Arrivare al nono capitolo, in questi tempi di software house che chiudono e di serie potenzialmente interessanti strozzate sul nascere, non è un’impresa da tutti: servono idee vincenti, un coraggio fuori dal comune, oppure basta uno zoccolo duro di fan, talmente duro da continuare a supportare un team, un gioco, un’idea, chiudendo un occhio, o quando necessario, anche tutti e due. Con Dynasty Warriors 9, senza contare le serie e i capitoli paralleli, la serie di Koei Tecmo e Omega Force punta a proseguire la sua campagna di conquista in Occidente, il tutto nel nome del musou, il genere che ha contribuito a creare, sviluppare e diffondere, andando anche a contaminare altri brand (Fire Emblem e Zelda, tra i tanti) con spin-off dedicati. Lo fa con una mossa sicuramente coraggiosa, richiesta a gran voce dai fan, stanchi, forse, di slogarsi i polpastrelli su meccaniche e atmosfere trite e ritrite, stravolgendo la struttura di gioco.
Dynasty Warriors 9 è il primo capitolo ad abbracciare l’open-world, tanto in voga in altre produzioni che, volenti o nolenti, hanno contaminato il gioco, andandolo però, a nostro parere, a snaturare indissolubilmente, rovinando in parte il risultato finale. Sia che siate fan sfegatati, che scettici desiderosi di avvicinarvi alla saga proprio con questo atteso episodio, non vi resta che continuare a leggere per capire cosa sia andato storto, e cosa invece potrà essere salvato per il futuro.
La narrazione, come da tradizione, pesca a piene mani dalla affascinante storia della Cina, senza però esagerati stravolgimenti da ciò a cui ci ha abituato il passato della serie: si parte con l’Insurrezione dei Turbanti Gialli (nel 184) che diede di fatto inizio all’inizio del periodo dei “Tre Regni”, il cui scopo era quello di spodestare l’imperatore approfittando dei tumulti a corte e delle crisi sociali ed economiche da cui era afflitto il popolo, ben felice di unirsi al progetto del pretore Zhang Jiao. Daremo il via alle nostre epiche gesta nei panni di Cao Cao, progredendo nei 13 capitoli principali (che è possibile rivivere dal punto di vista delle 5 diverse fazioni in cui sono divisi i 90 personaggi, tutti da sbloccare), reprimendo tumulti, giurando fedeltà e muovendo le nostre pedine in un enorme e complesso scacchiere in cui i tradimenti sono all’ordine del giorno, il tutto attraverso cutscene e dialoghi presenti tra un capitolo e l’altro, e una missione principale e l’altra. Niente di nuovo sotto il sole, ma è pur vero che la saga non ci ha mai abituato a chissà quale finezza narrativa: il fulcro dell’esperienza è il gameplay, che in Dynasty Warriors 9 ha subito un restlye evidente, purtroppo non del tutto riuscito.
Il fulcro dell’esperienza è il gameplay, e in Dynasty Warriors 9 ha subito un restlye evidente (non del tutto riuscito)
La novità più interessante è la struttura open-world: per quanto diviso in capitoli, il gioco non è più composto da mappe a compartimenti stagni, ma da un’unica grande Cina, con le sue città in cui far visita a mercanti (per acquistare oggetti di cura e power-up) e fabbri (per comprare e craftare armi con il denaro ottenuto in battaglia e con i minerali e le risorse trovate in giro), gli accampamenti da conquistare con cui estendere l’influenza del proprio esercito, persino le sue torri à la Far Cry/Assassin’s Creed dalle quali scrutare l’orizzonte (con un’animazione alquanto goffa, tra l’altro) e scovare altri punti nevralgici (presso i quali sarà possibile teletrasportarsi grazie al viaggio rapido), altre battaglie in corso tra i generali nostri alleati e quelli nemici in cui intervenire, altre missioni secondarie con cui indebolire la forza e il livello degli avversari, e nello specifico, dell’obiettivo principale da colpire nei vari capitoli. I più esperti potranno tranquillamente misurarsi con avversari al massimo della potenza e andare dritti al sodo, dopo anni e anni di duelli 1vs1000 conclusisi senza troppe perdite, dedicandosi alla sola main quest, mentre i completisti o chi non se la sente di affrontare generali esageratamente forti, può vagare liberamente per la brulla e vasta nazione svolgendo compiti secondari affidati dai cittadini, dai capitani delle truppe, o indebolendo l’esercito nemico andando a polverizzare qua e là le sue figure di spicco, facendone crollare il morale. Non che sia fondamentale: i premi in palio non sono mai troppo ricchi, la varietà delle missioni è disarmante (vai da qui a lì, uccidi X bersaglio e stop), e l’IA è inerme, con interi plotoni che attendono diligentemente la propria morte sotto la nostra lama senza troppi convenevoli, e mid-boss e boss dai pattern di attacco e di difesa non proprio brillanti.
In qualche occasione li si potrà indebolire colpendone i punti deboli (che possono essere, ad esempio, anche degli altari presenti nella stanza in cui avviene lo scontro), ma il più delle volte basterà prendere padronanza col rinvigorito e più articolato sistema di combattimento, che ai classici attacchi (standard, pesante e quello speciale esclusivo per ogni personaggio) unisce contrattacchi, colpi contestuali, e una nuova serie di attacchi attivabile con la pressione del dorsale destro, per stordire, atterrare o scaraventare l’avversario verso il cielo, potendo poi proseguire la combo con il solito button mashing furioso, il tutto indipendentemente dall’arma equipaggiata (saranno tutte liberamente acquistabili, ognuna con valori di attacco e difesa differenti). Le collisioni però non sono sempre precise, e ciò si traduce in colpi che vanno a vuoto (soprattutto con le frecce), e in alcuni casi anche in personaggi (sia quello che in uso che quelli nemici) che si incastrano in un muretto o dietro un portone, smorzando così parte dell’entusiasmo che le novità apportate al combat system portano con sé. A rendere il tutto meno soddisfacente, inoltre, ci pensa il ritmo generale di gioco, forse l’elemento più compromesso da questa svolta open-world: se prima, per quanto la ripetitività fosse all’ordine del giorno, non c’era praticamente mai un momento di tregua, ora ci si ritrova a dover cavalcare con il fido destriero per lunghi e noiosi sentieri tra una missione e l’altra, passando da un accampamento all’altro, da un villaggio all’altro, tutti uguali tra loro, senza particolari guizzi ludici e/o estetici.
Il ritmo di gioco è tra le principali vittime della nuova struttura open-world
Il team ci ha provato a dare un tocco di varietà al tutto, sarebbe ingiusto negarlo: ha introdotto un sistema di pesca e di caccia per dare un po’ di pepe al nostro vagabondaggio con orsi, tigri, lupi e cervi da eliminare, scrigni disseminati un po’ ovunque, persino nemici speciali, più forti del normale, davvero difficili da mandare al tappeto, e alcune missioni potranno essere completate sfruttando la giusta (e casuale) condizione meteorologica, oltre che una specifica fascia oraria (grazie al ciclo giorno/notte), per approfittare del favore delle tenebre e introdursi in una fortezza nel silenzio più totale, utilizzando il rampino (grazie al quale aggirare portoni da abbattere con gli arieti durante gli assedi) e camminando silenziosamente in vere e proprie sezioni stealth durante le quali è possibile cogliere i nemici alle spalle ed eliminarli con un singolo tasto. Peccato che l’IA sia in grado o di vanificare il tutto in un attimo, o di non vedere ad un palmo dal naso, smorzando così quel brivido che certe missioni dovrebbero trasmettere. Per quanto semplicistico e basilare, il crafting risulta un minimo interessante, così come tutto il sistema di progressione (basato su punti di esperienza da accumulare e da statistiche da potenziare): serve per creare gemme e accessori con cui rafforzare il nostro generale, ma è pur vero che i nostri superuomini, a conti fatti, non è che abbiano poi bisogno di chissà quale aiutino per sbaragliare interi eserciti.
Si scende ulteriormente nel baratro con il comparto tecnico, stantio e sicuramente azzoppato dalla nuova dimensione della mappa: esteticamente poco vario, Dynasty Warriors 9 non brilla per la qualità delle texture, né per la direzione artistica, che con un paese affascinante come la Cina e un open-world a disposizione avrebbe potuto regalare scorci davvero indimenticabili. Oltre ad apparire vuota e poco gradevole alla vista, ci pensa il frame-rate a complicare le cose: su PS4 Pro, dove è possibile decidere se dare priorità alla grafica o alla fluidità, non mancano vistosi cali in entrambe le modalità, dove i target prefissati (60 e 30 fps) non vengono mai centrati, risultando, nel primo caso, a tratti ingiocabile, con una scattosità imperante anche lontano dagli scontri più affollati, e nel secondo, inficiato dall’immancabile pop-up di nemici e di elementi dell’ambientazione. Si salvano le musiche, che alternano epiche melodie orchestrali a robusti pezzi hard rock, meno il voice acting inglese, con voci non sempre convincenti. Infine, i non-anglofoni saranno ben felici di poter giocare un capitolo della saga in italiano.
Aspettavamo con trepidazione Dynasty Warriors 9, perché speravamo potesse dare alla saga quella spinta necessaria per rinnovarsi e approdare ufficialmente alla nuova generazione. Sulla carta, le novità parevano davvero interessanti, a partire dalla struttura open-world, ma pad alla mano, l’esperimento non ci è parso del tutto riuscito. Il combat system rinvigorito (ma non troppo) è accompagnato da sacrifici al ritmo di gioco, la ripetitività è sempre presente, la componente tecnica/grafica, tra rallentamenti e pop-up, non brilla, e le tante attività secondarie non sono così eccitanti da sviarci dalla trama principale, che resta comunque il caposaldo dell’esperienza che non deluderà i fan più hardcore, liberissimi come sono di ignorare quasi del tutto il “contorno”. Chi, come noi, si aspettava una rivoluzione, rimarrà però deluso. |
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