Quante volte vi è capitato di consumare insulti e monetine in sala giochi o al bar con, anzi, contro uno specifico gioco, magari proprio contro Metal Slug, che il 19 aprile ha ufficialmente compiuto venticinque anni? Tante, scommetto. Non ho l’età giusta per dire di essere nata nel periodo d’oro dei cabinati, o degli arcade se preferite, ma ho avuto il tempo di godermeli durante le mie estati. Andavo in vacanza in questo piccolo paesino della Liguria, composto praticamente dalla piazza e… dalla piazza. La vita era tutta lì, racchiusa in un cerchio fatto di edicola, emporio, tabaccaio, ristoranti, un po’ più staccato un bellissimo campo da tennis, ma soprattutto i bar.
Li ho tenuti per ultimi non perché avessi la passione per i bar in sé, ero una bambina e al massimo potevo fare bisboccia con il succo alla pera. Semplicemente, lo stabilimento “rivale” (sì, c’era rivalità tra i bambini delle due strutture, con tanto di guerre sui canotti, ma questa è un’altra storia) era l’El Dorato di chiunque avesse una minima passione per i videogiochi. Contava ben tre cabinati e un flipper.
Non sempre erano tutti funzionanti, a volte ci si doveva accontentare di aspettare con pazienza che l’unico a disposizione venisse liberato, altre invece venivano cambiati i giochi e poteva capitare quello che proprio non ti piaceva. Quando però era il tuo momento fortunato, potevi trovarti davanti due opzioni: il cabinato con una collezione di giochi tra i più svariati, oppure, e lì la situazione si faceva affollata, il cabinato di Metal Slug.
Immaginate, in un paesino che aveva da offrire solo il mare, una spiaggia di sassi (non ho idea di come sia fare una vacanza sulla sabbia) e occasionali guerre tra bande, sui cui Ferenc Molnár avrebbe potuto costruire la sua fortuna, quei giganteschi cabinati erano capaci di trasportarti in un altro mondo erano come la luce per le falene. Ogni momento era buono per cercare di sgattaiolare via – credendo poi di non essere visti – e anche solo andare a vedere altri giocare, perché a otto, nove o dieci anni non sei certo indipendente al punto da spendere soldi che non hai.
In questo, per fortuna i miei genitori erano molto permissivi e sono abbastanza sicura di aver contribuito notevolmente alle casse del “bar rivale”, controllando Marco e la sua inconfondibile fossetta sul mento mentre mi aprivo la strada in mezzo a soldati, mummie, zombi, spesso a cavallo di uno struzzo, pilotando un mecha e chi più ne ha ne metta. Lo facevo a volte da sola ma, molto spesso, assieme a mio fratello, un amichetto o persino un perfetto sconosciuto perché Metal Slug era in grado di abbattere qualsiasi barriera e unirci tutti nella sconfitta.
Sì, lo scrivo di nuovo per sicurezza: nella sconfitta. Tutte le mie duecento o cinquecento lire non sono bastate ad arrivare ai titoli di coda del gioco, di qualunque capitolo si trattasse, e a un certo punto si era persino giunti a fare una stima abbastanza accurata di dove avremmo gettato la spugna – per mancanza di fondi – in base all’andamento di ogni singolo livello e alla quantità di monete spese.
Dopo vari cambi di direzione, il capitolo fisso del cabinato rimase Metal Slug 3 e lì fu guerra aperta: divenne il mio preferito, vuoi per il livello dedicato agli zombi che faceva molto Resident Evil (a proposito, se volete prenotare Resident Evil Village date un’occhiata allo shop di GameStopZing), o delle mummie che invece mi riportava a Tomb Raider: The Last Revelation, ma soprattutto divenne la mia nemesi.
Dovevo averla vinta io, era come se ogni giorno, ogni estate da quel 2000, fosse l’ultima: un po’ perché stavo crescendo, ed eventuali paghette le distribuivo altrove, un po’ perché la magia del cabinato stava andando a scemare anche in quel piccolo paesino della Liguria e troppo spesso, nel passare accanto al bar, li trovavo spenti – tranne il flipper, quello era sempre attivo.
Era una lotta d’orgoglio e di tempo, come inseguire un divertimento che mi sfuggiva sempre più dalle dita e rimandava a quegli anni in cui prima ci si scazzottava sui canotti, o per strada con i gavettoni, e poi si faceva gruppo ai cabinati senza più curarsi della “bandiera”: io sono di questo stabilimento, tu dell’altro, ma importa? C’è Metal Slug da finire.
Vorrei fosse una storia a lieto fine ma non lo è. Non sono mai riuscita a completare l’ultima missione e solo anni dopo, con l’uscita della Metal Slug Anthology su PlayStation 2, ho potuto prendermi l’agognata rivincita. Una vittoria che non aveva lo stesso sapore, perché il gioco ora era tuo per sempre e quel “Insert Coin” sullo schermo era solo un omaggio; potevi continuare la partita quante volte volevi, essere più sconsiderato nel giocare, persino dire “fa niente, riprovo domani” perché sapevi che nessuno te l’avrebbe portato via.
È stata un po’ una vittoria di Pirro, la mia, una di quelle che mi ha visto trionfante ma sconfitta; ed è il mio modo per omaggiare i venticinque anni di una serie che adoro, tanto è passato dal 19 aprile del 1996 quando fu introdotto il primissimo cabinato della serie, di cui aspetto un nuovo capitolo capace di riportarmi a quei momenti, in quel bar. Perché tra un Heavy Machine Gun e un Thank You! con Metal Slug è sempre guerra aperta. E va benissimo così.
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