Dragon’s Crown Pro – Recensione

Ci sono un nano, un mago, una strega, un guerriero, un’elfa e una amazzone seduti alla Taverna del Drago Guardiano Potrebbe essere l’inizio di una divertente barzelletta di carattere fantasy medievale, una di quelle che probabilmente i nani si raccontano davvero fra un boccale di birra e l’altro, distruggendo qualche tavolo nel mentre perché non sarebbe una vera bevuta senza una rissa. Ad ogni modo l’incipit, per quanto d’ispirazione, rimanda a uno dei giochi più apprezzati della scorsa generazione di console – un titolo che ha appena sfiorato l’avvento di PlayStation 4 e solo dopo cinque anni ottenuto il diritto di far parte della sua libreria. Dragon’s Crown è stato un titolo apprezzato tanto quanto criticato ma non per le sue meccaniche, oggettivamente apprezzate nel complesso sia dai giocatori sia dalla stampa: no, ad adombrare la nomea del gioco è stato il particolare stile artistico adottato da George Kamitani – designer ma anche presidente di Vanillaware – nel rappresentare il mondo di gioco e in particolare le donne. Esageratamente prosperose e/o muscolose (tratto, quello muscolare, esteso anche agli uomini), le quote rosa del brawler 2D di Atlus hanno sollevato un polverone, sfociato in una vera crociata da parte di Jason Schreier (Kotaku) cui Kamitami ha risposto a tono.

Al di là dello scontro di per sé, che si è ormai risolto e non ha senso trattare in questa sede, ciò che permane è il sottotesto dell’accusa di Schreier secondo la quale una tale “espressione artistica” andava ad avallare un grosso problema dell’industria videoludica: la strumentalizzazione del corpo femminile. Ancora, se questa non è la sede giusta per prendere in esame la questione, lo è senza dubbio per concentrarsi su un aspetto essenziale di Dragon’s Crown Pro (ciò che più lo distingue, in fondo) e cominciare la recensione da un punto di vista diverso: l’analisi dell’arte di George Kamitani e la ragione per cui l’estro non andrebbe soffocato da un presunto moralismo perché c’è, nella sua forma espressiva, molta più profondità di quanto un seno generoso faccia pensare.

Anzitutto affrontiamo rapidamente la questione per cui lo stile di Dragon’s Crown Pro sia esagerato, ovvio, insipido e datato: non lo è, perché se così fosse non avrebbe suscitato scalpore nel 2013 e io non sarei qui a spiegare perché un artista non debba in nessun modo giustificare il proprio stile. Se fosse tanto insignificante, sarebbe passato sotto silenzio come fanno tantissime produzioni giapponesi in cui l’enfasi sul corpo femminile è molto più grezza e non ha nulla a che vedere con questa. A potersi considerare superata potrebbe invece essere la concezione per cui i personaggi femminili di certi giochi debbano sempre essere rappresentati con forme morbide e prosperose, ma con quest’idea Kamitani condivide solo due aspetti: i seni formosi di due personaggi, che da soli non costituiscono la sua arte per intero. Non tutte le donne presentano seni così ridicolmente grandi, basti pensare all’elfa che non ha nemmeno una scollatura degna di tale nome. Chiunque abbia giocato a un titolo Vanillaware, da Odin Sphere a Grand Knight History, riuscirà a vedere senza problemi quello che a molti potrebbe essere sfuggito: laddove generalmente il suo stile sia delicato e gradevole, in Dragon’s Crown Pro mette in atto una vera e propria provocazione, al punto da rompere qualsiasi regola anatomica e l’estetica classica. Non strumentalizza né sessualizza la figura femminile quanto, piuttosto, fa satira verso quel tipo di corpo odiato da molti e lo fa nel modo più sottile possibile: dall’interno. Inoltre, Kamitani si circonda di altri elementi distintivi come il tratto pittorico, un aspetto evidentemente caricaturale e un’anatomia fuori scala, ognuno volto a definire uno stile che lo renda riconoscibile a un primo sguardo. Questo per quanto riguarda i personaggi. In merito alle ambientazioni, il lavoro manuale lascia un segno evidente e accoppiato a un ottimo utilizzo della parallasse riesce a rendere ogni angolo di Hydeland immersivo, vivo, vibrante: una sessione di Dungeons & Dragons su grande schermo, fra labirinti mortali, nemici da manuale e quella componente ruolistica che non guasta mai.

L’arte di Dragon’s Crown Pro è provocatoria ma ricca di riferimenti classici e culturali

Ma è davvero tutto qui? No, perché quando parlavo della profondità dell’arte di Kamitani mi riferivo alle numerose influenze che hanno plasmato il suo stile e di cui Dragon’s Crown Pro si fa contenitore. A ogni inquadratura sembra emergere sempre un nuovo riferimento alla storia o alla cultura pop pronto ad ammiccare al giocatore, purché sia pronto a scrollarsi di dosso alcuni pregiudizi: a un certo punto è diventata quasi una divertente sfida cercare di coglierne il più possibile. Il team di Vanillaware è composto da alcuni ex sviluppatori Capcom che ai tempi hanno lavorato su alcuni degli arcade considerati i migliori fino ad oggi, inclusi Dungeons and Dragons: Tower of Doom Shadow Over Mystara. Certamente Dragon’s Crown Pro ne è un seguito spirituale, perché richiama fortemente il fantasy classico, ma appunto si tratta solo della punta di un iceberg di riferimenti culturali. Disney è un esempio piuttosto lampante, a partire dalla fatina Tiki il cui aspetto è chiaramente ispirato a Trilli (Tinkerbell in inglese) dal film Peter Pan e che non solo ci accompagnerà per quasi tutto il gioco, ma proprio in apertura illuminerà il logo Atlus allo stesso modo in cui Trilli spargeva polvere magica su quello Disney anni fa; assieme a lei nel corso delle avventure troveremo anche Ricky, l’apprendista del mago Wallace che trova la sua controparte disneyana nel Topolino di Fantasia – uno dei lungometraggi più ricordati (ma non il mio preferito devo riconoscere, anzi, ndr).

Laddove questi possano essere considerati più cammei, si nota invece l’influenza della Grecia classica in alcune statue ai lati del Portale, una delle quali rimanda all’Amazzone Ferita di Fidia, e in quelle delle dee nel Tempio di Canaan: Althena in particolare è un chiaro omaggio alla Nike di Samotracia. La schermata in cui si resuscitano le ossa dei guerrieri caduti è invece un connubio di Rinascimento con un particolare riferimento alla Madonna della Melagrana di Botticelli, grazie all’utilizzo dei putti, e Neoclassicismo con un evidente – sebbene più cupo – richiamo al Cristo Velato di Sanmartino. Già questo basterebbe a mandare in visibilio un appassionato di storia dell’arte ma Kamitani si è spinto oltre e nel paesaggio sullo sfondo della città che funge da hub principale si riconosce l’impronta del pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio: gran parte dei suoi lavori è sempre stata molto calda e focalizzata sulla vita contadina, inusuale per i pittori del Cinquecento ma ottima come fonte di ispirazione per chi volesse ricostruire un villaggio medievale. Vanillaware è fra questi ma l’ispirazione più chiara a Brugel in Dragons’ Crown Pro deriva da Grande Torre di Babele e Piccola Torre di Babele, entrambe fortemente riconoscibili nel castello della capitale di Hydeland e nel Santuario Dimenticato. Potrei citare altri riferimenti artistici ma davvero, ce ne sono a ogni angolo. Così come non manca la già menzionata cultura pop: Conan il Barbaro, Giasone e gli Argonauti, Fire and Ice – Fuoco e Ghiaccio… basta sapere dove guardare per trovare tutto questo. Ho dedicato tanto spazio al comparto artistico del gioco perché a mio avviso costituisce più del 50% dell’esperienza e meritava di essere analizzato abbastanza da farne capire la portata. Il resto naturalmente è affidato al gameplay.

Piccola-Torre-di-Babele-e-Santuario-Dimenticato
Piccola Torre di Babele e Santuario Dimenticato a confronto

Per chi non sa cosa aspettarsi, Dragon’s Crown Pro potrebbe indurre a pensare a un dungeon crawler con elementi GdR ma il gioco di Vanillaware opta per un altro approccio quando si tratta di combattere, ispirato alla Capcom degli anni ’90: il beat ‘em up. Possiamo scegliere fra sei personaggi – guerriero, amazzone, nano, strega, mago ed elfa. Mentre molti titoli Capcom di quegli anni avevano un ritmo piuttosto lento, ciascuno dei protagonisti di Dragon’s Crown Pro (comprese le “classi” più pesanti) è sorprendentemente agile e c’è un elevato livello di spettacolarità nel vederli muoversi lungo lo schermo concatenando combo fra loro, grazie a un set offensivo vario: attacchi pesanti, leggeri, speciali, a distanza, magie, lanci, il gameplay del titolo Vanillaware offre un repertorio più vasto dei giochi ai quali si ispira ma al contempo la quantità di mosse a disposizione non è così ampia da intimidire. A rendere ancora più gestibile questo aspetto è la presenza di due rami di abilità, uno comune e condiviso da tutti i personaggi, l’altro specifico per la classe in uso; il primo offre abilità generiche per migliorare alcuni aspetti del personaggio come i punti di vita e l’interazione con l’ambiente, mentre il secondo si concentra sul rendere più offensivo il nostro eroe attraverso una serie di attacchi devastanti. Rappresentate come carte dei tarocchi, ogni abilità si potenzia un certo numero di volte spendendo i relativi punti e assicurandosi di aver raggiunto il livello richiesto.

Non c’è una classe particolarmente proibitiva anche per i neofiti, nonostante i maghi possano rappresentare una sfida più ardua soprattutto giocando da soli. Fortunatamente si può aggirare il problema convocando in squadra alti tre personaggi e nel caso non riusciste ad accedere al multigiocatore online o locale, potete fare affidamento su compagni gestiti dall’intelligenza artificiale: non sono proprio brillanti, hanno una spiccata tendenza ad attivare le trappole o mettersi in situazioni di svantaggio, né sono consapevoli degli ovvi schemi di attacco dei nemici, ma sono molto utili quando volete “rullare di botte” i mostri con il nano, il guerriero o l’amazzone, lasciando a loro la gestione delle retrovie con attacchi a distanza. La moderata difficoltà di gioco iniziale non rende in ogni caso davvero impegnativa alcuna battaglia, neppure contro il boss finale, e questa meccanica è l’ideale se volete farvi le ossa con uno dei personaggi più deboli mentre il computer fa il lavoro sporco per voi – o ci prova. Dopo qualche ora di gioco si potrebbe pensare di aver capito tutto del gioco ma è proprio a quel punto, raggiunta la metà circa della storia, che Dragon’s Crown Pro si apre al multigiocatore: la scelta di introdurre più tardi una componente tanto cruciale potrebbe far alzare qualche sopracciglio ma in realtà è comprensibile in termini di equilibrio. Arrivati a quel punto dovreste aver maturato sufficiente esperienza e conoscenza della classe con cui state giocando, aprendovi così alla possibilità di un lavoro di squadra più efficace con i vostri compagni online. Giocare in gruppo, vero o fittizio che sia, è indispensabile a mano a mano che si prosegue con il gioco perché a un certo punto ogni dungeon si diramerà in direzioni più impegnative e con boss più difficili, soprattutto dopo l’endgame: come in ogni avventura che si rispetti, i nostri eroi non potranno riposare dopo aver sconfitto il boss finale. Altre minacce attendono.

Sebbene abbia aspetti principalmente positivi, il combattimento è la parte in cui tentenna di più Dragon’s Crown Pro perché, pur nella sua resa fluida e variegata, il tutto si trasforma spesso in un bailamme dove è difficile distinguere il proprio personaggio – sacrificando una supposta tattica dovuta alle singole abilità a un grezzo menare le mani. Questo non rende il tutto meno coinvolgente, grazie anche al comparto artistico cui ho dedicato buona parte di questa recensione, ma rimane la sensazione che il button mashing sia a volte una soluzione troppo quotata. I dungeon sono ben differenziati fra loro e grazie alle progressive diramazioni è possibile scoprirne nuove facce, tuttavia le missioni secondarie di cui il titolo è ricco (utili per sbloccare i bellissimi artwork e qualche informazioni in più sull’universo del gioco) non hanno molto spessore e a un certo punto diventano addirittura molto ripetitive. Fortunatamente, grazie alla componente GdR fatta di bottino, equipaggiamenti e upgrade abbiamo sempre un motivo per affrontare un nuovo incarico da parte della Gilda senza sentirne troppo il peso. In tutto questo, cosa distingue Dragon’s Crown Pro dalla sua versione originale? Anzitutto il fatto che giri alla risoluzione nativa di 4K rendendo l’immagine a schermo nettamente più pulita e dettagliata, sebbene il precedente potesse ugualmente contare sull’upscaling in full HD. Sono infatti sparite quelle sbavature visibili sui fondali e intorno agli sprite bidimensionali della passata edizione,un particolare che dunque esalta ancora di più la sua validissima componente artistica. Le interfacce e i menu aggiornati sono ora più leggibili ma a fare la vera differenza è un’incrollabile fluidità dovuta a 60fps stabili (l’originale girava a 50): persino nelle situazioni più caotiche non si ha il minimo scivolone e questo, oltre a essere molto apprezzabile, aiuta un poco a mitigare il senso di confusione che inevitabilmente accompagna i diversi scontri.

Ultimissime novità sono un completo rifacimento della colonna sonora a opera del compositore Hitoshi Sakimoto, supportato da un’orchestra dal vivo, l’aggiunta di tutti i DLC pubblicati per la versione originale, la scelta fra audio inglese e giapponese, i testi completamente tradotti in italiano e infine, come se già questo non fosse abbastanza, sia la possibilità di importare i propri salvataggi da PS3 e PSVita sia di giocare – grazie al cross-play – assieme ai possessori dell’edizione originale.

Conclusioni

Dragon’s Crown Pro vanta una profondità più artistica che di gameplay, in grado comunque di divertire e intrattenere grazie soprattutto al multigiocatore. È un beat ‘em up in salsa GdR, un genere che langue un po’ nell’ultimo periodo e tanto vale un apprezzamento per questa remastered: al netto di qualche sbavatura ereditata dal titolo originale, cioè missioni ripetitive e un combattimento su schermo spesso confusionario, l’edizione Pro valorizza il lavoro originale di Vanillaware soprattutto in termini artistici – grazie a una resa visiva nettamente più pulita; al contempo però le piccole aggiunte come la colonna sonora, i testi in italiano e il cross-play sottolineano come non abbia dimenticato quella che dovrebbe essere la base di qualunque remaster: il bene dell’opera e dei giocatori.

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