Haven recensione

Haven – Recensione

Haven è la quasi risoluzione di una storia d’amore osteggiata da coloro che ai due amanti son vicini, una sorta di Romeo e Giulietta spaziale nel quale però non è morto nessuno, e ragazzo e ragazza sono riusciti a scappare per vivere il loro rapporto. Quel “quasi” indica la situazione di partenza del titolo di The Game Bakers, con i due che si ritrovano su di un pianeta in apparenza disabitato: non ne conosciamo le storie personali, né il background legato al loro mondo di origine. Sono vuoti, questi, che si andranno a riempire più in là, sempre e solo attraverso dialoghi, andando a comporre un intreccio generale non particolarmente strutturato e tutto sommato prevedibile. Quello che ci viene detto subito è che i due sono fuggiti da una distopia nella quale il proprio partner viene stabilito da un efficientissimo sistema e nella quale l’amore non è un fattore.

Quello che potrebbe quindi essere il finale di un altro gioco qui è l’inizio, con Kay e Yu che già hanno mosso i primi passi sul pianeta che ora li nasconde, ma che solo con l’intervento del giocatore ne iniziano la vera e propria esplorazione. Ed è come un gioco di esplorazione che Haven si presenta, chiedendo di reperire in giro per la mappa pezzi di ricambio per l’astronave dei due, gravemente danneggiata da una scossa tellurica. Inizialmente sembra tutto molto intuitivo, veloce e quasi rilassante, perché gli amanti saettano a pochissimi metri dal terreno grazie ai loro tecnologici stivali, ma emergono prestissimo i limiti di una componente minata da inutilmente complicate scelte di game design.

Haven screenshot 1

Lascia esterrefatti, a dir poco, l’impossibilità di muovere la telecamera mentre ci si muove. Meglio, lo si può fare quando si cammina, ma non si cammina mai, si va troppo lenti. Quando si vola, in sostanza, non si può fare una panoramica di cosa ci sia attorno, capire dove andare, avere un’idea più chiara della zona nella quale ci si trova. Per farlo bisogna fermarsi, dare un’occhiata e ripartire, il che è chiaramente una martellata al ritmo e alla coerenza di un gioco che, lo ricordiamo, chiede proprio di scovare e reperire oggetti in giro per un pianeta. Pare che la possibilità di gestire la telecamera verrà implementata in futuro, ma allo stato attuale non c’è.

L’altra cervellotica scelta è il legare la libertà di movimento alla presenza di flussi di energia. Si arriva in prossimità del punto di partenza di uno di questi ed eccolo dipanarsi, seguirlo permette di raggiungere zone altrimenti inaccessibili. Si tratta di una meccanica implementata male e strabusata, perché va bene per superare profondi canyon, ma quando ci si ritrova a dover cercare il punto di origine di un flusso per salire su di un rilievo alto un paio di metri, e non è detto nemmeno che sia nelle immediate vicinanze o che sia quello giusto (il percorso del flusso non è visibile), il tedio sale incontrastabile.

Haven sembra veramente impegnarsi nel non voler far le cose semplici, nel mettere costantemente a dura prova la pazienza del giocatore

Haven sembra veramente impegnarsi nel non voler far le cose semplici, nel mettere costantemente a dura prova la pazienza del giocatore. Prova a unire ogni meccanica a un’altra, ma nel farlo aggiunge solo ampollosa complessità. I frammenti del pianeta sono ricoperti da una sorta di ruggine, è possibile immagazzinarla volandoci sopra e i suoi pezzi sono fondamentali per riparare l’astronave. Per farlo però occorre avere dell’energia a disposizione e tale energia la si ottiene solo volando sui flussi. Accadrà sovente di esserne a corto (perché la si usa anche per altre evenienze), percorrere aree invase dalla ruggine senza possibilità né di raccoglierla né di rimpinguare l’energia, perché magari di flussi non ve ne sono o ve ne sono solo un paio, nascosti. E auguri a trovarli, non potendo ruotare a piacimento la telecamera. Si invocano divinità sconosciute, poi, quando i flussi vanno in una certa direzione e la ruggine in un’altra, costringendo a una “doppia passata”, una per ottenere energia, un’altra per la ruggine.

Haven screenshot 2

Volessimo descrivere ogni singola meccanica di Haven dovremmo dilungarci ancora a lungo, talmente ne è ripieno, ma il fatto che si stia parlando di un gioco da una dozzina di ore e non di una produzione di ben altra portata fa capire subito quanto ciò lo appesantisca. Dalla sua stucchevole complessità, nella quale sono infilati abbastanza a caso elementi survival (occorre cucinare, mangiare e dormire, ma praticamente non si viene puniti se non lo si fa), combattimenti JRPG con idee interessanti ma implementate male e altro ancora, viene affossato.

Ne risulta mortificata la sua cosa migliore, il saper raccontare un rapporto giovane ma già stabile, connotato allo stesso tempo sia da un fresco entusiasmo che dalla profonda conoscenza l’uno dell’altro. I dialoghi tra il mite e intelligente Kay e la genuina e vulcanica Yu e le piccole situazioni che ne raccontano la quotidianità a bordo dell’astronave funzionano, restituiscono un’immagine credibile di un amore, in maniera ordinaria e senza quella delicatezza e quella cura che ne avrebbero amplificato la portata empatica, ma comunque efficace.

Conclusioni

Nel cercare di fare molte cose, Haven finisce per non farne bene nessuna, fatta eccezione solo per la messa in scena del rapporto tra i due amanti. Crolla sotto il peso di meccaniche di gioco cervellotiche e ripetitive, che ne rendono la semplice fruizione un vero e proprio sforzo, e il tedio che si prova cercando di venire a patti con la sua astrusità è amplificato da una certa banalità anche dal punto di vista tecnico, con ambientazioni ripetitive e una colonna sonora che non ritrova mai il clamoroso picco del brano di apertura.