Anime
Editoriale 24 Mag 2018

Come mi sono re-innamorato degli anime giapponesi

Mi chiamo Amedeo, e ho passato la trentina da poco. E no, quest’articolo non è una riunione degli alcolisti anonimi, né un nuovo modo per vendervi pillole dimagranti o abbonamenti di sorta. No, questa  è una confessione. Una di quelle che uno come me non dovrebbe fare, che stona un po’ con l’intero costrutto societario nel quale siamo inseriti, ma non importa. Dicevo, mi chiamo Amedeo e adoro gli anime giapponesi. Ma andiamo con ordine. La mia relazione con l’animazione del Sol Levante è nata tanto, ma tanto tempo fa, quando canali TV oramai scomparsi trasmettevano la prima serie di Dragon Ball a inizio anni ’90. Da lì era una corsa a tenersi da parte qualche moneta per comprare il manga di turno, mentre crescevo guardando su MTV serie storiche come Slam Dunk, Neon Genesis Evangelion e Cowboy Bebop. Guardavo estasiato quegli show animati, rapito dalla regia, dalle musiche e dalle vicende surreali dei loro personaggi.

Erano la mia droga mediatica, l’evasione settimane di cui avevo bisogno oltre al mondo dei videogiochi: serie stupefacenti, cariche di fantasia e ambientate in posti incredibili. Ogni puntata ne tirava un’altra, ma seguirle non era affatto facile. Già, perché in un mondo dove non esistevano servizi di streaming e internet era ai suoi albori, stare dietro a una serie animata giapponese era complicato e molto dispendioso. Bisognava conoscere una buona fumetteria, cercare gli arretrati, trovare le videocassette magnetiche con le tanto agognate puntate anime mancanti. Insomma, un vero e proprio inferno per un ragazzino che con la sua paghetta poteva al massimo comprarsi un gelato. Per forza di cose ho abbandonato quel mondo colorato e fantasioso nei miei late teen: non perché non ne fossi affascinato, ma perché le barriere che mi separavano dalla fruizione di quegli spettacolari show erano troppo alte, quasi insormontabili.

Neon Genesis Evangelion
Neon Genesis Evangelion, un amore di gioventù.

Come molti altri mi sono auto-convinto che la mia crescita doveva per forza passare attraverso l’abbandono di quei “cartoni animati”, classificandoli come ricordi di infanzia o poco più. Insomma, chi è che si mette a guardare un anime giapponese quando ci sono le interessantissime serie TV americane come Lost, Dexter o Battlestar Galactica? Nessuno. “I cartoni giapponesi sono per i ragazzini un po’ sfigati” era una frase piuttosto ripetuta da parecchie mie conoscenze, e all’epoca non m’interessava contraddirli. Dopotutto c’erano altri pensieri in quei tempi, altre distrazioni. Più passavano gli anni più quel mondo mi sembrava estraneo, lontano e ingrigito, come se non avesse più a che vedere con me. Mi sbagliavo.

L’arrivo di Netflix ha cambiato le carte in tavola. Mi tocca ammettere che ero già un fruitore del servizio di streaming ben prima che approdasse in Italia: un account aperto in USA e il saltuario utilizzo di una rete VPN mi avevano aperto un nuovo universo fatto di intrattenimento a trecentosessanta gradi. E così, da bravo nerd, fagocitavo serie e film americani come se non ci fosse un domani. Un giorno però, mi cadde l’occhio su un particolare anime che sembrava spiccare nella mia grigia homepage: si chiamava ONE PUNCH MAN, e in copertina mostrava un pelatone vestito di giallo col suo pugno in primo piano, davanti ad un cyborg dall’aria fin troppo seria. Incuriosito da quel connubio strano iniziai la prima puntata. Ecco, quello fu l’inizio della fine per me: divorando uno dopo l’altro gli episodi dell’anime di One, scoprii che le braci della mia passione per l’animazione giapponese non si erano spente, ma solo sopite sotto un cumulo di cenere fatta di mediocri serie TV occidentali. Badate bene, non sto certo denigrando le produzioni televisive americane eh, no di certo. Adoro molti show, come Stranger Things o Game of Thrones fra i più popolari, ma bisogna anche ammettere che la qualità media delle produzioni degli ultimi 10 anni non è certo al livello di questi due giganti dell’intrattenimento.

Guardavo estasiato quegli show animati, rapito dalla regia, dalle musiche e dalle vicende surreali dei loro personaggi

One Punch Man invece era fantastico, ed è stata la serie che è diventata la miccia che ha innescato una bomba inesplosa da troppi anni: era la scintilla che mi serviva per scuotermi e farmi riscoprire un mondo che avevo così brutalmente abbandonato, lasciandomelo alle spalle durante la crescita. Da lì è iniziata una lenta e inesorabile discesa nella storia dell’animazione nipponica, in tutto quello che mi ero perso in più di dieci anni: e non sto parlando solo dei capolavori indiscussi di Miyazaki, no. Potrei fare la figura del finto intellettuale che ammira solo i grandi capolavori, ma la verità è tutt’altra: ero in frenesia da anime, e mi prendevo praticamente tutto quello che lo streaming aveva da offrirmi, da cose più serie e interessanti a roba totalmente “WTF”, senza alcun ritegno. D’altronde questa non sarebbe una vera confessione se non ammettessi di essere morto dal ridere guardando le assurde vicende narrate da Prison School. Più ne guardavo più ne volevo ancora, e ovviamente Netflix non mi bastava più: ho scoperto così la defunta piattaforma Daisuki, e poi subito dopo VVVVID e Crunchyroll, due miniere d’oro cariche di spettacoli interessanti, e hanno avuto il merito di mostrarmi piccole perle Shonen (per ragazzi n.d.r.) come My Hero Academia, Overlord, il sempreverde Dragon Ball Super e il recente Darling in the Franxx.

Come non lasciarsi catturare dal carisma di questi due?

Insomma, gli anime sono ritornati ad essere una parte importante della mia vita da nerd, forse anche più incisiva di quanto io stesso voglia ammettere. Perché c’è davvero tutto, dal dramma esistenziale alla serie più spensierata possibile. D’altronde non è più come tanti anni fa: non c’è più bisogno di costose videocassette o di DVD introvabili: si può passare dalla devastante esperienza offerta da Devilman Crybaby all’emozionante storia di Violet Evergarden in un solo clic, in qualunque momento della giornata e con qualunque dispositivo. E inutile dirlo, l’adolescente che è in me l’ha capito fin troppo bene, riprendendo la sua droga preferita senza alcun indugio. Oramai seguo un sacco di show in simulcast, ovvero in contemporanea con le uscite in Giappone, e almeno una buona oretta al giorno la dedico a guardare un anime. Non ne posso proprio fare a meno.

Grazie agli anime, per la prima volta in dieci anni ho ripreso in mano un vecchio sogno, quello di andare in terra nipponica a vedere le radici del videoludo e dell’animazione, di vedere Kyoto, Osaka e il quartiere di Akihabara. Non vi spaventate, non sto impazzendo: fa tutto parte della mia confessione, la mia espiazione delle colpe insomma, anche se qui di colpe non ce ne sono. Gli anime sono fantastici, e se ne avete apprezzato anche solo uno nella vostra vita dovreste riprendere a guardarli il prima possibile. Senza pregiudizi, senza problemi e senza paura di essere giudicati come immaturi o strani. Perché è un modo di narrare le storie davvero sui generis, con la capacità di raccontare qualcosa che in altro modo non è possibile trasmettere. Non a caso le trasposizioni live action (con attori veri n.d.r.) di serie giapponesi hanno scarsissimo successo e non riescono mai a replicare l’iconico feeling dell’originale (vero Death Note?). So che vi sembrerò delirante, ma l’unico modo per capire le mie parole è provare, andare oltre quel freno morale che vi dice che gli anime non fanno più per voi. Fidatevi, quel mondo finirà per farvi innamorare. Plus Ultra, dice qualcuno, e io non posso che sottoscrivere.


 

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