Daylight, sin dal suo esordio, aveva tutte le carte in regola per rappresentare l’horror che non ti aspetti. Buio pesto, corridoi angusti, rumori inquietanti e la luce fioca di un cellulare ad illuminare un’oscurità costante: non si tratta certo della ricetta più originale del creato ma, considerando che il genere horror è stato spolpato in ogni salsa – specie nell’ultimo periodo, le premesse sicuramente non mancavano. E poco importava la parentela nemmeno troppo stretta col recente capostipite del genere degli escape/horror games, quell’Amnesia (il Dark Descent ovviamente, capace ancora oggi di oscurare il mediocre A Machine for Pig) che tanti salti ha provocato agli amanti del terrore, e nemmeno le reminiscenze di Slenderiana memoria manifestate nelle sezioni finali del gioco. Daylight è un horror procedurale: un mostro che, partita dopo partita, muta le proprie forme per sobillare costantemente l’ansia più profonda nel giocatore. Una creatura infida e mutevole, desiderosa di offrire un paio d’ore non adatte ai deboli di cuore e un replay value che da sempre incarna la nota dolente degli horror. Peccato che tutte le ciambelle non riescano col buco, e Daylight finisce per fallire in ambo gli obiettivi.
Ma partiamo dall’aspetto cruciale del gioco, il level design procedurale. Pensate ad una cosa terrificante come fare la spesa con la propria ragazza in un enorme supermercato (un supermarket mastodontico e una donna in vena di shopping… dovrei brevettare l’idea), il cui “atrio” è l’unica cosa a rimanere uguale ad ogni vostra visita mentre corridoi, banchi frigo, bancali e quant’altro cambiano costantemente la propria posizione. Aggiungeteci delle cassiere lentissime, dei commessi antipatici che continuano a buttare oggetti sul carrello che VOI state spingendo et voilà, benvenuti nell’universo del procedurale. Metafore a parte, l’approccio degli sviluppatori di Daylight non si discosta poi molto da quello appena presentato: ciascuna delle 4 sezioni di cui si compone la campagna viene generata e aggregata secondo degli algoritmi pseudo-casuali, il cui obiettivo (almeno in fase progettuale) è quello di garantire una diversificazione evidente dell’esperienza ludica partita dopo partita. Il risultato non è propriamente il migliore auspicabile, ma abbiate pazienza che di questo parleremo a breve.
Protagonista di Daylight è Sarah, una giovane dal passato misterioso e dal futuro incerto risvegliatasi senza alcuna apparente ragione nell’atrio di un vecchio ospedale in disuso. Ospedale che, manco a farlo apposta, pullula di presenze paranormali e fantasmi dispettosi particolarmente poco inclini a farla procedere. Avvolta quasi totalmente dall’oscurità, la giovane è dunque costretta a muoversi attraverso strutture labirintiche sfruttando un dispositivo cellulare (che offre contemporaneamente una pallida luce e una mappa che si aggiorna dinamicamente al nostro progredire nel livello) e affidandosi alla voce ancor più misteriosa di un uomo che sembra sapere parecchie cose sul di lei passato. Sarà inoltre possibile reperire qua e là barre luminose fosforescenti, utili per allargare il campo visivo ed evidenziare le Reminiscenze, e preziosi bengala. Questi ultimi rappresentano di fatto la sola “arma” a disposizione contro gli spettri che ci perseguiteranno durante questa gita: posto che non sarà possibile portarne con sé più di quattro, doveste mai trovarvi in ristrettezze di questi l’unica soluzione sarà darsela a gambe. Ma vuoi perchè gli sviluppatori non hanno lesinato in accessori, vuoi perchè i mostriciattoli si odono tanto ma si vedono poco, la gestione dei bengala non rappresenterà certo il vostro problema focale.
Ma veniamo al nocciolo, come funziona Daylight. Ciascun livello, da un punto di vista concettuale, è estremamente semplice: trova una chiave, trova la porta chiusa a chiave, passa al livello successivo. Dove siano collocati chiave e porta è deciso dal caso (non avremmo ripetuto “procedurale” mille volte, altrimenti), e toccherà al giocatore muoversi insicuro all’interno dell’ospedale, della prigione, delle fogne e della foresta conclusiva cercando di non attirare a sé le spiritiche attenzioni. Nella fattispecie, le porte incriminate sono bloccate da un incantesimo (visibile sulla stessa come una sorta di pentacolo verdognolo) e richiedono uno specifico oggetto mistico affinché esso venga distrutto. Simbologia (e stregoneria) a parte, chiariamo sin da subito la totale assenza di enigmi o sottili sfide cerebrali: in Daylight si cammina, si corre e si brucia qualche spirito col bengala, ma non si pensa un solo istante. Entrare in possesso della “chiave magica” è un semplice mix di fortuna ed esplorazione: fortuna, perchè (specie nell’ospedale) il rischio di camminare in tondo o a vuoto, nonostante l’aiuto della minimappa, è elevato. Esplorazione, perchè tale chiave sarà resa disponibile in una apposita stanza mistica (riconoscibile dai medesimi pentagrammi e simbolismi affini) soltanto dopo aver recuperato sei specifiche Reminiscenze. Daylight offre due tipologie di Reminiscenze (che, per capirci, altro non sono che documenti nascosti qua e là che narrano retroscena interessanti legati allo spettrale teatro del titolo Zombie Studios): quelle dal marchio blu, ininfluenti ai fini del gameplay ma, chiaramente, utili in ottica trofei/collezionabili, e quelle Rosse, sei per ciascun livello, da raccogliere necessariamente affinché compaia l’artefatto e sia sbloccabile il sigillo.
Tutto qui? La risposta, purtroppo, è affermativa. Un’atmosfera ben calibrata e suggestiva non basta a sdoganare un horror che difficilmente, se non nelle prime battute di gioco, si prende sul serio come dovrebbe. Certo, il proverbiale salto sulla sedia non manca (e l’assenza di sequenze scriptate a favore di un approccio – indovinate un po’ – procedurale impedisce di prevedere quando e dove lo spirito di turno si paleserà), ma la presenza centellinata quasi col contagocce della controparte oscura trasforma un potenziale excursus nel baratro della follia e dei ricordi in una gita povera di mordente. Superati i primi scossoni dovuti ad un comparto audio ineccepibile, questo dobbiamo riconoscerlo, è possibile raggiungere tranquillamente i credits senza nemmeno cadere al suolo una sola volta. Il che non vi ruberà nemmeno troppo tempo, visto che la durata del playtrough di Daylight varia dalle due alle tre ore a seconda del vostro grado di perfezionismo.
Così come le meccaniche di gioco, anche l’impianto tecnologico vacilla sensibilmente. L’esordio del prodigioso Unreal Engine 4 su PS4 è meno prodigioso di quanto si potesse pensare (discorso a parte per la versione PC di Daylight, non certo miracolosa ma nettamente superiore del codice review da noi testato). Buona la volumetria degli edifici, interessanti gli effetti particellari (seppur non così frequenti) e, nel complesso, buono anche il sistema di illuminazione “a cellulare”. Se l’effetto bengala rischia di risaltare un po’ troppo dalle tinte schiettamente cupe che contraddistinguono il titolo, l’effetto legato ai tubi fosforescenti appare un po’ troppo artificioso e meno “realistico”. Rallentamenti a parte, specie nel caricamento da uno scenario all’altro, l’impressione che se ne ricava non è tanto quella dell’essere di fronte ad un pioniere della nuova generazione della grafica, quanto piuttosto ad un esponente nemmeno troppo evoluto del mai troppo lodato Unreal Engine 3. Un fattore questo che, per un titolo contestualizzato in uno scenario indipendente, non farebbe nemmeno torcere così tanto il naso. Ma viste le premesse del titolo Zombie Studios, non certo insensibile al fascino delle luci del palcoscenico, qualcosina in più sotto questo aspetto avrebbe sicuramente giovato. Fortunatamente l’audio non tradisce e tra crepitii, porte che sbattono, urla e altri cliché del terrore – usati comunque con astuzia – non mancherà certo qualche momento di tachicardia.
COMMENTO FINALE
L’esperimento horror di Zombie Studios, tra forbici maledette, sedie a rotelle cigolanti, sigilli magici e altre piccole diavolerie che gli amanti dell’occulto noteranno sin da subito, difficilmente troverà uno scranno nell’Olimpo della paura. La parentela con Amnesia e il ricorso alle atmosfere tanto care ai Frictional Games, l’omaggio alla cultura pop-videoludica del post Slender e, non ultimo, l’encomiabile esperimento di rendere quanto più “casuale” possibile l’esperienza del giocatore e la penna della bellissima Jessica Chobot non bastano a trasformare Daylight in una milestone del genere, confinandolo invece ad un limbo di mediocrità da cui difficilmente sarà possibile uscire, anche con eventuali sequel. La reiteratività di un gameplay sin troppo semplificato, testimoniata da un riutilizzo sin troppo evidente di asset nella creazione delle location, e una narrazione dagli spunti tanto abusati quanto interessanti incapace però di decollare come si deve rappresentano un virus che infetta mortalmente un titolo che pur riuscendo di tanto in tanto a gelare il sangue nelle vene non terrorizza mai abbastanza, non destabilizza la razionalità e la freddezza di chi gioca ma al contrario finisce per porsi al suo livello, limitando sensibilmente i possibili “infarti da player”. Daylight scivola via senza momenti memorabili, lasciando nel giocatore tanto più vuoto quanto più veloce è la corsa di Sarah verso la presunta salvezza. E alla fioca luce di una longevità già risicata, se all’horror proprio non sapete rinunciare fareste bene a muovervi con molta, molta calma: anche perchè quello che si nasconde dietro le vostre spalle, alla fine della fiera, è meno terrificante di quello che sembra.
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