Death Stranding
14 Nov 2019

Death Stranding – Recensione

Piove. Un giorno come tanti in quel che è rimasto dell’America. L’ennesimo carico preziosissimo (e pesantissimo) sulle spalle, l’orizzonte davanti e un esercito di vivi e morti da evitare per arrivare a destinazione. Con estrema calma, fra fango e rocce, vivendo ogni istante come se fossi lì, senza pensare ad altro. No, non è una pubblicità di un noto amaro, ma un estratto di una giornata tipo in Death Stranding, l’ultimo lavoro di Hideo Kojima e della sua rinnovata Kojima Productions. Dopo il divorzio da Konami, il game designer nipponico ha abbandonato la saga di Metal Gear Solid per creare qualcosa di completamente nuovo e diverso: tante erano le paure e le speranze dei videogiocatori di tutto il mondo, i quali (trailer dopo trailer) continuavano a interrogarsi sul vero significato dell’opera di Kojima-san, non riuscendo a inquadrarla in un genere predefinito.

Questo perché il buon Kojima, godendo di totale libertà artistica, ha realizzato qualcosa di praticamente impossibile da incasellare in uno schema convenzionale. Death Stranding è intriso di una visione così profonda e sofisticata che raramente traspare in un prodotto del genere. A tutti gli effetti, il titolo di Kojima è una di quelle creazioni che porta (nuovamente) a chiedersi se siamo pronti per associare la parola arte al mondo videoludico.

Effettivamente anche il marketing di Death Stranding ci ha lasciato tutti con un grosso punto interrogativo in testa, come le guardie di Metal Gear. Ed è stato assolutamente meglio così: avvicinarsi a questa opera con sguardo vergine è, a detta di chi vi scrive, il miglior approccio possibile. Probabilmente non dovreste nemmeno leggere questa recensione, ma fiondarvi immediatamente nella fosca distopia immaginata da Kojima Productions.

Death Stranding
L’iconica Treruote sarà una fedele compagna di viaggio.

Siete ancora qui? Bene. Possiamo iniziare: Death Stranding è il nome di un evento che ha scosso il nostro mondo, fondendolo con quello dei deceduti. Il risultato è peggiore di quanto possiate immaginare: i morti camminano sulla terra, ma non sotto forma di zombie, come Resident Evil ci ha abituato. No, queste creature arenate (chiamate CA in gioco) nel nostro mondo sono incorporee e quasi invisibili, ma sanno uccidere con effetti devastanti: se una CA prende un umano, si genererà un’esplosione enorme che lascerà un immenso cratere. Quando si è verificato il Death Stranding, le infrastrutture del mondo sono crollate, le nazioni sono cadute, e tutto ciò che rendeva unita l’umanità si è perso. I pochi sopravvissuti sono costretti a bruciare immediatamente i loro morti prima che la necrosi li trasformi in CA, e si affidano a coraggiosi individui chiamati Corrieri per trasportare viveri, medicine, merci e tutto ciò che serve per sopravvivere. Questi lupi solitari del settore trasporti non fanno altro che armarsi di coraggio e determinazione per partire verso le loro destinazioni, anche a piedi se necessario, sfidando sia le CA che la terribile cronopioggia.

Kojima ha realizzato qualcosa di praticamente impossibile da incasellare in uno schema convenzionale

Come se un mondo invaso da morti dal potenziale esplosivo non bastasse, c’è anche la pioggia con cui fare i conti. Letale, pericolosissima, la cronopioggia invecchia tutto ciò che tocca: vegetazione, oggetti inanimati e carne. Esporsi alla cronopioggia significa gettarsi verso morte certa. E questo la dice lunga sulla colossale forza di volontà dei corrieri, pronti a sfidare la morte praticamente ogni minuto della loro vita. Fra le fila di questi fattorini del post apocalittico c’è una vera e propria leggenda: Sam Strand, conosciuto come Sam Porter Bridges, il corriere che si mormora sia il più affidabile che abbia mai calcato la superficie terraquea.

Death Stranding
Questi tizi si chiamano MULI e faranno di tutto per rubarvi il carico.

E sì, gentile pubblico. Death Stranding è proprio questo: la storia di un uomo che doveva portare pacchi da un punto A a un punto B quando consegnare scatole è diventato il mestiere più pericoloso del mondo. Oltretutto Sam verrà coinvolto in un’operazione idealistica più grande di lui dal presidente delle Città Unite d’America in persona, e proprio a causa di questo il nostro Porter si ritroverà a dover riconnettere fra loro le comunità frammentate di tutta la nazione, cercando adempiere a un destino che appare impossibile da raggiungere. Death Stranding sembra seguire la struttura narrativa del viaggio dell’eroe ma, esattamente come accade per il mondo di gioco, la frammenta e la divide, lasciando al giocatore l’arduo compito di seguire il suo cammino e ricostruire questo incredibile viaggio. E fidatevi, di arduo compito si tratta: giocare a Death Stranding è come accettare una vocazione, seguire un ideale, imboccare una strada tortuosa carica di dolore e sacrificio.

Consegnare scatole è diventato il mestiere più pericoloso del mondo

La fatica di Sam vi contagerà come un’infezione, facendovi “sentire” quasi per davvero gli sforzi del nostro protagonista, il quale dovrà muoversi attraverso fango, rocce, rovine, fiumi e cascate. Il tutto senza dimenticare le terribili creature che si nascondono all’interno della cronopioggia. Quello che instaurerete con Sam è un legame che parte dalla console e arriva fino alle viscere, un po’ come il cordone ombelicale di BB, il Bridge Baby che il nostro protagonista si porta dietro. L’opera di Kojima riesce a fare una cosa incredibile: tenervi incollati allo schermo, fatica dopo fatica, supplizio dopo supplizio, mentre  avanzate lentamente per vedere la storia schiudersi come petali di un fiore durante la primavera.

Death Stranding
Fragile è uno dei personaggi più interessanti e complessi di Death Stranding.

I personaggi sono così ben caratterizzati che è impossibile non provare empatia con loro. Le espressioni del viso e il linguaggio del corpo contribuiscono a rendere reale l’irreale, complice anche l’uso che lo studio ha fatto del Decima Engine, motore di gioco utilizzato da Guerrilla (e “prestato” a Kojima) in Horizon: Zero Dawn e qui portato al suo massimo splendore. Anche il mondo di Death Stranding è ipnotico, sofferente e nondimeno bellissimo. Sono rimasto stupito dall’assenza di pop-up visivi, nonostante la linea dell’orizzonte sia così vasta da sembrare sconfinata. È incredibile pensare che la gestazione di un titolo del genere sia stata solo di tre anni, eppure Kojima Productions è riuscita non solo a dare consistenza a un mondo di gioco evocativo e (stranamente) credibile, ma lo ha anche popolato di lore rendendolo profondo e sfaccettato.

Death Stranding porta a chiedersi se siamo pronti per associare la parola “arte” al mondo videoludico

Certo, la mole di cose da sapere non è sempre spiegata al giocatore ma si “nasconde” nelle innumerevoli mail che Sam riceverà e nei dati immagazzinati nel sistema. Proprio per questo motivo inizialmente il mondo di Death Stranding può apparire confusionario e incomprensibile, rendendo il primo approccio con il titolo decisamente ostico al giocatore, il quale avrà tanti interrogativi e pochissime risposte. Cos’è BB? A che serve il Q-Pid? Come si usa l’Odradek? Fortunatamente dopo poche ore il gioco vi si incollerà addosso e sarà davvero difficile staccarsene. Ne è riprova il gameplay, all’apparenza ripetitivo, che è stranamente ipnotico e tende a creare dipendenza nel giocatore grazie a un sistema che lo premia costantemente a ogni sua consegna o traguardo, per quanto piccolo e all’apparenza insignificante.

Sostanzialmente quello che avete visto nei trailer corrisponde alla realtà; Sam deve costantemente portare carichi diversi da una stazione Bridges a una città o un avamposto. Per farlo potrà avvalersi solo delle sue gambe (almeno all’inizio, i veicoli e gli esoscheletri verranno sbloccati con il proseguire della trama) e della sua determinazione. Ma è nella gestione dell’inventario e dell’intinerario che il titolo di Kojima mostra le sue carte vincenti: Death Stranding è un tripudio di menù, mappe e categorie da gestire, catalogare e sistemare. Ogni spedizione porta tante domande alle quali il giocatore dovrà rispondere: cosa portarsi? Dove metterlo? Cosa costruire? Quanto tempo penso di impiegarci? Questo perché ad ogni incarico verrà sì consegnato al nostro eroe qualcosa da trasportare, ma oltre a quello Sam dovrà caricarsi sulle spalle il suo intero inventario. Se non avete capito bene di cosa sto parlando, provate a pensare a Metal Gear Solid e immaginate a cosa sarebbe successo se Snake non avesse avuto il suo comodo inventario a scomparsa, dovendo invece caricarsi tutto addosso, oggetto per oggetto, arma dopo arma. Il risultato sarebbe una sorta di facchino pieno di scatole contenenti granate, fucili, corde, viveri e via dicendo. Ed è proprio così che appare il nostro Sam.

Il gameplay, all’apparenza ripetitivo, è stranamente ipnotico e tende a creare dipendenza

Hideo Kojima ha giocato sapientemente con il concetto di gamification e ha convertito tutte le possibili azioni del giocatore in spunti per ravvivare il gameplay: posizionare scale, creare cassette postali e persino costruire ponti, rifugi e strade. Per capirci, anche far andare Sam al bagno per una doccia o per i suoi bisogni produrrà armi da utilizzare contro le CA. Tutto in Death Stranding contribuisce ad arricchire l’esperienza di gioco, e nonostante le azioni di base siano sempre le stesse (movimento da punto A a punto B) il viaggio è quasi sempre diverso e ricco di sorprese. Sicuramente il gameplay non è per tutti, perché chi predilige l’azione (o anche solo un approccio più standard al videogioco) si troverà spiazzato dai ritmi lenti (davvero lenti) di Death Stranding, che rompe la classica concezione di videogame per prendersi i suoi tempi e cercare di comunicare qualcosa di diverso da quanto siamo abituati a vedere. Forse un’opera del genere non sarebbe mai stata permessa (o concessa) a nessun altro che non fosse Hideo Kojima, ma purtroppo o per fortuna Sony Interactive Entertainment ha lasciato carta bianca a quello che, volente o nolente, è uno dei game designer più influenti dei tempi moderni.

Death Stranding

Per quanto riguarda gli avversari, scordatevi battaglie adrenaliniche o scontri a fuoco al cardiopalma: in Death Stranding vi costringeranno spesso a stare chinati e immobili, obbligandovi a tenere un basso profilo per evitare di danneggiare o perdere la merce. Con le CA invece non c’è affatto da scherzare, ed è solo grazie al Bridge Baby che sarà possibile vedere ed evitare i morti sulla Terra; il piccolo feto rappresenta infatti il ponte fra il mondo dei vivi e quelli dei defunti. Connettendo Sam al BB potremo vedere le “ombre” delle creature arenate e reagire di conseguenza (allontanarci è sempre l’approccio migliore); in caso di fallimento, Sam verrà letteralmente trascinato dai morti per decine di metri, dove partirà una specie di mini boss fight con una creatura gigantesca e orribile. Insomma, ancora una volta il fulcro dell’esperienza è legato al movimento, più che all’azione. L’opera di Kojima vuole vederci ragionare, gestire, riflettere. Vuole farci perdere tanto tempo con Sam fermo a schermo. E oltre a riuscirci, lo fa senza annoiare.

Un’opera controversa e profonda, destinata a far discutere di sé per molto tempo

E poi arriva lui, lo Strand System: un multigiocatore asincrono che permette ad altri giocatori di interagire con la vostra esperienza, costruendo strutture e donandovi equipaggiamento. C’è un episodio, legato allo Strand System, che mi ha fatto sorridere: ho iniziato a costruire una strada al centro logistico a sud di South Knot City. Una ventina di metri di bitume e selciato post apocalittico creato per me dalla stampante chirale: per realizzarla ho dovuto usare moltissimi materiali, il che mi ha scoraggiato non poco. Come faccio a fare una strada lunga fino alla prossima città se per fare venti metri ci ho impiegato così tanto? Depresso, ho ripreso a vagare sulla mia Treruote. Qualche giorno dopo però è accaduto il miracolo: altri giocatori hanno ripreso la mia strada e costruito altri tratti, ognuno contribuendo con le sue risorse. Finalmente la struttura era quasi completa, offrendo così a tutti un modo più sicuro per muoversi. Da allora, preso dalla smania di condivisione, ho continuato a reperire materiali per espandere la mia strada, manco fossi un dipendente ANAS. Questo per dirvi quanto Death Stranding riesca a portare il suo messaggio di condivisione, di collegamento e collaborazione. Anche se i giocatori non si vedono attivamente sulla mappa, la loro presenza è sentita, un po’ come le inquietanti CA.

Graficamente, il titolo di Kojima Productions è impressionante: oltre ai personaggi, immaginati da quel genio di Yoji Shinkawa e resi magistralmente dal Decima Engine  (e animati da un motion capture che definirei praticamente perfetto), è il mondo di gioco a sorprendere. Sconfinato, immenso e realistico, l’ambientazione di Death Stranding apparirà sulla vostra PS4 Pro con la bellezza di 30FPS granitici. Gli effetti di luce conferiscono una dose di realtà in un paesaggio distopico che diventa reale dall’irreale (mi chiedo cosa verrà fuori dalla versione PC, prevista per il 2020). Certo, ogni tanto c’è qualche texture a bassa risoluzione qua e là e la vegetazione a volte delude, ma sono piccolissimi difetti che non possono assolutamente intaccare un’opera magna come questa.

A completare il quadro c’è un comparto audio davvero ben realizzato, a partire dalla colonna sonora: brani di artisti come CHVRCHES, Low Roar e Bring me the Horizon scandiscono il viaggio, intervallati da alcuni momenti di silenzio carichi di impatto. Di ottima fattura anche il doppiaggio italiano, che riesce a catturare bene le essenze dei personaggi. Avevo qualche riserva a proposito di questo aspetto, forse a causa di tutti i trailer mostrati in precedenza in lingua originale, ma devo ammettere che Andrea Lavagnino e soci hanno fatto un ottimo lavoro con la voce di Sam e dei suoi comprimari.

Conclusioni

Sintetizzare l’esperienza offerta da Death Stranding in poche decine di righe, quelle di una recensione, è un’impresa impossibile. Per questo vorrei che prendeste le mie parole come un solco, una traccia sulle quali costruire la vostra visione del mondo distorto e distopico di Hideo Kojima. Quello che è certo è che per chi vi scrive questo gioco ha rappresentato un’avventura diversa da tutte le altre presenti sul mercato odierno. Forse Kojima non è riuscito a creare un genere nuovo (d’altronde era un’impresa quasi impossibile) ma ha preso sicuramente quel non so che di titoli come Journey e lo ha perfezionato a tal punto da lasciare un segno indelebile nel mondo videoludico. Sono sicuro che di Death Stranding si parlerà in continuazione anche negli anni a venire, perché un’opera così controversa e profonda è destinata a far discutere di sé ancora per molto tempo. 

D’altronde non ho usato la parola “opera” a caso, perché Death Stranding appartiene a quei lavori autoriali che fanno riflettere, che ci portano ancora una volta a chiederci se è arrivato il momento di equiparare un videogioco d’autore a un film d’autore. La risposta a questa domanda non posso certo darvela io, perché se fosse arte, Death Stranding rappresenterebbe un chiaro esempio di opera soggettiva, dove il suo creatore, Hideo Kojima ne ha riversato la sua soggettività dentro: citando Osho, i suoi sogni o le sue fantasie.

È anche vero che essendo un’opera soggettiva, non piacerà a tutti: Death Stranding è un gioco che divide e dividerà il pubblico, che parlerà di capolavoro o di simulatore di UPS a seconda del proprio schieramento personale. Tuttavia il mio consiglio è comunque univoco: prendete questo gioco, fatelo vostro, costruite la vostra esperienza e intraprendete il viaggio di Sam. Comunque vada, sarà qualcosa che difficilmente dimenticherete.