30 Ott 2018

Call of Cthulhu – Recensione

Ritengo che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana a mettere in correlazione tutti i suoi contenuti. Viviamo su una placida isola di ignoranza nel mezzo del nero mare dell’infinito, e non era destino che navigassimo lontano. Le scienze, ciascuna tesa nella propria direzione, ci hanno finora nuociuto ben poco; ma, un giorno, la connessione di conoscenze disgiunte aprirà visioni talmente terrificanti della realtà, e della nostra spaventosa posizione in essa che, o diventeremo pazzi per la rivelazione, o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e sicurezza di un nuovo Medioevo.

Esordisce così H.P. Lovecraft ne “Il Richiamo di Cthulhu”, nell’edizione italiana 1993, l’opera che ha ispirato un omonimo ottimo gioco di ruolo pen & paper e di carte collezionabili (assieme a molti altri), brani musicali, un film nel 2005 e persino le tavole dell’artista giapponese Tatsuya Morino. Oltre, naturalmente, a diversi videogiochi come quello di cui andremo a parlare a breve. Sebbene di recente si siano viste produzioni molto ispirate agli scritti e alle atmosfere di Lovecraft, come il dimenticabile reboot Black Mirror o l’imminente The Sinking City previsto per marzo 2019, si tratta appunto di giochi che usano le opere dello scrittore come fonte per poi deviare verso un percorso proprio. Call of Cthulhu, invece, sviluppato da Cyanide Studio ed edito da Focus Home Interactive, vuole essere una riproposizione più mirata del racconto datato 1928 e soprattutto del gioco pen & paper di cui sopra – dal quale sono state prese proprio le meccaniche RPG. O almeno lo sarebbero, ma questo è un discorso che approfondiremo in seguito, perché c’è molto di cui discutere.

Ambientato negli Stati Uniti del 1924, nel pieno dei cosiddetti “ruggenti anni venti”, il gioco ci mette nei panni dell’investigatore privato Edward Pierce: un uomo tormentato dai propri fantasmi e dagli orrori della Grande Guerra, che l’ha visto sopravvivere all’offensiva della Mosa-Argonne nella battaglia che coinvolse quello passato alla storia come il “battaglione perduto” – un’unità della 77ª divisione e di cui solo 194 soldati su 575 riuscirono a tornare a casa. Affoga i ricordi nell’alcol e nella nebbia di tutti i sonniferi che prende, ma nessuno dei casi affrontati fino a quel momento riesce a risvegliarlo dal torpore finché un certo Stephen Webster non bussa alla porta del suo ufficio…

Le influenze lovecraftiane nei videogiochi sono diventate sempre più diffuse tanto nei titoli tripla A quanto negli indie, tutti concentrati a percorrere le orme dell’avventura di carta e penna The Call of Cthulhu (1981) mentre cercano di immaginare un nuovo approccio alla cosiddetta letteratura “weird”. La manifestazione di tali influenze è varia e interessante come il materiale di partenza, persino all’interno dello stesso gioco poiché non sono presi in prestito solo nomi e scenari ma persino tematiche narrative. Dunwich Borers per esempio, in Fallout 4, è un chiaro riferimento a una delle pietre miliari di Lovecraft, “L’orrore di Dunwich”. Al di là del citazionismo ci sono però titoli costruiti interamente attorno alla sua letteratura, a partire proprio da questo Call of Cthulhu fino a Howard Phillips Lovecar, lo shooter top-down a bordo di un’automobile, passando per l’horror in prima persona non lineare Inner Voices, dimostrando una forte proliferazione di cosa il termine “lovecraftiano” significhi quando è applicato ai videogiochi. Analizzandola in senso più ampio tuttavia, la parola si riferisce a una parte specifica e la più importante della produzione di Lovecraft: quella legata allo stile e alla struttura letteraria dei Miti di Cthulhu, che il gioco in questione si sforza di ricalcare senza tuttavia riuscirci.

Call of Cthulhu trasmette la giusta atmosfera delle opere di Lovecraft

Proprio per tale ragione ci sono videogiochi che non meriterebbero la nomea di lovecraftiani, perché vanno a trattare una concezione generica del mito, senza evidenziare alcun profondo coinvolgimento con i temi e le strutture ricorrenti delle opere dello scrittore. Il cuore di molti progetti che rivendicano questo preciso aspetto è l’estetica dell’oscurità e del design di mostri basati sulle creature delle profondità marine; nessuno tuttavia ricorda da vicino le descrizioni di Lovecraft, poiché anziché attingere direttamente da lui si vanno a inserire elementi tipici della tendenza più pervasiva all’interno della narrativa horror – cioè la messa in scena di situazioni in luoghi principalmente claustrofobici o nel corso delle ore notturne.

L’orrore come lo concepiamo e rappresentiamo oggi è il riflesso di opere come “Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde” di Robert Luis Stevenson, o “Dracula” di Bram Stoker, dove i mostri si aggiravano dopo il calar del sole. Lovecraft era invece più vario sia nelle ambientazioni sia nell’utilizzo del buio e della luce, della claustrofobia come dell’agorafobia. Ciò porta gli ambienti poco illuminati di SOMA, Call of Cthulhu e Conarium a rappresentare solamente metà dell’estetica propria dei lavori di Lovecraft. Nel nostro particolare caso non sarebbe un problema, in questa metà, se il lavoro svolto da Cyanide fosse complessivamente meritevole: purtroppo non è così e pur riuscendo a trasmettere sia la giusta atmosfera sia il senso di orrore e ripugnanza, fallisce in tutti gli altri aspetti – da una grafica che si addice più alla scorsa generazione fino a meccaniche risicate e una trama confusa.

Chiamato a indagare sul misterioso omicidio-suicidio della pittrice Sarah Hawkins, Pierce si sposterà fin dalle prime fasi di gioco nel villaggio portuale di Darkwater: un agglomerato di case abitate perlopiù da pescatori, caratterizzato da un forte senso di decadenza e un certo fastidio per gli stranieri, nonché piagato da una moria della sua principale fonte di sostentamento – i cetacei. Qui il nostro detective dovrà indagare sui fatti secondo una struttura di gioco molto affine ai walking simulator e familiare a chi ha già provato esperienze come Layers of Fear e The Vanishing of Ethan Carter; dovremo guardarci in giro, parlare con i poco amichevoli residenti di Darkwater e interagire con gli oggetti evidenziati da icone luminose per ottenere quante più informazioni possibili.

Dai dialoghi emerge quello che sarebbe dovuto essere uno degli aspetti più significativi di Call of Cthulhu: le risposte multiple, spesso legate all’efficienza delle nostre abilità di detective e che vedete riportate nell’immagine sopra. Cercando di ricalcare il più possibile il gioco di ruolo cartaceo, Cyanide propone sette differenti abilità, cinque delle quali legate ai Punti Personaggio mentre le restanti due – Occulto e Medicina – migliorabili trovando testi a esse legati. Per quanto interessante la scelta di basare lo sviluppo di Pierce anche sull’esplorazione c’è un evidente sbilanciamento nella messa in gioco di queste due specifiche abilità – sia perché sembra non ci sia materiale a sufficienza per espanderle al massimo, sia per la presenza già all’inizio del gioco (e non solo) di opzioni impossibili da sbloccare proprio per la mancanza di esperienza necessaria.

Il palazzo mentale di Pierce è poco coerente e troppo “deus ex machina”

A proposito di investigazione, inoltre, Call of Cthulhu pone enfasi su questa qualità di Pierce in due modi diversi: la prima di basa sul ritrovamento di specifici indizi all’interno di un’area marcata da un punto di domanda lampeggiante in basso a sinistra dello schermo; vedendolo capiremo di dover esplorare fino a trovare, in base al nostro livello di Fiuto, documenti o oggetti nascosti in genere utili a sbloccare una nuova linea di dialogo o ampliare la lore. La seconda sarebbe anch’essa dovuta essere di forte impatto nell’economia del gioco ed è quella che più ricorda The Vanishing of Ethan Carter: dovremo ricostruire determinate scene entrando nel palazzo mentale di Pierce che tuttavia, anziché essere uno strumento efficace e coerente, si rivela piuttosto un deus ex machina per risolvere alcuni punti della trama.

Oltre a essere fin troppo guidata come esperienza, è evidente che con gli indizi a disposizione il protagonista non avrebbe mai potuto trarre la maggior parte delle conclusioni alle quali giunge – motivo per cui la sua capacità investigativa supera il confine della veggenza, lasciando spesso l’amaro in bocca per l’incoerenza che traspare da molte ricostruzioni. Il basso livello di interazione infine porta a pensare che questa meccanica sarebbe potuta essere più efficacemente sostituita con delle cinematiche. Sebbene si possa obiettare che simili ricostruzioni siano presenti anche nella serie Batman Arkham o Detroit: Become Human, in entrambi i casi non soltanto gli indizi erano più significativi ma la tecnologia a disposizione dei personaggi permetteva sviluppi cui la mente umana non potrebbe mai arrivare.

Come ogni investigativo che si rispetti, non mancano (pochi) enigmi da risolvere ma la loro risoluzione è talmente semplice che non si possono spendere altre parole al di fuori di queste. Avendo a che fare con un probabile culto, personaggi ostili e altrettanto possibili creature d’incubo, gli sviluppatori hanno cercato di inserire fasi stealth durante le quali è obbligatorio usare la massima prudenza per non essere scoperti e sopraffatti al primo colpo: sorvolando sul fatto che un veterano di guerra come Pierce non sia in grado di reagire all’aggressione di un infermiere, ancora una volta le buone intenzioni di Cyanide restano sulla carta presentando un sistema lacunoso in termini di intelligenza artificiale e facilmente aggirabile con il vecchio sistema “scappa fino a seminare l’inseguitore”.

L’immedesimazione nelle situazioni, nonostante l’atmosfera, ma soprattutto nel personaggio di Pierce e il concetto di verosimiglianza vengono purtroppo meno mantenendo il giocatore e il detective troppo spesso come due entità separate. Se possibile ancora più scarsamente efficace e fine a se stessa delle fasi stealth, verso la fine del gioco verrà introdotta una sequenza di gunplay che avremmo preferito non vedere: oltre a rimarcare il fatto che Pierce possieda una pistola ma sembra dimenticarsi spesso di averla, persino nelle situazioni dove davvero servirebbe, la semplicità di esecuzione è oltremodo disarmante e non viene mai trasmessa neppure la minima sensazione di pericolo.

La trama di Call of Cthulhu si appoggia su ottime basi, che però non vengono sfruttate

Chiudiamo la parte dedicata alle meccaniche e all’aspetto tecnico con alcune osservazioni su grafica, controlli e doppiaggio: sebbene le ambientazioni possano risultare soddisfacenti, in linea con gli stilemi di horror e follia riscontrabili in Lovecraft, la realizzazione spinge molto su una qualità old gen soprattutto quando si tratta dei personaggi – la cui espressività e sincronia nel parlato sono particolarmente discutibili. Le voci stesse contribuiscono a sottolineare la mancanza di caratterizzazione, mancando di una qualunque enfasi. I controlli sono invece responsivi finché si tratta di giocare con il joystick ma se siete accaniti giocatori di PC e vorrete cimentarvi con questa versione sappiate che la mappatura dei comandi per mouse e tastiera è incredibilmente raffazzonata e spesso non funzionale, al punto che sarete obbligati ad abbandonarli per passare al joystick. Considerato che in genere le edizioni PC sono le migliori, questo aspetto lascia non poco sorpresi.

Infine, la trama. Come abbiamo scritto alcuni paragrafi sopra, è molto difficile cogliere e riportare gli scritti di Lovecraft nella loro complessità e interezza: spesso la voglia di inserire quanti più elementi “lovecraftiani” possibili spinge a dimenticare uno sviluppo narrativo coerente, portando a un intreccio confuso e alla fine poco soddisfacente. Purtroppo è quanto accade in Call of Cthulhu, la cui trama si appoggia su ottime basi ma non riesce a sfruttarle vanificando o comunque ridimensionando l’impatto dei dialoghi a scelta multipla (in una sola partita ho potuto fare tre finali su quattro, ndr), senza contare la spinta verso un’unica vera conclusione – a discapito delle altre, trattate con meno cura. Lascia con l’amaro in bocca inoltre il fatto che pur avendo disposizione un bestiario espanso (pur essendo la narrativa di Lovecraft basata sul non descritto) di cui possiamo addirittura trovare alcune raffigurazioni in libri sull’occulto, nulla venga effettivamente implementato: nonostante il nome, dunque, il gioco si appoggia molto poco sui Miti di Cthulhu rivelandosi poco più di un titolo ispirato e non una riproposizione.

Conclusioni

Cosa rimane dunque di Call of Cthulhu? Un gioco purtroppo mediocre, un’occasione sprecata che si regge malamente in piedi soltanto su un’atmosfera ben ricostruita: per il resto abbiamo personaggi scarsamente caratterizzati, una trama confusa e troppo banale, ed elementi di stampo ruolistico che purtroppo non mantengono le promesse su carta il compito di minarne le fondamenta.

Le meccaniche non funzionano, passando dal semplicistico al sovrannaturale (il castello mentale di Pierce) fino a toccare, di nuovo, una mediocrità che pur con tutte le buone intenzioni non giustifica il prezzo di vendita. Speriamo che Cyanide Studio possa imparare da questa esperienza, facendone tesoro per arrivare a proporci un gioco di cui potremo tessere soddisfatti le lodi anziché disfarne gli intrecci.

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