Dead Cells – Recensione

Se c’è un genere che sembra pronto a vivere una seconda giovinezza, è quello degli action/platform di stampo metroidvania, e gemme come Hollow Knight e Dead Cells dei francesi Motion Twin, arrivato su PC, PS4, Xbox One e Switch dopo un anno di Early Access, ne sono tra i più giovani e validi portabandiera di questa “rinascita”. Non che il genere fosse del tutto morto, ma mai come negli ultimi mesi mi è capitato di giocare così tanti ottimi titoli e con una frequenza così elevata, al punto da sentirmi un po’ saturo, se devo essere sincero.

Ma con Dead Cells, no, mi è stato pressoché impossibile, complice il brillante concept alla sua base: la forte componente roguelite e la generazione quasi completamente randomica dei livelli, del resto, come fa a stufare? Immaginate di ritrovarvi davanti un gioco quasi differente ad ogni morte, ma non solo nel level design: cambia anche, e drasticamente, la build, o meglio, l’approccio che il protagonista – e il giocatore con lui – dovrà adottare per sopravvivere sulla terribile isola in cui è imprigionato, apparentemente in eterno. Dovrà scalare l’imponente castello che svetta al di sopra di prigioni, cimiteri e fogne, il cui volto, come detto, cambia ad ogni restart, voluto o forzato dall’ennesima morte.

E un volto, almeno loro, ce l’hanno.

Già, perché il protagonista senza nome non ha nemmeno quello: sparsi per i livelli troverà qualche dettaglio sulla maledizione che affligge lui e altri prigionieri, sugli strani esperimenti che l’alchimista del re sta portando avanti a danno di poveri, inermi, innocenti (?) individui, ma nulla più. Similmente a tanti esponenti del genere e non solo, Dead Cells non vuole raccontare una storia. O meglio, non appena ci metterete su mano e prenderete confidenza con le sue meccaniche, le sue idee, la sua natura, lo stesso concetto di “run” diventerà obsoleto, e con esso qualsiasi altro orpello inutile ai fini della vera progressione, quella che trascende la trama in senso classico e l’esperienza a base di punti di esperienza.

Al punto da dirvi da subito che per “finirlo” potreste impiegarci tranquillamente meno di un’ora, persino meno di mezz’ora, anche al vostro primo contatto con il gioco o giù di lì, se siete particolarmente in gamba, o fortunati: il suo combat system, veloce, frenetico, preciso al millimetro, richiede riflessi di gatto e intuito, con i soli attacchi e non il semplice contatto con i nemici ad arrecarvi danno, e la possibilità di evitarli tutti con una schivata eseguita al momento giusto; il drop casuale di armi rarissime e potentissime è invece frutto della proverbiale botta di culo, e io stesso ho quasi raggiunto le ultime battute di Dead Cells dopo sole due o tre morti, merito di una spada devastante in grado di eliminare, one shot only, chiunque mi trovassi contro.

È bastata una distrazione e niente da fare, prima di riavvicinarmi anche solo al sesto ed ultimo livello (in realtà i biomi, tra porti, fogne e mura di castelli, sono più di 10, ma in base alle rune – e relative abilità esplorative speciali – e al percorso intrapreso ne vedrete solo un certo tipo ad ogni run), di acqua, ore – ben più di dieci – e run ne sono passate davvero tante sotto i ponti.

Ci vuole meno di un’ora a completare Dead Cells, ma la fine è solo l’inizio

Il motivo è presto detto: ad ogni morte, come detto, si riparte da zero. Si perdono le armi conquistate, non importa quanto potenti o dotate di chissà quale buff pazzesco, idem per il denaro, e non c’è alcun livello di esperienza da scalare; si perde, inoltre, la “forma” stessa del gioco, che la cambia insieme al suo volto, dalla disposizione dei nemici a quella dei forzieri e degli upgrade di salute e potenza (con cui rafforzare – provvisoriamente – le 3 categorie entro cui rientrano le tipologie di armi, scudi e poteri, come granate, torrette, trappole).

A cristallizzarsi in questo diabolico scherzo del destino sono solamente le “cells” del titolo, le cellule lasciate dietro dai nemici o scovate in giro per i livelli, o almeno quelle depositate nei punti di raccordo, fissi e immutabili, tra un livello mutaforma e l’altro, in cui potrete ripristinare la vostra salute, potenziare e riforgiare i buff delle armi equipaggiate, e consegnare le cellule all’enigmatica figura del Collezionista per sbloccare in maniera definitiva speciali perks – come la facoltà di mantenere parte del denaro raccolto nella run precedente, o di ripartire con un’arma casuale tra quelle sbloccate fino a quel momento, e non con quelle, disponibili di default ad ogni restart, estremamente deboli e inutili –, oppure oggetti, come armi, poteri e mutazioni – legate ad esempio alla velocità del cooldown delle abilità o alla possibilità di recuperare punti salute dopo ogni kill.

Sono permanenti anche le rune, con cui scalare i muri, distruggere particolari sezioni del terreno che garantiscono l’accesso a nuove aree, fondamentali per esplorare al 100% il mondo di Dead Cells, ma non strettamente necessarie per concluderlo. Inutile dire però che fino a che non avrete sbloccato ognuno dei tantissimi oggetti, poteri e mutazioni presenti (avrete un’idea di quanto vi manca alzando semplicemente lo sguardo nella porzione iniziale del gioco), difficilmente vi sentirete realmente soddisfatti, ed è questo uno dei principali motivi che mi ha spinto a non staccare le mani dal gioco per neanche un momento, nonostante le tante, tantissime, troppe morti: il senso di progressione, così lento, metodico, faticoso, grazie alla velocità dei combattimenti, dell’azione, di tutto il processo di morte e ritorno, ma anche alla costante sensazione di aver appreso e sbloccato qualcosa dopo ogni morte, è dannatamente appagante.

Il senso di progressione di Dead Cells, per quanto potenzialmente lento e faticoso, è dannatamente appagante

La frustrazione non mancherà, perché la generazione procedurale renderà imprevedibile ogni dannata area, e per quanto possiate studiare i pattern di attacco dei nemici più coriacei – anche se sin da subito vi renderete conto del fatto che ogni singolo mob sa benissimo come polverizzarvi –, sarà davvero semplice ritrovarsi in una nuova sezione particolarmente affollata, o finire dritti in qualche trappola mai vista prima. Anche l’estrema casualità legata all’equipaggiamento, tra armi disponibili dall’inizio e quelle presenti nei negozi – anch’esse totalmente casuali – potrebbe complicarvi la vita: abituati ad adottare una certa strategia, sarà sufficiente non trovare una determinata arma o potere per ritrovarvi spaesati e morire malamente.

Ogni arma, del resto, ha un suo peso, una sua velocità, un feeling unico (come è giusto che sia), e ritrovarsi con in mano un lento martello o una spada larga dopo aver passato ore impugnando solamente veloci pugnali può rivelarsi fatale. La vera esperienza, insomma, quella frutto di fatica, sudore e lacrime, diventa la vera arma, ancor più di quelle sbloccate.

Ad ogni morte bisogna reinventarsi, un po’ come nella vita, perché le armi cambiano, le strutture dei livelli idem, e per quanto alcune soluzioni si ripetono, come quella, ottima, dei teletrasporti, sfruttati brillantemente per evitare il sempre odioso – quando immotivato – backtracking, la loro disposizione verrà stravolta, togliendovi ogni possibile e confortante punto di riferimento. Solo il vostro bagaglio di batoste – ci risiamo, un po’ come nella vita – vi salverà la pelle, e solo l’aver compreso come sconfiggere un particolare nemico o un boss, indipendentemente da cosa impugnate – perché ora ce lo avete, la prossima volta non è detto – vi permetterà di avanzare, nella singola run e nel complesso, in Dead Cells.

E una volta che questo diabolico meccanismo vi entrerà sottopelle, non potrete farne più a meno. Soprattutto se giocherete Dead Cells su Switch: la sua natura mordi e fuggi ben si presta alla console di Nintendo, dove gira egregiamente sia docked che in modalità portatile, e niente e nessuno vi vieterà di dedicarvi a qualche run estemporanea, per farmare cellule o per sperare di trovare qualche arma potentissima, anche quando avete uno o due minuti di attesa da riempire (tanta era la dipendenza e poca la pazienza, al punto da passare i caricamenti e le sezioni di guida automatica di Far Cry 5 – che ho recuperato nelle scorse settimane – proprio in quel modo).

Anche artisticamente il gioco è curatissimo, con una grafica retro colorata e convincente, design dei nemici e dei boss sempre azzeccato (anche se in alcuni casi i nemici stessi vengono riciclati in più livelli, stancando un po’ a lungo andare), idem quello dei singoli biomi, ognuno con una personalità e un’atmosfera ben definita, tra le fogne con le sue pozze di veleno da evitare accuratamente, la spettrale Promenade dei condannati o lo sfarzoso castello. Stesso discorso per le musiche, molto piacevoli.

Conclusioni

Con Dead Cells, Motion Twin aggira brillantemente i tipici problemi della generazione randomica, sfornando una piccola gemma dal gameplay irresistibile e sempre fresco, merito della randomicità di equipaggiamento e di design stesso dei singoli livelli – fattori che spronano il giocatore ad adattarsi dopo ogni morte – in cui è diviso il mondo di gioco, e di soluzioni che invogliano a non mollare la presa anche dopo l’ennesimo restart. Il senso di progressione, per quanto lento e faticoso, è appagante, e in generale ho sempre percepito ogni sconfitta come un mio errore, mai un’ingiustizia.

È un gioco difficile, criptico, che richiede metodo e anche un bel po’ di fortuna, ma che proprio per questo merita i soldi e il tempo di chi è stufo della solita pappa pronta o della mano tesa dello sviluppatore, pronto ad accompagnarci alla minima difficoltà. Ed è così ricco di segreti ed oggetti da sbloccare, e la generazione randomica è talmente ben congegnata, da poter essere potenzialmente illimitato, o comunque in grado di continuare a regalarvi belle sensazioni anche dopo averlo concluso centinaia di volte.

Già in occasione della mia prova del gioco alla GDC vi avevo suggerito di tenerlo d’occhio, e sono davvero felice di poter confermare quanto scritto in quell’occasione: “uno dei titoli indie più interessanti del 2018“.

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