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Final Fantasy VII Rebirth – Recensione

Qualcuno probabilmente ancora fatica a crederlo, ma siamo finalmente giunti al giro di boa del “viaggio sconosciuto” intrapreso quattro anni fa in barba alla sacralità della storia originale e alle riserve dei puristi: Final Fantasy VII Rebirth (prenotabile da GameStop a questo link) si presenta ancora più convintamente pronto a sorprendere, esaltare, straniare e magari deludere anche qualcuno, proprio come avvenuto con il precedente capitolo.

Non è semplice approcciarsi a una produzione che per tanti, soprattutto alla luce del fantomatico “capitolo 18”, ha già perso tante occasioni. La razionalità mette in guardia, frena il trasporto e accentua lo scetticismo. Ma non fa i conti con l’amore, sconfinato, che giocatori di ogni generazione provano per l’universo in cui danzano le vite di Cloud, Aerith, Tifa e tutti gli altri protagonisti, ora in balia di un vento chiamato Sephiroth, più simile a una tempesta che alla primaverile brezza che viene dall’ovest.

Ed è per questo che, nonostante le enormi riserve che il sottoscritto nutre verso Final Fantasy VII Remake, ho provato una consistente emozione in tutto il percorso di avvicinamento a questo titolo, destinato a dimostrare a conti fatti se il bailamme narrativo che negli anni è stato costruito da Nojima, Kitase, Nomura (e tutti coloro che hanno lavorato alla Compilation di Final Fantasy VII) avesse il potenziale per assumere una forma finalmente concreta, diventando nuova mitologia in grado di riscrivere l’originale nei cuori dei giocatori.

Che dire quindi quando, furbescamente, si inizia con uno degli eventi più iconici in assoluto per il franchise, ovvero il flashback di Nibelheim? Non importa che tutto lo spazio narrativo tra l’uscita da Midgar e l’arrivo a Kalm sia affidato a un breve filmato in un DLC se regali al tuo pubblico un’apertura con il leggendario 1st Class Soldier Sephiroth, potendo addirittura controllarlo. È fatta, li hai ripresi tutti all’amo, hai scatenato feels a fiumi e tutto il resto a livello di impatto è una discesa. Non resta che azzeccare la progressione, la grande sfida di questo Final Fantasy VII Rebirth. Sì, forse la rigidità del primo capitolo e dell’inizio del secondo, pesati per essere introduzione e tutorial, può affaticare qualcuno, ma è un peso accettabile perché da lì in avanti il gioco si comporta strutturalmente come tutti abbiamo sperato potesse fare nel corso di tutti questi anni di attesa.

È questa la libertà?

Liberatasi degli stringenti confini di Midgar e graziata dai numerosi anni di sviluppo a disposizione, Square Enix apre alla grandezza di Gaia realizzando un vero e proprio miracolo a livello di esplorazione, percepita e concessa: la world map originale, puntellata dei vari nuclei abitativi e punti di riferimento, va a comporsi di tante open map tutte da scoprire in ogni dettaglio, ognuna caratterizzata per biomi unici e riferimenti alle originali strutture naturali. C’è qualche muro invisibile, qualche ostacolo naturale di troppo e un po’ di furbizia nel privarci di alcuni passaggi, ma finalmente torniamo a goderci la possibilità di spulciare la mappa.

Già la sola prateria di Kalm dona un discreto senso di meraviglia, offrendo a ogni pié sospinto quando un punto di interesse, quando uno scontro, quando un segreto, quando un’attività. Le prime fasi funzionano, risultando decisamente naturali, e guidano il giocatore passo passo attraverso tutte le meccaniche di gioco legate alla mappa. E così, dopo aver preso confidenza con il Ranch di Bill e aver imparato a catturare i Chocobo, incontriamo nuovamente Chadley, il curioso androide che nel precedente episodio ci ha messo alla prova con il suo simulatore.

Un vero e proprio miracolo a livello di esplorazione, percepita e concessa

In questa occasione il ruolo della creazione di Hojo diventa centrale, indispensabile verrebbe da dire, in quanto è il punto di riferimento per il giocatore nel suo dipanarsi tra le varie attività presenti in ogni area. Sapientemente, infatti, il team di sviluppo ha costruito una serie di obiettivi da completare legati all’esplorazione, che partono dall’individuazione e l’attivazione delle famigerate “torri alla Far Cry” per passare alla ricerca delle emissioni naturali di Mako, alle cacce di mostri speciali, al dissotterramento di reperti storici, al recupero di misteriose reliquie, all’interazione con i Moguri, alla ricerca delle evocazioni e via dicendo (lo State of Play era stato piuttosto esaustivo in merito). A ogni obiettivo raggiunto, a ogni scoperta, la mappa si apre e si arricchisce di nuovi traguardi, mentre il giocatore viene gratificato accumulando punti necessari a sintetizzare nuove materie.

Questo processo funziona a dovere, offrendo la possibilità di perseguire la trama in tutta libertà ma al tempo stesso non facendo mai mancare qualcosa su cui curiosare, anche a tempo perso. Così si cresce con il proprio party, si aprono nuove opportunità, si ottengono oggetti e materie con cui sperimentare, viaggiando a cavallo tra normale senso di scoperta e voglia di completismo – i più accaniti sono avvisati, ci perderete una vita in ogni area! Ed è qui che ci si rende conto di come, con le giuste proporzioni, si respiri lo spirito dei vecchi mondi da esplorare, capaci di affascinare e intimorire per la loro grandezza e imprevedibilità. Un risultato simile non era per niente scontato, sia chiaro, ed è da sottolineare!

Una piccola parentesi andrebbe dedicata ai graziosi pennuti da trasporto, i Chocobo, che tornano in Final Fantasy VII Rebirth con grandi aspettative per via dei trailer mostrati e delle meccaniche presenti nel gioco originale. L’esplorazione di ogni Open Map si appoggia a un tipo di Chocobo diverso, a cominciare da quello classico nell’area di Kalm, a quello in grado di arrampicarsi sulle pareti nella zona di Junon per arrivare a varianti più peculiari, in grado di planare, saltare su funghi “trampolino” o addirittura in grado di tenersi sospesi in volo se sotto di sé è presente uno specchio d’acqua (non fate domande…). Ogni nuova variante va guadagnata superando un minigioco di cattura, e da quel momento ci è concesso richiamarli con il nostro fischietto.

Ci si rende conto di come, con le giuste proporzioni, si respiri lo spirito dei vecchi mondi da esplorare

Un lavoro non meno impegnativo di quanto visto per la mappa è stato richiesto per ricostruire i vari dungeon come le miniere di Corel, il reattore di Gongaga, la prova di Red XIII o il tempio degli Antichi, giusto per tirarne in ballo qualcuno, reinterpretati per scremare le rigidità dell’epoca e al tempo stesso modernizzarne l’attraversamento, senza mai però perdere la fedeltà tanto cara ai più appassionati. E così, come è successo in Remake (pur in forma minore, fortunatamente), sono state aggiunte nuove situazioni che consentono ai vari protagonisti, a rotazione, di prendersi il centro della scena e usare le proprie peculiarità per venire a capo di enigmi ambientali o superare vere e proprie prove di abilità.

Allo stesso modo, finalmente, anche le città tornano ad essere un fulcro di vita ed espressione di identità: la piccola Kalm diventa un borgo rigoglioso, Gold Saucer si espande e si estende in modo vorticoso, a tratti disorientante, mentre Cosmo Canyon azzarda nella verticalità, risultando unico per la sua capacità diventare crocevia culturale per tutti gli abitanti di Gaia.

Quanto è cresciuta la piccola Kalm!

Farà strano dirlo parlando di un remake/sequel/reimmaginazione come Final Fantasy VII Rebirth, ma finalmente ce l’abbiamo fatta: Final Fantasy torna ad essere mondo, torna a essere avventura, torna a essere casa! Era dai tempi di Final Fantasy XII che non avevamo tra le mani un mondo così interessante da vivere e organico nell’esplorazione, scevro di vincoli nello spostamento legati a una mappa che in qualche episodio risultava più che altro un menù. Ed è anche assurdo il quantitativo di lavoro svolto: l’unica spiegazione è che tutti questi contenuti fossero da tempo in lavorazione, anche durante la chiusura di Remake e del suo DLC, con buona parte già completata ben prima del reveal di Rebirth. C’è da rimanere inebetiti al pensiero di cosa si possa fare nel prossimo titolo, preservando quanto è stato costruito e aggiungendovi ancora altri contenuti. WOW.

Con il mondo di gioco che va a prendersi una bella promozione, non si può che passare a un altro dei capisaldi del genere JRPG, ovvero il battle system (per la trama è presto, abbiate pazienza). Si parte ovviamente dalle solidissime basi costruite nel 2020, le quali sembravano aver trovato una forma definitiva nel raccordare i vari elementi che hanno reso appassionanti le battaglie nei vari capitoli della serie, a cominciare dall’ATB, passando per i sistemi di materia e limit per arrivare poi alle meccaniche di debolezze e stagger. Da questo punto di vista non è cambiato gran che, e si continua a combattere freneticamente controllando in prima persona il proprio leader (potendo comunque cambiare in corsa il personaggi controllato) e impartendo ordini ai personaggi non attivi. Funzionava prima, funziona ora, non c’era motivo di intervenire in modo pesante.

Final Fantasy torna ad essere mondo, torna a essere avventura, torna a essere casa!

C’era però bisogno di aggiungere pepe, di mettere nel piatto un po’ di varietà, anche perché avremmo avuto a che fare con nuovi personaggi pronti a unirsi al nostro party, caratterizzati da un proprio peculiare stile di lotta. E questa diversità è davvero un enorme punto di forza del sistema di combattimento, il quale letteralmente impedisce di arenarsi nello stantio proprio perché Cloud si controlla in modo diametralmente opposto ad Aerith o Tifa, così come può essere per Barret e Cait Sith o Red XIII e Yuffie: ognuno di essi sfrutta una meccanica personale da padroneggiare per sfruttare al meglio il personaggio, richiedendo anche un certo allenamento prima di venirne realmente a capo.

Aerith è diventata ancora più efficiente nel generare cerchi in grado di alimentare, sostenere o moltiplicare le sua abilità, potendo anche “spammare” scudi e teletrasportarsi di cerchio in cerchio. Tifa è sempre più aggressiva nell’uso delle sue arti e nel potenziamento dei livelli delle stesse, Red XIII si gioca tutto nell’alternanza di parate e “vampirismo” del suo stato di vendetta mentre Caith Sith un po’ come nel titolo originale del 1997 richiede pazienza, creatività e fortuna. Cloud e Barret sono rimasti due treni in corsa, ampliando moveset e potenzialità.

Il gioco poi tende a limitarci l’accesso ai personaggi, quantomeno alla selezione del nostro party, in più occasioni, invitandoci a comprendere tutti i meccanismi previsti. Non tutti i personaggi però sono efficienti allo stesso modo e per questo Square Enix è venuta in soccorso espandendo il sistema di materia, introducendo un albero delle abilità un po’ curioso e spingendo tantissimo su abilità e mosse sinergiche. Da un lato abbiamo delle materia in grado di automatizzare alcune azioni dei nostri compagni (permettendogli di usare magie e abilità in libertà), dall’altro con il nuovo albero delle abilità otteniamo una serie di mosse elementali (le “Catene”, disponibili per tutti, a patto di sbloccarle) a costo MP 0, che consentono quindi di ingaggiare le debolezze nemiche anche con membri del team non specializzati nella magia o privi della giusta materia.

Centralissime sono le abilità sinergiche, attivabili in fase di parata e in grado di offrire numerose possibilità, quando nel campo degli attacchi a ripetizione e caricati, quando nell’esecuzione di contromosse contro attacchi elementali, e così via. In una parola? Cruciali: alcuni scontri con nemici o boss sono difficili da immaginare senza l’utilizzo delle abilità sinergiche come Controcolpo, che bloccano e respingono (col giusto tempismo) le magie e le mosse elementali. Le mosse sinergiche invece risultano devastanti nella potenza e utilissime nei buff/debuff e cure, ma richiedono di passare dall’attivazione di un tot di abilità in battaglia per riempire gli indicatori relativi e poterle così lanciare. Alcune sono bellissime da vedere (top Barret e Aerith in combo, con la giovane che ruba gli occhiali da sole al capo dell’Avalanche) e in alcune occasioni possono essere richiamate anche dai membri del party non attivi.

I miei scontri preferiti? Quelli con i Turks!

Nel complesso quindi al giocatore sono offerte ancora più possibilità per esprimersi, risultando in combattimenti davvero ricchi di azione fino a sfiorare il caos, introducendo anche alcuni elementi fondamentali per “equilibrare” le possibilità del cast chiamato in causa. Misura estrema ma comprensibile, visto che quasi mai si ha l’occasione di rimanere sul proprio terzetto preferito ma si deve, invece adattarsi alla bisogna. Rimane un mistero il perché esista ancora la materia Assess (se devo usarla sempre, per conoscere le debolezze e le dinamiche della tensione, perché non creare un’abilità simile e liberare uno spazio materia?), ma chiaramente si entra nel campo dei gusti e delle finezze.

Ho apprezzato tantissimo il sistema di apprendimento delle abilità legato alle singole armi (per capirci, come in Final Fantasy IX), che porta a dedicarsi a equipaggiamenti sulla carta meno efficaci per sbloccare tutte le opzioni d’accatto, che vengono acquisite definitivamente dopo un tot di esperienza. Inoltre con il passare del tempo di acquisiscono anche i tratti peculiari (detti Prerogative) delle armi (boost a statistiche, perks, etc.), da equipaggiare per personalizzare ancora di più il proprio stile di gioco. C’è poco da dire al battle system di Final Fantasy VII Rebirth, il cui forse (sottolineato due volte) unico rimpianto è da ritrovarsi nelle summon, che rimangono un po’ sacrificate visivamente – seppur utilissime e letali. Il sistema di crescita delle stesse, però, legato all’esplorazione del mondo, è un bel passo avanti.

Ogni arma, anche la più basilare, può donare qualcosa di utile all’esperienza a lungo termine.

Se il mondo è vasto e il gameplay divertente, è sicuramente encomiabile il lavoro svolto a livello puramente tecnico e artistico: Final Fantasy VII Rebirth incarna al 100% lo stile Square Enix che, imperterrito, ha traghettato il brand dall’ingresso nella generazione PS3 in poi. I modelli poligonali dei personaggi sono sempre strepitosi, danzando sul filo dell’uncanny valley per la loro capacità di essere realistici ma anche convenientemente fittizi, mentre l’estetica generale risulta ricercata, ricca, a tratti opulente non solo nel dare risalto ad architetture grandiose, ma anche nel tratteggiare limiti e mancanze. Ogni contesto è creato in modo certosino, pianificato al dettaglio, a tratti restituendo anche una certa sensazione di “freddezza” a causa della asfissiante competenza con cui tutto viene messo insieme.

L’espressione massima della capacità degli autori sta nel riuscire a offrire un insieme decisamente apprezzabile, in cui alla bisogna emergono picchi di qualità estrema, che si tratti di cutscene, boss fight o di sfoggiare la passione con cui si è voluto ricreare aree che nel titolo originale non avevano potuto godere di sufficiente attenzione (una su tutti? Junon). A questo gioco non gli si potrebbe dire niente a livello puramente visivo, salvo un piccolo appunto alla modalità performance, che attualmente impatta forse troppo sullo scaling dei modelli dei personaggi e sulla gestione del LOD delle ambientazioni, fin troppo aggressiva. O magari potremmo anche evidenziare una strana gestione dell’illuminazione globale nel passaggio da aree aperte e chiuse, anche in funzione della semplice rotazione della telecamera. Ma è già prevista una patch da D1 che punta proprio a risolvere queste incertezze, quindi c’è ottimismo in merito al risultato finale (che già ora, comunque, è estremamente godibile). In ogni caso la direzione artistica di livello sostiene e sosterà a lungo termine questo titolo per quel che concerne l’impatto agli occhi del giocatore.

E in questo contesto così efficiente, troviamo un altro punto di forza nella colonna sonora, ancora una volta sublime. Non è una sorpresa, chiaro, avendo avuto già un assaggio con Final Fantasy VII Remake, ma la potenza con cui la reinterpretazione delle tracce classiche riesce a trasportarti nel passato, rievocando immediatamente tutto il nostro bagaglio emotivo legato all’era PlayStation 1 (alimentato da ricordi, sogni e desideri nel corso degli anni successivi), è inaudita. Non è semplice arrivare a Nibelheim e non avere i brividi lungo la schiena al primo accenno del suo tema, così come dona una scarica di allegria scoprire come ogni area abbia un tema diverso per i Chocobo. Fedeltà, qualità e anche un po’ di ruffianeria tratteggiano una OST davvero riuscita oltre ogni aspettativa, raggiungendo punti altissimi come nel caso del nuovo pezzo “No Promises to Keep”.

Le emozioni generate da questa produzione sono tante, continue, tambureggianti. E naturalmente sono in gran parte legate alla trama, croce e delizia di questo nuovo progetto. Non mentirò: io sono tra coloro che hanno trovato Final Fantasy VII Remake estremamente manchevole sotto tanti punti di vista (situazioni diluite e ripetitive, ad esempio), con una particolare insofferenza verso tutte le scelte che hanno trasformato l’idea iniziale remake in una nuova branca narrativa complementare a tutto ciò che ha costellato il mondo di Final Fantasy VII a livello crossmediale negli ultimi 20 anni. Sephiroth che cita Advent Children, i Numen che preservano la timeline originale, le visioni di Aerith e gli insopportabili silenzi di “chi sa ma non vuole parlare”, la rievocazione di Zack alla luce di Crisis Core Reunion, il capitolo 18… che fatica, che fatica.

Non credo che qualcuno si sorprenderà quindi nello scoprire che le cose non sono cambiate in Final Fantasy VII Rebirth, anzi, sembra quasi che gli sceneggiatori si siano davvero divertiti a mettere in campo sempre più elementi utili ad alimentare confusione e dubbi, riuscendo però a offrire davvero poco in aggiunta a quanto di buono offre la narrativa creata a fine anni ’90. Perché quando si ripercorrono fedelmente le orme del titolo seminale, i risultati sono ottimi e si sfiora anche la commozione, mentre nel momento in cui vengono chiamati in causa in nuovi inserti di trama, si alternano indifferenza, confusione… magari anche qualche piacevole (seppur non travolgente) sorpresa. Un paio di momenti totalmente nuovi puntano all’effetto shock, ma la loro efficacia dipende molto dallo spettatore, dalla sua conoscenza del franchise e dalla voglia di scendere a compromessi per godere di qualcosa di inaspettato.

Da sottolineare come al tempo di Final Fantasy VII Remake si fosse parlato di finale “polarizzante”, in virtù del totale mistero in merito a quella che sarebbe potuta essere la storia da lì in avanti. Una speranza tradita, visto che tendenzialmente nella prima parte gli eventi vengono riportati sui binari originali, disinnescando il potenziale della scelta dell’epoca. Inoltre sembra proprio che l’esperienza non abbia giovato, considerando che anche in Rebirth gli ultimi capitoli prestano il fianco per via alcune libertà nella costruzione. Niente spoiler ovviamente (fidatevi, non sapete davvero nulla), ma al termine di questo secondo capitolo sarà inevitabile chiedersi se e quanto sia realmente utile e impattante tutto ciò che di nuovo è stato introdotto nei due giochi, e quanto invece sarebbe potuta essere apprezzabile una maggiore fedeltà generale. A livello personale, al momento, la sensazione è quella di un’enorme occasione persa a livello di preservazione del brand per le nuove generazioni.

Non hai idea di quanto, Barret

Non si può immaginare cosa ci attenderà nel terzo gioco, magari qualcosa di clamoroso, ma nel caso resterà comunque costruito su due titoli narrativamente molto controversi. Magari, invece, il nuovo universo è esattamente ciò di cui il pubblico moderno ha bisogno. Un pubblico che non si farà problemi nel saltare da una situazione all’altra senza adeguata costruzione, perché si farà bastare le storie dei personaggi e le loro relazioni, mettendo loro al centro piuttosto che coerenza e concretezza nella sceneggiatura (esattamente come già avvenuto in Crisis Core e in altre opere su cui hanno messo mano gli autori). In fondo l’obiettivo del party è chiaro, il nemico è identificato e il mistero (a patto di tollerare i non detti forzati e la confusione) sempre dietro l’angolo, ed è quindi evidente che molti giocatori potranno godersi questo viaggio con grande trasporto ed entusiasmo, nonostante tutto.

Senza troppi dubbi il miglior titolo di Square Enix nell’ultimo decennio o forse più.

Già, perché “nonostante tutto” Final Fantasy VII Rebirth rimane un titolo colossale, immenso, divertente, completo e appagante. Senza troppi dubbi il miglior titolo di Square Enix nell’ultimo decennio o forse più. Un gioco moderno in tanti aspetti ma che ruffianamente ci spedisce nel passato, grazie ai tanti elementi di completismo all’apparenza tediosi (ma sì, dai, un pochino inevitabilmente lo sono) che però si intrecciano in sempre nuovo materiale per il giocatore. Le missioni secondarie aprono a trame collaterali spesso molto interessanti, così come la raccolta dei “Vestigi”, all’apparenza una sciocchezza, apre a nuove sfide e all’ingresso di figure amate da chi segue il franchise. Positiva la gestione del completamento dei contenuti “post-game”, grazie all’unlock della selezione capitoli e alla possibilità di preservare o meno, in differenti gradi, quanto già sbloccato/ottenuto.

Per non parlare di Queen’s Blood, il gioco di carte che punta a scalzare Triple Triad dall’immaginario generale grazie a un gameplay letteralmente fuori di testa per potenziale e possibilità, che parte piano e poi sovrappone meccaniche che Magic e Yu-Gi-Oh! levatevi! Senza contare che, anche qui, ci attende qualche sorpresa proseguendo con le battaglie.

Al netto di tutto questo, c’è solo da chiedersi se questa nuova produzione potrà mai avere, su questa generazione, un impatto anche solo lontanamente paragonabile all’opera del 1997.

Conclusioni

Final Fantasy VII Rebirth è indiscutibilmente un gioco eccezionale, in grado di eccellere in ogni sua parte, a cominciare dall’aspetto tecnico per arrivare al gameplay, sorprendendo per la capacità e l’efficienza con cui si è riusciti a ricostruire il concetto di esplorazione della mappa, iconica nei titoli classici, in ottica moderna. È una produzione che ha davvero tanto per tutti, giocatori vecchi e nuovi, riuscendo a catalizzare l’attenzione del pubblico con espedienti curati proprio per solleticare ricordi e al tempo stesso proporre nuove situazioni impattanti.

A voler fare un paragone diretto con il predecessore, ci troviamo tra le mani un titolo diverse spanne superiore: più vasto, più ricco, più completo, più aperto, più divertente e più bello, una base da cui sarà impossibile prescindere nella realizzazione del prossimo episodio.

L’entusiasmo va però a frenarsi quando si chiama in causa la narrativa, che proprio come nel titolo precedente mette di fronte a situazioni non propriamente semplici da gestire e metabolizzare, non solo in relazione agli eventi del Final Fantasy VII originale, ma proprio in ottica di un ipotetico obiettivo finale e della coerenza generale. Qualcuno digerirà molto male le fasi finali dell’avventura, altri probabilmente scalpiteranno di entusiasmo.

Il suggerimento è quindi quello di aprire la mente, non fasciarsi la testa e provare a godersi l’esperienza così come viene. Perché lo spettro di una storia un po’ sconclusionata non può e non deve privarci di uno dei migliori JRPG di questa generazione.

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