È un periodo d’oro per i survival duri e puri: Playerunknown’s Battlegrounds è il gioco del momento, il sottogenere “Battle Royale” riceve nuova linfa vitale di continuo, e i capisaldi del genere (Rust e DayZ, per citarne due a caso), pur non riuscendo a mantenere i numeri di un tempo, riescono ancora a dire la loro. Escape from Tarkov è un nuovo, ambizioso sfidante desideroso di mettersi in gioco, ma ancora in pieno sviluppo, e bisognoso di una mole di lavoro non indifferente. Del resto, con simili premesse, sarebbe stato molto strano il contrario: l’impresa di Battlestate Games, team russo, consiste infatti nell’unire realismo, simulazione, sparatutto in prima persona, meccaniche da GDR e un approccio da MMO, il tutto condito da una narrazione potente, che verte sul concetto di “fuga”.
La popolazione ha completamente abbandonato la città di Tarkov, situata nella regione di Norvinsk, per via di una guerra incessante. I “tesori” (qualsiasi cosa lo è nel bel mezzo di una guerra, no?) lasciati da soldati e comuni cittadini hanno attirato sciacalli di ogni genere, gli Scav, armati di tutto punto e pronti ad ogni barbarie pur di rimpinguare il proprio arsenale. Sono due le fazioni impegnate a spartirsi questo ring isolato con chilometri di muraglie e filo spinato dalle Nazioni Unite e dall’esercito russo: da una parte ci sono i BEAR, ex-ufficiali delle forze speciali russe, impiegati dal governo per contrastare l’altra fazione coinvolta, l’USEC, filo-occidentale, pagata dalla Terra Group Labs per distruggere ogni prova dei loro illeciti e per impedire al governo di ficcare il naso nei loro affari.
Scelta la fazione, si parte con il set-up del proprio personaggio principale, un soldato da curare e coccolare in ogni suo aspetto, con un unico, vasto arsenale da ampliare svolgendo le missioni raccogliendo risorse, oggetti e rubli sul campo, oppure contrattando con i mercanti, seguendo i dettami di una economia plasmata dai comportamenti della community. Avremo anche delle skill da apprendere, sia attive che passive, per renderlo più resistente, aumentarne la salute e così via, accumulando punti esperienza ottenuti compiendo azioni di ogni genere. Tranne il morire: quello ci priverà, offline (ma per il momento è una modalità presente nella sola beta come palliativo per i momenti di traffico intenso dei server), di quanto raccolto in partita, e online, di quello che si porta con sé al momento. Lo spettro della perdita è costante, ci tiene il fiato sul collo perennemente, e no, non c’è seconda chance che tenga. Gli altri giocatori potranno lootarci senza troppi convenevoli, e a noi non resta che “assicurare”, pagando prima della partita un obolo ai mercanti, quegli oggetti non lootati da sconosciuti, sperando e pregando che nessuno li veda.
Quello di Tarkov è un mondo crudele e spietato: basta distrarsi un attimo e sfiorare del filo spinato penzolante mentre si costeggia la muraglia che delinea i confini della mappa per beccarsi del danno non indifferente, oppure cadere dal tetto di una casa o da una roccia per restare momentaneamente paralizzati. E guai a lasciare una ferita senza fasciature o cure di sorta: si rischia di trasformare un taglietto in un’emorragia killer. È un mondo in cui l’opportunismo paga: non a caso, al giocatore viene concessa la possibilità di schierarsi da una terza parte della barricata, quella degli Scav, con un personaggio generato casualmente (non, quindi, da gestire e migliorare come nel caso del soldato), meno potente, ma che nella caccia tra gatto e topo riveste il ruolo del predatore in superiorità numerica, e in cambio di questo suo tradimento, potrà trattenere le risorse accumulate nelle scorribande e trasferirle al suo personaggio principale. Ma prima o poi arriverà il momento di vestire i panni del topo continuamente braccato, impegnato, almeno nei 10 Raid che compongono la modalità principale di Escape from Tarkov (nella beta è possibile provarne 4: Shoreline, con la sua spiaggia, la boscosa Woods, Factory e Customs), a ripulire quante più case e casse possibili, a sopravvivere ad incontri fortuiti con altri Scav e a farsi estrarre nel punto di fuga.
Il tutto senza aiuti di alcun genere: l’HUD è ridotto all’osso, non ci saranno né mappe, né comodi indicatori a segnalarci il numero di proiettili rimasti (occhio a ricaricare: rischiate di bruciare un intero caricatore!) né l’uscita, e solo l’istinto di sopravvivenza del giocatore e il suo senso dell’orientamento, uniti all’esperienza e alla necessità di ripetere più volte le missioni (in primis per il farming delle risorse) , permetteranno di padroneggiare le mappe, conoscere le zone in cui è alta la probabilità di trovare qualcuno, ed adeguarsi alle circostanze, camminando di soppiatto (strisciando o chinandosi con varie posture, in base alla necessità di ripararsi durante una sparatoria o per prendere meglio la mira), escogitando trappole con mine e granate, scegliendo il momento giusto per lootare (in quanto è richiesto qualche secondo – di troppo – anche solo per controllare cosa contiene una scatola o un corpo) oppure impugnare il proprio fucile.
Potrete equipaggiarne di ogni genere, e stravolgere il feeling a suon di mod: tra rinculo, gittata e velocità di ricarica, ogni arma sembra unica, e ogni minimo intervento sulla stessa non fa che confermare questa sensazione. Inoltre, è richiesto del tempo di assestamento per prendere confidenza con il ritmo di pistole e fucili, i nostri unici alleati in questo campo di battaglia così infame: bisognerà quindi dedicargli tutte le cure, i fondi (per acquistare nuove parti e potenziarli) e il tempo necessari. Anche per padroneggiare il preciso sistema balistico di Escape from Tarkov, uno dei tanti elementi con cui il team dimostra di voler sfornare un prodotto dannatamente hardcore e per i palati più fini. Come dimostra (con meno successo, almeno per il momento), la spietata IA, che durante i nostri test si è rivelata tremendamente sbilanciata: in qualche occasione ci siamo ritrovati a massacrarla con due semplici colpi di scure e senza ricevere alcun danno, noncuranti di aver perso il favore della notte e del silenzio. In tante altre, nonostante le coperture dietro cespugli e rocce, ci siamo ritrovati al cospetto di due-tre soldati dalla mira letale e dal grilletto più veloce della luce che ci hanno crivellato in un secondo. E quando si perdono le risorse faticosamente conquistate, così come il preziosissimo tempo, dopo una sessione di 30-40 minuti (in generale avrete circa un’ora e mezza di limite entro il quale portare a termine le missioni), la frustrazione inizia a farla inevitabilmente da padrone. E lo stesso vale quando il design delle mappe, splendido dal punto di vista estetico e adatto ad imbastire strategie di vario genere, non viene sfruttato a dovere, con tantissimi punti morti privi di cose interessanti da fare che portano il giocatore a vagare per decine di minuti, salvo poi, per l’appunto, bruciare un’intera partita con un singolo proiettile.
Quando invece il design funziona, Escape from Tarkov riesce persino a regalare momenti di pura atmosfera: villaggi abbandonati, auto arrugginite, latrine a cielo aperto da sfruttare come ripari, cimiteri trasformati in paludi e chiese all’interno delle quali sono ancora presenti i segni di nefandezze inenarrabili. Scenografie di un disastro avvolto da una sottile coltre di mistero, che contribuiscono a rendere ancora più densa e inquietante la tensione che si respira in gioco, dovuta alla desolazione che circonda il giocatore in ogni momento, ma anche al rischio impellente di ritrovarsi un proiettile conficcato nel cranio e di dover dire addio al proprio equipaggiamento.
Quando funziona, quella di Escape from Tarkov è un’esperienza tremendamente appagante
I problemi di natura tecnica (i server sempre pieni, le collisioni che rischiano di mandare all’aria le partite, idem l’IA-Terminator) e l’incertezza di alcune meccaniche sono un reminder del fatto che Escape from Tarkov sia ancora nel pieno dello sviluppo, e che gli manca ancora del tempo per concretizzare le ambiziose visioni del team. Di certo è più che giocabile, e in alcuni momenti (a partire dall’intero comparto grafico) è davvero difficile credere si tratti di una beta con ancora tantissima strada da fare, motivo per cui i fan di questa concezione così estrema ed hardcore di sparatutto online a tinte survival, hanno più di un motivo per scommettere sull’operato di Battlestate Games. Quando funziona, quella di Escape from Tarkov è un’esperienza tremendamente appagante, con quella sua perenne richiesta di dedizione, attenzione e concentrazione che fa scorrere un brivido lungo la schiena ad ogni minimo rumore, ad ogni testa che sbuca da dietro un cespuglio o una roccia, ad ogni proiettile che si sente in lontananza, segno di una minaccia in arrivo, o del fatto che qualcuno più sfortunato di noi potrebbe aver fatto una brutta fine… e che forse è il caso di andare a vedere se ha lasciato qualche succosa risorsa che ci aiuterà nella nostra fuga da Tarkov.