La follia è da sempre protagonista di opere di ogni genere, dai libri ai dipinti, anche e soprattutto di autori che, consapevolmente o meno, erano affetti da un qualche disturbo. Darkest Dungeon, il peculiare RPG/roguelike di Red Hook, pone al centro dell’esperienza proprio i disturbi psichici, un elemento raramente anche solo menzionato nel genere: siamo tutti bravi a massacrare orde di zombie, draghi, nemici di ogni genere e numero, ma una volta rinfoderata l’arma, cosa succede nella mente e nel cuore di un eroe? Bisogna pur fare i conti con un altro tipo di demoni, quelli interiori, per i quali non basta di certo un fendente o un prodigioso incantesimo.
Darkest Dungeon trasforma tutto ciò in una vera e propria meccanica, un vero incubo ludico che restituisce in maniera efficace (sin troppo) certe difficili e per nulla invidiabili condizioni mentali. A poco più di due anni dall’uscita originale (su PC), si affaccia, a sorpresa, su Nintendo Switch, la brillante ibrida della grande N, la quale ha finalmente rimosso l’embargo su quei giochi poco “family-friendly” di cui le sue ultime console, portatili e non, non erano poi così ricche.
E il baratro in cui ci getta Darkest Dungeon sin dalle prime battute ha davvero poco da spartire con le gioiose avventure di Mario, Kirby e compagnia nintendante.
Ci pensa addirittura un disclaimer all’avvio del gioco a suggerirci di prepararci psicologicamente a cosa ci aspetta: del resto, si tratta di un’esperienza cruda e debilitante, non tanto per chissà quali immagini forti. È un terrore subliminale, che si insinua sottopelle, che instilla pura paura ad ogni piè sospinto, letteralmente. A confermare simili timori è la lettera di nostro zio, un riccone annoiato che, stufo di vizi e bagordi, decide di dar pepe alle sue giornate con dei rituali esoterici. I suoi esperimenti hanno spalancato le porte dell’Inferno, e con i pochi residui di sanità mentale, ci chiede di tornare nella magione di famiglia per rimettere le cose in ordine: la redenzione della casata giace nel cuore dell’abisso, del “Darkest Dungeon”, e il nostro compito è quello di esplorarlo, e di sopravvivere nel mentre. La parte più difficile, indovinate, è proprio la seconda: è sin troppo facile morire, anche al livello di difficoltà più basso, perché oltre ai nemici canonici, da affrontare in estenuanti combattimenti a turni all’interno di dungeon generati proceduralmente suddivisi in varie zone/“biomi” nei pressi della magione, prima, e una volta raggiunto un certo grado di abilità e confidenza, nella magione stessa, c’è il nemico più grande di tutti, il Fato. Nel gioco di Red Hook Studios è quasi tutto affidato al caso, al lancio dei dadi in piena tradizione D&D, al punto, nella stragrande maggioranza dei casi, da vanificare quasi del tutto le decisioni del giocatore. Ogni settimana (in-game), alla fine di ogni missione, arriveranno nuovi avventurieri pronti a sfidare la sorte e ad unirsi al nostro party (per un massimo di 12 membri, mentre in missione se ne possono portare 4), ognuno di classi e abilità totalmente casuali; la potenza degli attacchi e la riuscita degli stessi è imprevedibile, rendendo incerto l’esito di ogni scontro, e chiaramente anche la struttura dei dungeon, la disposizione di trappole (disinnescabili anch’esse a caso), forzieri (contenenti tesori o altre trappole), ostacoli, e il contenuto (con stanze piene di segreti, mob comuni e veri e propri boss), cambierà di volta in volta.
Il nostro compito è quello di esplorare il “Darkest Dungeon” e di sopravvivere nel mentre
Proprio questa casualità rischia di essere il più grande selling point, e al contempo il più grande deterrente, in quanto un “lancio di dadi” sfavorevole brucerà ore e ore investite su un eroe. Morendo in battaglia, ognuno di loro finirà nel cimitero dell’hub centrale, luogo in cui sarà possibile assoldare nuovi eroi, potenziare e rafforzare abilità e armi nella gilda e nell’armeria con i soldi e le reliquie guadagnate alla fine di ogni missione, oppure curare le malattie e i tratti negativi (e dannosi) rimediati in battaglia, o ridurre lo stress accumulato con una bevuta nella taverna o un periodo di clausura in chiesa. E lo stress, che è il tema principale di tutto Darkest Dungeon, è il perfetto alleato del fato ostile: ogni attacco subito o evento sventurato aumenterà lo stress degli eroi, i quali, una volta riempita una barra situata al di sotto delle loro statistiche, reagirà positivamente, riuscendo rafforzato dal trauma e infondendo fiducia negli altri, o negativamente, instillando odio, disprezzo, paura nei compagni, riducendone ulteriormente il morale. Abilità e oggetti permetteranno di tenere a bada temporaneamente lo stress (ma fuori dai dungeon bisognerà tenerli fermi per un’intera missione e spendere del denaro faticosamente guadagnato), una volta però riempita una seconda volta la barra, c’è anche il serio rischio di perdere per cause naturali un eroe, il cui cuore non reggerà tutta quella negatività e morirà di infarto anche senza il bisogno di ricevere un attacco letale in punto di morte. Le condizioni di stress, che saranno le più disparate, creeranno anche problemi in battaglia: un codardo si rifiuterà di attaccare, un egocentrico non curerà gli altri, un paranoico cambierà la sua posizione nel party complicandoci non poco la vita, in quanto la disposizione dei nostri eroi, quanto quella dei nemici, influenza il tipo di abilità utilizzabili, ma anche il range degli attacchi (non a caso, quando un nemico muore, lascia in terra i suoi resti, richiedendo un ulteriore sforzo per sbarazzarsene e rendere così vulnerabili gli altri).
Va da sé che ogni duello, complice la riuscitissima atmosfera, claustrofobica e cupa al punto giusto grazie al curato stile grafico e alla ottima varietà di nemici dal design e dalle abilità lovecraftiane e orrorifiche, diventa una roulette russa potenzialmente devastante, lo ribadiamo, anche ai livelli di difficoltà più bassi, e dover battere in ritirata ad una stanza di distanza dal completamento della missione (il quale farà aumentare la difficoltà delle missioni future nelle varie zone disponibili) può risultare dannatamente frustrante. Ma per i giocatori più sadici e abituati ad esperienze simili, il tasso di morte alle stelle, il fattore casualità, la rigiocabilità potenzialmente infinita, le decisioni delicatissime ma ribaltate completamente da qualche entità superiore, potrebbero invece generare una sorta di dipendenza, accentuata dalla versione Switch. Le singole missioni non sono propriamente brevi, ma la possibilità di salvare in qualsiasi momento, unita alla portabilità della console, non fa altro che incentivare sessioni mordi e fuggi, oltre ad esplorazioni lampo per racimolare quel cimelio mancante per potenziare la gilda o quelle 300-400 monete per apprendere una nuova abilità del cavaliere che sta incredibilmente resistendo più del previsto e su cui conviene investire risorse… sperando non muoia malissimo alla prossima occasione. L’unico problema del piccolo schermo di Switch sta nella grande mole di informazioni presenti su schermo, esageratamente rimpicciolite per riuscire ad entrarci tutte, al punto da rendere non così efficaci i comandi touch (comunque utilizzabili in alternativa a quelli classici). E fatevi un favore: se proprio avete intenzione di gettarvi in questa folle impresa, fate il possibile per giocarvela in lingua originale, in quanto la localizzazione, per quanto utile a raccapezzarsi con gran parte delle complesse meccaniche, regala degli orrori ben peggiori di quelli lovercraftiani incontrati nei dungeon (quel “Build” presente nel menu principale tradotto con “Costruisci” è una vera pugnalata al cuore, ndr).
Darkest Dungeon è tanto affascinante quanto frustrante, spietato, per nulla accondiscendente. Attira il giocatore con la sua atmosfera suggestiva, con la sua struttura degna del più sadico dei giochi d’azzardo, e lo getta in un baratro fatto di disperazione e pentimento, abitato da un Fato malevolo che, con la sua lunga e diabolica mano, stravolge ogni decisione e azione, e smonta le poche certezze che con l’esperienza e le ossa rotte il giocatore si costruisce ora dopo ora, missione dopo missione. Non è un’esperienza adatta a tutti, e di facile, scontato e prevedibile in questo gioco c’è solo la sconfitta, la ritirata, la rimozione del file dalla console. Se leggendo queste righe il vostro cuore ha iniziato a palpitare dalla gioia, forse, e ribadiamo, forse, potrebbe fare al caso vostro. Altrimenti stategli lontani come se fosse peste o tetano. |