18 Apr 2019

Cuphead – Recensione Xbox One & Switch

Annunciato nell’ormai lontano E3 2014, erano in molti a dare ufficialmente per spacciato Cuphead. Pareva quasi che lo StudioMDHR dei fratelli Moldenhauer fosse rimasto vittima non tanto dell’hype, mostruoso per un team minuto e indipendente come il loro, ma dell’ossessione dei due, della loro meticolosità, della cura per i dettagli spasmodica, quasi morbosa. Tratti peraltro condivisi con la loro opera.

Ma questa fusione spirituale, incredibile ma vero, per un bel po’ di tempo non voleva fermarsi lì: sembrava quasi che la scommessa col diavolo l’avessero persa loro, e non i due buffi protagonisti, l’omonimo Cuphead, sprezzante del pericolo con quelle sue ridicole braghe rosse e quella tazza al posto della testa (cannuccia inclusa), e il più timoroso Mugman, in blu.

Già, perché nonostante si tratti di un shoot em up/run ‘n’ gun vecchio, vecchissimo stile, aveva dannatamente senso dargli una base narrativa che pescasse a piene mani dalla loro principale fonte di ispirazione: gli anni 30 e i cartoni animati con cui sono cresciuti (no, non è che hanno 90 anni ciascuno, tranquilli, ndr), quelli dei Fleischer Studios in particolare.

Ai due baldi fratelli, la tranquillità di Inkwell Isle sta un po’ stretta, e nonostante gli avvertimenti, decidono di avventurarsi nel “Casino del Diavolo”. Sembra uno di quei nomi altisonanti, messi lì per attirare giocatori viziosi alla ricerca di divertimenti proibiti, ma basta dare un’occhiata al proprietario per capire che, no, non si poteva chiedere un nome più letterale di quello: ai due basta qualche tiro di dado e l’inebriante profumo della vittoria per finire dritti nella trappola del Diavolo stesso, e reputare saggia la scellerata idea di giocarsi l’anima contro di lui. Nemmeno il tempo di realizzare e puff!, il banco vince, tutto. Ma come nelle fiabe più intriganti, anche il Diavolo sa essere magnanimo, e propone alla strana coppia un accordo: per riavere le loro anime, dovranno riscuotere dei debiti per lui, e strapparle via, a loro volta, a loschi figuri di cui pullula l’apparentemente tranquilla Inkwell Isle e le sue varie isole, mondi colorati, stravaganti, intrisi di magia e stranezze, letteralmente invasi da creature di ogni genere: api regine, picchi, pirati, carote, fiori, caramelle, tutti dalle dimensioni esagerate e tremendamente affamati di morte e distruzione.

Sembrava quasi che la scommessa col diavolo l’avesse persa StudioMDHR, e non i due buffi protagonisti

Ne sono più di 30, ed è attorno a loro che verte tutto Cuphead: singoli livelli incentrati esclusivamente sulle boss-fight, tutte divise in più fasi in cui, non paghi di volerci disintegrare, i nostri nemici cambiano forma, o vengono persino sostituiti, e parallelamente a cambiare volto è anche il loro pattern d’attacco, da una parte preciso, metodico, estenuante, dall’altro sempre pronto a variare in maniera casuale anche un piccolo dettaglio, o a ruotare tra un parco mosse variegato, soluzioni in grado di scardinare le poche certezze accumulate una morte dopo l’altra, un tentativo, vano, inanellato tra piacevoli maledizioni, rivolte a quei folli di Studio MDHR insieme a massicce dosi di rispetto, per aver confezionato un simile concentrato di sadismo al quale è praticamente impossibile resistere.

Che Cuphead sarebbe stato più difficile del normale ce lo aspettavamo, ci mancherebbe. Del resto, pesca a piene mani dal passato non solo nell’estetica, strizzando l’occhiolino nemmeno troppo velatamente tanto al mondo dell’animazione quanto a quello videoludico, ma anche nel gameplay. Forsennato e basilare, prevede meccaniche dirette ed asciutte: due diversi attacchi (alternabili con un semplice tasto); una duplice mossa speciale legata ad una barra da riempire massacrando nemici, che un po’ come nei picchiaduro, offre un colpo base (guarda caso simile all’hadoken di un certo Ryu) e uno ancor più potente; salto, schivata, parry (per annullare proiettili e minacce contrassegnate dal colore rosa); e infine un power-up che può essere sia passivo che attivo, come un HP in più (oltre ai 3 base) in cambio di un attacco meno potente, un dash più efficace, o un parry automatico per salvarci la pellaccia nei momenti più concitati.

È possibile espandere e personalizzare il proprio arsenale grazie agli appositi negozi, sparsi per la mappa (liberamente esplorabile e condita da scorciatoie, NPC e segreti) e alle monete custodite nei livelli che rappresentano la seconda anima di Cuphead, quelli puramente platform e run’n’gun. Anch’essi brevi e rapidissimi, pur non prevedendo boss (al massimo qualche mid-boss decisamente più abbordabile), sono ugualmente un incubo, in quanto richiedono ancor più riflessi e precisione chirurgica, con le loro orde di nemici e minacce di ogni genere da schivare, sempre tenendo d’occhio la risicata salute (basta farsi toccare tre volte per tornare all’inizio, e niente checkpoint!).

Cuphead pesca a piene mani dal passato non solo per l’estetica, ma anche per il gameplay

Appunto: dicevamo, difficile, e il team ci aveva avvisati. Ma bastano due, tre secondi, complice la frenesia generale e la velocità con cui, sulla carta, andrebbero completati i livelli (due, tre minuti l’uno), per ritrovarsi bombardati da ogni lato, da letteralmente qualsiasi cosa: c’è chi ci riempirà di palle di cannone mentre un baule antropomorfo ci farà capire, col suo ghigno, che è pronto a piombarci addosso, il tutto durante il tentativo, da parte di un calamaro gigante, di oscurarci la vista con il suo inchiostro; un simpatico fiorellino dal volto diabolico ci sputerà margherite e semi killer, sincerandosi però di sottrarci i pochi punti vita a disposizione con edere appuntite; un clown malvagio ci spedirà contro cagnacci fluttuanti in uno scontro ambientato su rotaie di montagne russe, su cui sfreccia continuamente un carrello impazzito e assetato di sangue, pronto a travolgerci. La creatività del team sembra davvero non avere fine, e ad ogni nuova boss fight resterete semplicemente di sasso, sentendo solo di rado la sensazione di aver già visto qualcosa, o di aver schivato lo stesso attacco da due nemici diversi, e con una mole simile di scontri non è una cosa così semplice, né tanto meno scontata.

Ma lo stesso vale per il loro giustificato sadismo, che perde però ogni giustificazione quando entrano in gioco alcune scelte di design poco condivisibili, le quali rendono l’esperienza più complicata, giusto un pelo più del dovuto: ad esempio, non c’è un’indicazione precisa sulla quantità di vita rimasta al boss (se non una rappresentazione grafica della stessa, come se fosse un percorso, posta nella schermata del Game Over, che permette solamente di fare due calcoli (approssimativi), men che meno sul danno inferto con le due armi a disposizione, costringendo il giocatore a comprenderlo empiricamente, a suon di trial & error.

Per non parlare della legnosità del puntamento in diagonale, che richiede di bloccare la mira (e con essa, l’intero corpo del protagonista) tenendo premuto il dorsale destro, una soluzione, forse, un po’ troppo cervellotica in quel delirio. Un delirio che nelle sezioni run’n’gun, al netto di questi “piccoli” problemi” diventa in certe sezioni un vero incubo, soprattutto in co-op, al momento solamente offline (in futuro verrà implementata quella online) e, alla luce del nostro test, un difetto più che un pregio: la colpa è, principalmente, della velocità dell’azione, che richiede una coordinazione forse esagerata tra i due giocatori, ma sopratutto, della telecamera, che, nella necessità di mantenere entrambi i personaggi su schermo, finisce con l’oscurare proiettili e minacce off-screen, provocando più volte la morte e convertendo in frustrazione quella che, in un primo momento, appariva come difficoltà giusta e appagante. Lo scotto da pagare in cambio della possibilità di riportare in vita (con un parry sul fantasma) il proprio compagno, un’azione, prevedibilmente, per nulla semplice. Forse con la co-op online, che verrà introdotta in un secondo momento (come, si spera, la localizzazione in italiano, non ancora confermata), la situazione migliorerà, ma quella offline non ci ha convinto pienamente.

La creatività del team sembra davvero non avere fine, e ad ogni nuova boss fight resterete semplicemente di sasso

Fortuna che il retry è immediato, e solo 1-2 secondi vi separeranno dal nuovo tentativo, al contrario di quelli necessari per passare dalla mappa ai livelli (un passaggio inutilmente obbligatorio se si decide di cambiare l’equipaggiamento in corso d’opera), discretamente lunghi. Ma è una delle poche note stonate di un comparto tecnico altrimenti sublime: la visione artistica è, senza ombra di dubbio, una delle più ispirate e geniali mai viste in un videogioco, con la folle concretizzazione del sogno dei Moldenhauer di rendere giocabili quei cartoni tanto amati, mentre gli effetti sonori, tra voci, schiamazzi e buffi rumori causati dagli altrettanto buffi nemici formano una rumorosa orchestra che s’incastra nei pochi spazi concessi dalle forsennate partiture jazzistiche di Kris Maddigan.

In certi momenti, Cuphead richiama a gran voce la necessità di avere una sorta di Photo o Video Mode, quasi solo per godersi la colorata follia messa in scena su schermo senza toccare un tasto, ma purtroppo per visionare ogni fotogramma va giocato nella sua interezza, peraltro a modalità “Regular”: già, perché se il tasso di difficoltà appare insormontabile, c’è la possibilità di scendere a “Simple”, ma oltre a privarsi dell’ultima parte del gioco, vi basterà qualche sessione per comprendere che poi, di così “semplice” c’è davvero poco. Qualche trasformazione e qualche “distrazione” in meno accorcerà gli scontri (e le chance di sconfitta), ma boss fight e sezioni run’n’gun resteranno comunque delle gatte da pelare, e la longevità, sulla carta non proprio stellare, sarà direttamente proporzionale alle proprie skill.

Versione Nintendo Switch

Il primo frutto della “strana coppia” Microsoft e Nintendo è una vera gemma, da portare finalmente con sé per avere sempre a disposizione della sana dose di cattiveria e sofferenza. Cuphead, lo splendido platform/“run’n’gun” di StudioMDHR, è infatti disponibile anche su Nintendo Switch, in una versione 1:1 che, tolta un’enorme novità lungamente attesa (ma ora disponibile anche sulle vecchie versioni PC e Xbox One), è identica in tutto e per tutto all’originale.

A svettare è infatti l’ottima localizzazione italiana dei testi, sapientemente tradotti (in particolare per quanto riguarda i peculiari nomi di luoghi e personaggi) che arriva dopo più di un anno, ma anche e soprattutto la notizia che i Joy-Con sono assolutamente precisi e reattivi anche per un gioco arduo e proibitivo come Cuphead. Salti, spari, schivate, non abbiamo avuto alcun problema ad adattarci al sistema di controllo della console ibrida di Nintendo, che ben si presta anche a partite mordi e fuggi in co-op (anche se il singolo Joy-Con va inevitabilmente a sacrificare un po’ di più le mani). Al punto da riuscire a superare quasi al primo colpo un po’ tutti i livelli (complice il tempo, il sudore e le lacrime spesi su Xbox One, ovviamente).

E, ciliegina sulla torta, il sublime comparto grafico rende benissimo anche su Switch, soprattutto in versione portatile. Se lo avete saltato al primo giro, dovreste dargli una chance, anche solo per la possibilità di allenarvi a prendere i voti più alti praticamente ovunque. A patto di sapere bene a cosa andate incontro, s’intende.

Conclusioni

Ormai lo avrete intuito: Cuphead è bello e impossibile. Splendido da guardare, tanto difficile quanto appagante da giocare, non dà tregua, come ai vecchi tempi: è un sentito tributo al passato, sia nel gameplay, veloce e punitivo, che nello splendido comparto grafico, semplicemente unico nel panorama videoludico. Ma non offre seconde chance, né momenti per tirare il fiato, eppure, il bello di Cuphead è anche questo: si viene continuamente travolti da qualcosa. Dal folle design dei boss e delle loro forme, dalle intuizioni dietro ogni scontro, dai più infimi dettagli (uno su tutti: il “click” dell’arma del protagonista, che ricorda l’instancabile tacco di un paio di scarpe da tip tap).

È una cavalcata impetuosa verso il fallimento pressoché certo, eppure, per quanto dura, la sfida che propone non appare (quasi) mai ingiusta. Fondamentalmente, acquistarlo in maniera consapevole significa seguire le orme dei due protagonisti: scendere a patti col Diavolo, pagando duramente le conseguenze che questo comporta, ma diamine se ne vale la pena.