Giocai la prima volta a Death Stranding pre lancio ma, contrariamente a quanto verrebbe da pensare, non lo feci per recensirlo. Mi fu assegnata la stesura delle guide, un destino forse peggiore dell’avere la responsabilità di giocare l’ultima fatica di Hideo Kojima per analizzarla criticamente. Provate ad immaginare il mondo post apocalittico di Death Stranding, il suo gameplay che non ha vie di mezzo (o piace, o non piace) e applicatelo alla necessità di scrivere una guida completa su cosa fare, dove trovare determinati oggetti e come risolvere alcuni enigmi.
Soprattutto, focalizzatevi sui collezionabili. A gioco messo in commercio è facile, per un completista, gestire questi aspetti perché anche volendo porre una sfida con sé stessi, sa che nel momento in cui dovesse gettare la spugna qualcuno su internet può aiutarlo a risolvere il problema.
Il qualcuno in questione sono stata (anche) io, con un’immersione totale di oltre centotrenta ore in cui non c’è stato angolo che non abbia esplorato. Non feci tutto da sola e, in un certo senso, questo rientra nell’aspetto di comunità tanto voluto da Kojima. Un collega, di un’altra testata, mi aiutò a riempire i miei vuoti così come io i suoi ed è forse il ricordo più bello che ho: quello di due persone “concorrenti” che superano le barriere per tendersi una mano a vicenda, persino se lo stesso articolo sarebbe poi stato pubblicato su due testate diverse.
Questo perché io resto dell’idea che, al di là di un po’ di sana competizione, come non dovrebbe esistere la console war non ci dovrebbe essere nulla di simile nemmeno tra le redazioni: non devo essere gelosa del mio contenuto, o delle mie competenze, se possono servire a qualcuno per superare determinati ostacoli.
Ma sto divagando.
Tornando al concetto principale, ovvero Death Stranding e la sua mole di ore che mi ha travolto lasciandomi un ricordo indelebile per diverse ragioni, quando ho saputo della Director’s Cut ho avuto sentimenti tendenzialmente negativi. Da un lato temevo, come poi è successo, di doverci ritornare, dall’altro le migliorie messe sul piatto mi hanno fatto sentire tradita.
Sembravano una serie di trovate pensate per facilitare e dunque snaturare l’esperienza, quasi uno sputo in faccia a chi l’originale l’ha giocato e ne ha subito tutta la giusta fatica – perché, lo ripeto, Death Stranding non ha vie di mezzo ed è un’esperienza che prosciuga, facendo sentire fisicamente tutta la fatica durante il proseguo del nostro viaggio.
Provandole con mano per la recensione (che potete leggere qui) mi sono resa conto che sì, il gioco è stato ammorbidito soprattutto all’inizio per lasciare un impatto meno duro verso i nuovi giocatori – non abbraccio del tutto la scelta ma la comprendo. Per il resto, soprattutto in merito a nuovi gadget come la catapulta, le rampe e ancor più in particolare lo stabilizzatore, sono tutti stati implementati in maniera intelligente; abbastanza da non facilitare il giocatore in maniera sbilanciata, spingendolo comunque a compiere delle scelte ragionate sul come utilizzare questi gadget, qualora volesse farlo.
Io non l’ho fatto, semplicemente perché da veterana del gioco avevo in mente la mia struttura e il mio modo di approcciare le difficoltà, ma testandole per capirne l’eventuale squilibrio ho capito che sono un invito a strutturare il proprio viaggio in maniera diversa. Ancora, non sono completamente d’accordo con la scelta ma la comprendo e la rispetto.
Quello che invece non comprendo, proprio come la prima volta, è come sia riuscito Hideo Kojima a coinvolgermi di nuovo in un viaggio sul quale mi ero spesa a sufficienza, che ho promesso non avrei rifatto mai più e nel quale il coinvolgimento è stato esattamente lo stesso. Mi sono resa conto, giocando, che ho fatto le stesse identiche scelte e mosse della mia prima partita, pur conoscendo l’esperienza in sé e sapendo cos’avrei potuto evitare o meno.
Sul serio, non posso dire di aver mosso gli stessi identici passi, non vado fino a questo punto, e sicuramente un paio di agevolazioni dovute alla Director’s Cut mi hanno reso più aggressiva verso determinate situazioni con i Muli, ma quando si tratta di affrontare il viaggio, di connettere i luoghi fra loro, il mio approccio è stato lo stesso. Ho connesso i luoghi nello stesso ordine, ho scelto le medesime strade per raggiungerli, ho evitato o affrontato le CA proprio come nella partita originale… il tutto senza averne bisogno, perché io Death Stranding lo conosco a menadito.
Non mi serviva fare le missioni secondarie dell’Ingegnere, o soddisfare i capricci dell’Anziano, o ancor meno consegnare pizze. Eppure l’ho fatto. Attratta dallo stesso, inspiegabile fascino magnetico della prima volta, senza sentire il peso di un gameplay già visto o un’avventura vissuta: c’era sempre qualcosa che mi spingeva a fare quel passo in più, quell’incarico extra, a raccogliere cose lasciate in giro da altri pur non avendone bisogno. Era come un istinto, un’azione che compivo senza rendermene davvero conto.
Non ho completato una seconda volta l’avventura, perché il tempo è sempre tiranno e ci sono tanti altri giochi nuovi da valutare, ma Death Stranding: Director’s Cut è ancora installato sulla mia PlayStation e non escludo che occasionalmente potrei tornare a fare un giro dell’America disconnessa assieme a Sam. Il tutto senza capire perché. Ancora adesso non ho idea del perché Death Stranding mi abbia catturato così tanto non una ma ben due volte e, onestamente, sono confusa sul fatto di dover essere grata o meno a Kojima per questo: per certo so che gli devo dare merito di un’impresa, almeno nei miei riguardi, così difficile.
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