni prima di avventurarsi nel matchmaking, fatto che preclude spesso la godibilità della trama, mentre l’altra è più interna alle missioni. Spesso, durante un livello, tutti i giocatori devono posizionarsi su piattaforme contemporaneamente per proseguire e sbloccare così gli obiettivi seguenti: il problema è che se anche solo uno dei giocatori è inattivo, tutti gli altri devono per forza aspettare che torni a giocare, poiché non c’è alcuna possibilità di cacciarlo dal team. Anche il timer di kick automatico è un’incognita: dopo 5 minuti la situazione non si è affatto risolta, quindi resta il dubbio su quale sia il tempo massimo stabilito dal server.

Conclusioni

Oltre ad alcune decisioni poco chiare sulle meccaniche del gioco, l’errore che Gearbox ha commesso è stato pompare Battleborn per far crescere l’hype nei suoi confronti, ma del resto molte altre case hanno subito la stessa sorte. Che non suoni come una condanna, ma indubbiamente dal titolo di Gearbox ci si aspettava molto di più, con una storia tangibile ed importante. Battleborn resta comunque un gioco estremamente godibile, che permette a tutti di divertirsi nel mezzo di un’azione caotica e scintillante, difficilmente rintracciabile nei classici FPS.

Dall’altra parte, è elogiabile che nel gioco intero si possano già utilizzare tutti gli eroi presentati, sbloccabili semplicemente giocando le missioni e progredendo nella storia. Dovrebbe essere normalità anche per gli altri titoli, eppure il sistema DLC negli ultimi anni ci ha abituati a sorprese non proprio gradite, essendo perlopiù pezzi staccati dal gioco iniziale piuttosto che espansioni post-storia. Gearbox questo lo sa bene e già ai tempi di Borderlands aveva introdotto titoli estremamente completi, circondati poi da un parco di espansioni ugualmente interessanti. Battleborn stesso ha un season pass e microtransazioni, che non vanno però ad intaccare il gameplay già esistente.

Se gli sviluppatori correggeranno i problemi relativi al matchmaking delle missioni, Battleborn diventerà molto più fruibile, con una storia finalmente sensata anche in modalità multiplayer. Fino a quel momento, il divertimento di Battleborn arriva principalmente dal lanciarsi nell’azione e fare più casino possibile, senza capire bene cosa stia succedendo. Non che questo sia qualcosa di cui lamentarsi, ma avere una motivazione rende il tutto molto più sensato.