San Francisco – “Battle Royale”, la moda della seconda metà del 2017 e, a quanto pare, anche di questo 2018, dell’industria videoludica: sembra che quello che si sta praticamente evolvendo in un genere a se stante sia ormai qualcosa di imprescindibile in qualsiasi gioco, e non solo tra le nuove uscite. Anche titoli già usciti, da qualche mese o persino da qualche anno, vogliono salire sul carro del vincitore, implementando, a volte anche forzatamente, una modalità che strizzi l’occhiolino al successo di PlayerUnknown’s Battlegrounds, Fortnite e simili. A dicembre, e non senza sorpresa, anche Techland annunciò di volersi unire ad una partita sempre più affollata con il suo Dying Light: partendo dal successo del gioco base, il team polacco conta di capitalizzare sul successo dello stesso lanciando Bad Blood, espansione stand-alone che introduce una modalità PvP (con un tocco di PvE) che deve qualcosa ai battle royale, ma che al contempo prevede degli elementi distintivi in grado di offrire realmente una valida alternativa ai tanti cloni che, volenti o nolenti, ci ritroveremo tra i piedi da qui ai prossimi mesi (o anni?).
Il concetto alla base è molto simile: tutti i giocatori si ritrovano, ad ogni nuova partita, sprovvisti di armi o qualsivoglia forma di abilità o esperienza, costretti a sopravvivere con qualsiasi oggetto (posizionato casualmente) gli capiti tra le mani. Fondamentale quindi, nei primi frangenti, arraffare il possibile, sperando di trovarsi casse piene di armi, ambulanze che grondano medkit e magari qualche preziosa molotov. Ma è come si sviluppano le singole partite a cambiare e di tanto le carte in tavola, al punto da rendere sin troppo sterile e fuorviante qualsiasi tentativo di sdoganarla come pura e semplice scopiazzatura: i giocatori, per un massimo di 6 (e non i soliti 100), possono e devono sì massacrarsi a vicenda, sfruttando lo stesso “arsenale” del gioco base, tra armi in netta prevalenza bianche (abbiamo massacrato in un epico scontro finale uno dei colleghi presenti con una falce, nonostante impugnasse uno shotgun: il piombo non è la risposta!), calci e agilità da parkourer con cui muoversi nella mappa di gioco (una – per ora piccola – porzione di quella molto più vasta del gioco base: l’idea, ovviamente, è quella di ampliarla e di sfruttare anche altre zone). Ma l’ultimo che resta in piedi non deve semplicemente sbarazzarsi degli altri: l’obiettivo principale è infatti quello di recuperare da speciali e potenti creature, e dagli zombi comuni che li circondano, del sangue, ovviamente massacrandoli. Una barra ci indicherà la quantità raccolta (in tutta la mappa è presente sangue sufficiente a riempirne una sola), e al sangue è associata un’altra particolarità rispetto ai classici esponenti del genere, legata alla gestione dell’inventario estremamente basilare: l’incubo a cui ci ha abituati PUBG di passare più tempo a gestire lo spazio nello zaino che a sparare qui viene totalmente accantonato con una soluzione più rapida e snella, con 8 slot totali, 4 per le armi e 4 per gli oggetti – siano essi medkit, granate o mine -, e a regolare salute e resistenza ci pensano non le armature, gli elmetti et similia, ma un vero e proprio livello di esperienza (da 1 a 5), con conseguente aumento (temporaneo e sempre limitato alla singola partita) delle statistiche. Quando si elimina un altro giocatore, ci si ritrova quindi non solo con le sue armi, ma anche e soprattutto con il sangue recuperato (e quindi con l’esperienza).
Un messaggio su schermo avviserà dell’arrivo dell’elicottero con il quale salvarsi, ma l’unico sedile presente è riservato al solo giocatore con l’intera barra del sangue piena, e una volta raggiunta la “safe zone”, bisognerà necessariamente attendere almeno 30 secondi: sarà quindi molto frequente ritrovarsi a duellare con l’altro superstite in possesso della restante parte di sangue, decretando così il vincitore, come tradizione del battle royale, negli ultimi secondi di gioco. Gli elementi cardine sono al proprio posto, ma è pur vero che buona parte di quelle soluzioni studiate per donare a Dying Light: Bad Blood una sua personalità, rischiano al contrario di limitarne le potenzialità: la costante necessità di gestire in fretta e furia l’inventario, la frenesia di setacciare ogni anfratto sperando di beccare quel mirino utilissimo (qui al massimo si possono craftare armi in fretta e furia, trovando qualche mod che verrà applicata automaticamente), l’immensa mappa che offre migliaia di spot per agguati e duelli, le chance di vittoria sempre ridotte all’osso, qui, almeno per il momento, non sembrano proprio esserci.
Insomma, lo ribadiamo, gli elementi in comune ci sono, ma Dying Light: Bad Blood fa di tutto per far emergere la personalità del gioco base, e di proporre una sua reinterpretazione del genere, ma per quanto godibile, almeno dal poco provato, è chiaro che proprio quegli elementi distintivi rischiano di smorzare le sensazioni uniche che una sana battle royale è in grado di regalare, a partire dalla varietà e dall’unicità delle situazioni: la mappa molto più piccola, il numero di giocatori ristretto, per non parlare delle pesanti limitazioni dell’inventario, rischiano infatti di tenere a debita distanza gli utenti più hardcore ormai assuefatti alle stesse. Al contempo però, c’è chi invece vorrebbe avvicinarsi al genere, ma con una versione più leggera e digeribile: come primo impatto, quello di Bad Blood è sicuramente più morbido, ma in ogni caso godibile. Techland sta ancora tastando il terreno (al punto da non sbilanciarsi nemmeno sulla fascia di prezzo a cui lo immetterà sul mercato), segno che di modifiche ed evoluzioni, nel corso dei mesi ne vedremo, anche in base alla capacità di questa espansione standalone di replicare lo stesso successo (o almeno parte dello stesso) dell’amatissimo gioco base.