Un’auto si ferma all’improvviso, parcheggia. Una donna scende, attraversa un piccolo molo, e raggiunge la spiaggia. Ci vuole proprio, dopo un lungo tragitto in macchina, magari dopo un altrettanto lungo periodo di apnea nel caos cittadino: una pausa, fisica e mentale, cullati dalle onde e dalla morbida sabbia, che accoglie i corpi esausti dei villeggianti prima e dopo di un bel bagno nell’acqua limpida e frizzante. La donna che attira il nostro sguardo, l’unica presente sulla spiaggia silenziosa di Bound, non sembra però la classica turista in cerca di frescura: è ben vestita, è incinta, e in mano ha un piccolo libro. No, non è il solito romanzo estivo strappalacrime, né tanto meno la Settimana Enigmistica. Sembra un quaderno, forse un diario: all’interno, disegni astratti, realizzati palesemente da un bambino, eppure, concettualmente, sembrano il parto di una mente ben più sviluppata, cresciuta… un parto inquietante.
Parte da qui l’immersione, ma non nell’oceano al cospetto della donna, bensì in quello interiore, della sua anima, o meglio, della sua mente. Ogni pagina è un ricordo, una danza solenne e sofferta tra un frammento della memoria e l’altro, fra un trauma e una scena familiare e quotidiana, cristallizzati, vividi solo una volta esplorati e scavati a fondo come in una foto a 360°, immobile eppure così ricca di dettagli.
Sono i traguardi di ognuno dei livelli di Bound, teatri tanto vasti quanto lineari, dall’aspetto unico, artistico, tumultuoso. Ogni fotogramma di questa piccola gemma, sviluppata in esclusiva per PS4 dai polacchi Plastic (Linger in Shadow, Datura) col robusto supporto dei Santa Monica di Sony, dà l’impressione di far parte di un vero e proprio dipinto in movimento, di quelli di arte moderna però, che non tutti comprendono, non tutti capiscono, non tutti apprezzano.
È dura però non lasciarsi ammaliare dalle forme spigolose di scale e piattaforme, dalla spuma cubica che spesso inonda le superfici su cui poggiano i delicati piedi della protagonista senza volto di Bound, contrapposti in un delizioso ossimoro alla raffinatezza dei suoi passi. Non abbiamo usato termini come “cammina” o “corre” perché non renderebbero giustizia alla grazia con cui l’avatar si muove su queste forme geometriche ardite e schizofreniche, che spariscono e si contorcono al suo passaggio, quasi a non sentirsi meritevoli di poter anche solo sfiorare una principessa dai movimenti così soavi. Ogni passo è un passo di danza, tra una capriola più dura, e una più tecnica e sopraffina, o un ticchettio frenetico delle punte dei piedi che attraversano una trave posta nel vuoto o il ciglio squadrato che affaccia su un baratro.
Il nostro avatar è la figlia di una regina altrettanto anonima di un altrettanto anonimo regno senza nome, minacciato da una diabolica e pantagruelica figura, dalle sembianze in comune con le figure apparentemente positive con cui siamo da subito entrati in contatto. Solo un misterioso “salvatore”, nascosto nelle profondità, può annientare questo apparentemente indistruttibile pericolo. Una vaghezza che ci impone di non svelare alcunché sulla narrazione, affidata a qualche striminzito dialogo in una lingua incomprensibile e al potere metaforico delle immagini, perfettamente in grado di ferire più di una spada, e quanto la lingua.
Ogni fotogramma di questa piccola gemma dà l’impressione di far parte di un vero e proprio dipinto in movimento
Non ci sono obiettivi da seguire, né complesse meccaniche da comprendere, e a dirla tutta, il vago accenno di “gameplay” in senso stretto, pare un orpello opinabile, la cui presenza non avrebbe cambiato nulla all’interno dell’economia del gioco: si va dritti come un treno da un punto all’altro del livello (a tal punto da offrire un’apposita modalità Speedrun, per i corridori di pixel), ognuno associato ad una pagina del diario selezionabile casualmente, una scelta che porta anche lievi modifiche strutturali (fino ad un massimo di 120 combinazioni differenti); si salta da una piattaforma all’altra, badando bene di non cadere (potrete anche disattivare i “Bordi Sicuri”, per dare un po’ di brio al tutto, ma ci penseranno tante cadute non calcolate, colpa – anche – di imprecisioni nelle collisioni, a tenervi compagnia), ci si arrampica a dei nastri da ballerina come se fossero liane, e sempre con i nastri ci si protegge da arbusti tentacolari e minacciosi poligoni fluttuanti, neri come la pece.
Non esistono in Bound boss-fight e veri e propri combattimenti: si tiene al massimo premuto il tasto R2 per qualche secondo, per debellare ogni possibile minaccia, schivandola o spazzandola via semplicemente proteggendoci con una sorta di “calotta” protettiva. Come detto però, a farla da padrone, in Bound, sono gli elementi di contorno: dall’ermetica trama (finali multipli inclusi), su sui ruota attorno tutta l’esperienza, alle splendide musiche che accompagnano ogni delicato passo, fino alla grafica (tranne qualche sbavatura nei volti umani), ricca di colori e forme astruse, di strutture geometriche in movimento continuo, di guizzi artistici che spezzano un certo e sporadico déjà vu, incluse citazioni escheriane mozzafiato.
Totale disprezzo della gravità, inquadrature che ruotano insieme ai livelli stessi, elementi sullo sfondo appollaiati sul nulla cosmico, ed entità alte quanto palazzi che ci incutono timore, svettanti dalla loro dimensione gigantesca ed extraterrena, e che ci fanno male senza nemmeno sfiorarci, quasi a volerci ricordare che dal passato non si scappa, e prima o poi va affrontato, di petto, o in punta di piedi, non importa.
Bound è un piccolo gioiello, tripudio di introspezione e visioni artistiche di prim’ordine, splendido da vedere e da godere, un po’ meno da giocare, nel senso stretto del termine. È una di quelle classiche esperienze che sacrificano il gameplay in favore di tutto il resto (e che resto!), e che, se prese in esame da un punto di vista squisitamente ludico, non raggiungerebbero nemmeno la sufficienza (complice anche una longevità ridotta all’osso: stiamo parlando di circa 3 ore e mezza di gioco). C’è però tanto altro da cui restare ammaliati, dalle musiche alla visione artistica prorompente, fino alla trama criptica e sopita (quanto classica) che esplode all’ultimo e lascia sensazioni potenti, laceranti per qualcuno, ed agrodolci… e ad ottobre verrà introdotta la compatibilità con PlayStation VR: inutile dire che non vediamo (letteralmente) l’ora di immergerci in quei ricordi così belli da vedere. Anche se è un platform, Super Mario c’entra davvero poco… ma in compenso, anche Bound una principessa ce l’ha. |
Good
Emozionante Intenso... Atmosfera sublimeBad
Gameplay ridotto all'osso ... ma breve Qualche imperfezione tecnica
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