Un antico castello isolato nelle brume scozzesi, una famiglia di nobili origini sulla quale grava una maledizione da generazioni e un suicidio circondato da tanti, troppi misteri. Questi sono gli ingredienti principali di Black Mirror, reboot della serie punta-e-clicca il cui primo capitolo è stato pubblicato per computer nel 2003 – un videogioco ascrivibile al genere gotico, nato in Repubblica Ceca sotto il nome di Posel Smrti e capace all’epoca di spaccare in due la critica, fra chi lo elogiava e chi invece lo riteneva nientemeno che un pessimo progetto. Nel mezzo, alcune recensioni gli hanno riconosciuto i giusti meriti e le mancanze, etichettandolo piuttosto come occasione mancata, un gioco che avrebbe potuto essere molto e invece non ha creduto abbastanza in se stesso limitandosi a offrire una trama ricca di cliché ma povera nella realizzazione.
Con questa eredità non troppo brillante sulle spalle, il reboot in uscita il prossimo 28 novembre si trova a dover sostenere e possibilmente soddisfare non poche aspettative. La trilogia originale è servita da spunto a KING Art Games per sviluppare un’avventura del tutto nuova, orientata verso una direzione più cinematica che grazie a una maggiore interazione fra i personaggi, a un libero utilizzo dei primi piani e a una forma di gameplay volta a enfatizzare l’investigazione ambientale e le visioni sovrannaturali che in questo misterioso maniero tormenteranno il protagonista, cerca di re-immaginare il genere gotico per la generazione corrente di console grazie a un’atmosfera incentrata sugli orrori che si nascondono nella nostra mente. Immancabili dunque i riferimenti a maestri del genere, come Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft, ma basteranno a creare l’atmosfera giusta e non ripetere gli sbagli di cui ha sofferto soprattutto il titolo del 2003? Scopriamo cosa attende noi e David Gordon una volta superati i cancelli di Sgathan Dub.
Black Mirror ci porta nel vivo dell’azione fin dal prologo, mettendoci nei panni di un uomo in fuga, di notte, lungo le nebbiose lande scozzesi. Non ci vengono date istruzioni su cosa fare, sappiamo soltanto di dover scappare seguendo un percorso obbligato disseminato di cunicoli e strade alternative. Il nostro obiettivo sembra essere una sorta di Stonehenge, dove lo sconosciuto compie un misterioso rituale in gaelico, e qui si concludono le premesse che porteranno il giovane David alla dimora di famiglia. Con la morte del padre è diventato l’erede di Sgathan Dub, un onore che non sembra accogliere volentieri ma accetta soprattutto per riuscire a indagare sulle circostanze misteriose dietro al suicidio del genitore. Ad accoglierlo al castello sua nonna, Lady Margareth, il maggiordomo Angus e l’avvocato Andrews, che assieme ad altri quattro personaggi costituiscono tutti gli abitanti del maniero. La presenza di David non è evidentemente gradita e dopo i convenevoli gli verrà mostrata la stanza in cui alloggerà, con la raccomandazione di non vagare durante la notte nei corridoi… ovvero la prima cosa che faremo appena liberi di muoverci.
Il gameplay è molto semplice, limitato all’interazione con gli oggetti e al loro eventuale uso – ogni elemento raccolto utile all’esplorazione sarà inserito nell’inventario. Una volta in possesso di una candela per poterci muovere con maggiore agio nell’oscurità, saremo liberi di esplorare il castello fin dove ci sarà concesso e già a questo punto, purtroppo, si presenta un aspetto piuttosto fastidioso che ci accompagnerà lungo tutto il corso del gioco: i caricamenti. A ogni ingresso ne corrisponde uno, secondo il classico stile degli horror anni ’90, della durata di circa quindici secondi e considerata l’area particolarmente ristretta da esplorare vi troverete spesso a fissare la schermata nera in attesa che David raggiunga il punto successivo. Abbiamo trovato questa discontinuità seccante, soprattutto perché non ci si attarda in una stanza per più di qualche minuto e solo a patto vi sia un personaggio con cui interagire o un particolare oggetto da raccogliere; in caso contrario ci troveremo a fare avanti e indietro più volte di quante vorremmo, con il risultato di veder aumentare la frustrazione se per sbaglio dovessimo entrare dove non c’è necessità. Questo ripetuto spezzarsi del ritmo inficia molto l’atmosfera, anziché sortire quell’effetto di tensione e incertezza che un Resident Evil o un Silent Hill erano in grado di offrire.
I personaggi di Black Mirror mancano di credibilità e la narrazione ne risulta penalizzata
Mandato giù questo aspetto indigesto, non tarderemo a scoprire come l’impegno di KING Art Games a livello di struttura non si possa definire molto valido: il gioco si regge su texture piuttosto grossolane, che la costante oscurità e i giochi di luci e ombre nascondono fino a un certo punto perché giocando durante i momenti di luce appare più evidente la sfocatura e lo sfarfallio in alcune zone del maniero, per non parlare di come alcuni elementi di arredo a volte spariscano (un tavolino è scomparso finché non abbiamo ricaricato la partita, lasciando gli oggetti posati sopra a fluttuare nell’aria). Purtroppo la scelta di ambientare la maggior parte del gioco al buio sembra dettata dalla volontà di coprire uno sviluppo pigro, anziché immergerci in un’atmosfera da incubo. Gli stessi personaggi sono realizzati in maniera basilare, con una certa cura nei vestiti ma nessuno spazio alle espressioni: possiamo intuirne lo stato d’animo dal tono di voce – il doppiaggio è passabile, con un discreto uso degli accenti – ma guardandoli in volto non riusciamo a far combaciare le due cose. A volte David mostra segni di evidente stupore tuttavia, ed è quasi paradossale, il cambio di espressione più evidente lo si ha nei rari casi in cui il nostro tormentato protagonista può morire, eventualità che può persino non verificarsi.
L’animazione dei personaggi, nonché la loro interpretazione, aprono altre due questioni rilevanti: la loro credibilità all’interno del contesto narrativo e lo spessore che riescono a dare a quest’ultimo. In entrambi i casi l’esito è ancora una volta negativo, perché con nessuno di loro si riesce a creare alcuna empatia o anche solo provare emozioni negative nel caso degli antagonisti, complice una caratterizzazione assente e il fatto che alcuni dei già pochi personaggi sembrano stati essere messi lì solo per adempiere a un determinato ruolo in un preciso momento – privati, di fatto, di un background che possa allineare le azioni alla persona. In un videogioco che si basa soprattutto sull’investigazione e l’interazione fra i personaggi, è naturale come una simile povertà di caratterizzazione rappresenti un forte malus per la narrazione, che priva dei suoi elementi più importanti non riesce a essere valorizzata. L’alone di mistero va a perdersi e i dialoghi si sentono più come un passaggio obbligato che non processo naturale lungo tutto il corso della storia, senza dimenticare poi i continui caricamenti di cui abbiamo parlato che frammentano l’esperienza.
Se il doppiaggio si presenta discreto, senza particolare note di merito ma nemmeno fastidioso, lo stesso non si può dire dei sottotitoli – e, di nuovo, ci ricolleghiamo alla presenza di bug e glitch: a volte capita che non coincidano con il parlato, altre scompaiono del tutto rendendo difficile seguire il filo se si era concentrati sulla lettura e, nei casi più eclatanti, passano dall’italiano all’inglese senza alcuna ragione. Senza dubbio è meglio che rimanere privi di riferimenti testuali, tuttavia non è il risultato che ci aspetteremmo da chi intende rilanciare una saga non troppo fortunata dopo quattordici anni. Non si tratta di curare i dettagli, queste sono le basi che ogni gioco deve saper rispettare, soprattutto a fronte di un prezzo di vendita (40,98€) che non rispecchia gli sforzi, in questo caso minimi, compiuti dal team di sviluppo.
Non siamo riusciti a salvare la narrazione, con tutto quello che comporta, e anche a livello grafico Black Mirror delude. Cosa possiamo dire degli enigmi? Ci piacerebbe poterli salvare ma siamo costretti ad ammettere persino in questo caso le mancanze di KING Art Games: chi vi scrive li ha personalmente trovati piuttosto facili, ma non essendo la situazione uguale per tutti lasciamo in sospeso il giudizio. Ciò che si sente davvero carente è la presenza di questi stessi enigmi, perché per essere un antico castello pieno di segreti e misteri legati al lontanissimo passato della famiglia Gordon, Sgathan Dub offre ben poco all’immaginazione. Pochissime zone nascoste, occasionali prove di ingegno e nessun motivo valido per esplorare la dimora al di là del necessario per progredire nella storia. Alcune stanze sono di passaggio, altre inaccessibili, riducendo se possibile ancora di più lo spazio a disposizione. La mancanza di collezionabili (esclusi dei frammenti di fotografie utili a sbloccare dei minigiochi nel menu principale) fosse anche solo per ampliare le vicende dei Gordon e della maledizione che li affligge concorre ad asciugare ancora di più l’esperienza, finanche troppo. Mentre quel sovrannaturale che fa da cardine al genere gotico sembra essere stato inserito solo per giustificare, appunto, il genere di appartenenza: David avrà occasionali visioni e sarà preda di violenti emicranie ma niente di tutto questo sarà approfondito al di là della sua strettissima utilità a una trama carica di cliché e povera di colpi di scena. La sensazione che si ha giocando non è di essere sotto la costante minaccia di una forza oscura e letale, che ci osserva da ogni angolo del maniero, quanto piuttosto quella di essere preda di una costante, seppur breve, noia: a differenza delle circa venti ore che pur con tutti i suoi difetti distinguevano l’originale, Black Mirror dura infatti poco più di cinque ore. La maggior parte delle quali le passerete specchiandovi nella schermata di caricamento.
Black Mirror è la dimostrazione di come alcune operazioni nostalgia debbano rimanere nel cassetto. Il lavoro di KING Art Games si presenta approssimativo dal punto di vista grafico, a causa di texture sgranate, grossolane, sfarfallanti, spesso sfocate, e di un’animazione da rivedere soprattutto per quanto riguarda l’espressività dei personaggi. Non mancano poi bug e sporadici cali di frame rate, ai quali vanno ad aggiungersi i costanti caricamenti per passare da una stanza all’altra della villa, tutti molto a ridosso fra loro. Laddove su questo risultato qualitativamente piuttosto basso si sarebbe potuto chiudere un occhio in favore di una storia coinvolgente e cupa come ci si aspetterebbe dal genere gotico, la narrazione non è affatto incisiva: si avvale dei canoni tipici – mistero, maledizioni ancestrali, orrore e follia – ma non riesce ad amalgamarli bene fra loro, risultando dunque frammentaria, blanda e perdendo di mordente a mano a mano che si prosegue. Non c’e la strisciante sensazione di disagio che accompagna spesso letture come quelle di Edgar Allan Poe, né la sensazione di non essere mai soli nei bui corridoi di Sgathan Dub, perché non esiste una vera e propria minaccia da cui difendersi e gli sviluppatori non sono riusciti a farci credere il contrario. Il continuo passare da una stanza all’altra e le attese che ne conseguono smorzano anzi quella poca tensione che si sarebbe potuta creare. Il senso di scoperta viene meno perché gli elementi chiave vengono presentati con poca enfasi, spesso buttati lì con noncuranza, e questo va in parte attribuito alla scarsa profondità dei personaggi, incapaci di imporsi nel rispettivo ruolo a causa di un’espressività del tutto assente e il doppiaggio che resta piuttosto sottotono. A livello di gameplay le cose non migliorano: da un lato i pochi enigmi presenti sono di facile risoluzione, dall’altro interagire con i punti di interesse è molto spesso scomodo e, nelle fasi più “concitate”, potrebbe portare a frustranti Game Over. Nel complesso, e considerata la sua blanda conclusione, Black Mirror non riesce a scrollarsi di dosso le critiche che hanno accompagnato la trilogia punta-e-clicca, ricadendo nei medesimi errori nonostante un gameplay e una trama rivisti e solamente in parte ispirati ai titoli precedenti. La maledizione dei Gordon non si limita ad affliggere i protagonisti della storia ma, a quanto pare, anche il videogioco stesso. |
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