Facciamo un breve viaggio nella storia del genere Survival Horror…
Con la fine del 2012 abbiamo praticamente assistito a 30 anni di Survival Horror, un genere che nonostante l’età e le controverse evoluzioni sembra ancora attrarre una buona fetta del pubblico di videogiocatori.
Le mie sono personali riflessioni su un genere di cui sono molto appassionato. Ho cercato di descrivere al meglio ciò che secondo me ha attratto di più del genere, cosa ne ha determinato il successo e la sua relativa evoluzione fino ai giorni nostri.
Ma cos’è il Survival Horror?
Come suggerisce il nome stesso, è un genere che dovrebbe simulare una sensazione di tensione e paura portando il giocatore in uno stato psicologico di timore costante, in cui vengano messe alla prova le capacità di autocontrollo nelle diverse circostanze proposte. Fattori come le musiche, le ambientazioni e l’arsenale a disposizione sono determinanti al fine di stimolare il nostro sistema nervoso nell’immedesimarci il più possibile in quello che arriviamo quasi a percepire come un pericolo reale. Esattamente come nella visione di un film horror degno di tale nome, l’intrattenimento si basa sul portarci in uno stato di stress e di angoscia con la differenza che anziché essere spettatori impassibili sarà nostra responsabilità decidere il corso degli eventi. Ovviamente il classico Game Over sarà, nella maggior parte dei casi, determinato dalla morte del personaggio a nostra disposizione, portandoci a un certo livello di frustrazione e allo stesso tempo di liberazione.
Perché il Survival Horror ha avuto successo?
Il Survival Horror è un genere che nonostante la competizione è riuscito ad affermarsi nel corso degli anni, anche se raggiunge il suo vero trionfo nel 1996. Chiedersi perché abbia avuto successo è un pò come chiedersi perché la gente sia attratta dal noir, dal thriller o da quello che nei primi anni del cinema veniva definito scary. Volendo azzardare un analisi profana, simulare una situazione in cui si è in pericolo di vita corrisponde a quella ricerca di adrenalina che troviamo in parte nei roller coaster o nel bungee jumping, ovviamente in misura molto più ridotta seppur più sicura e anche più accessibile dal divano di casa nostra. E’ un intrattenimento che non tutti condividono o ricercano se non saltuariamente, e con tali premesse questo genere viene scartato da un audience più sensibile e impressionabile. Nonostante ciò il Survival Horror ha scritto la sua pagina di storia nel mondo dei videogiochi.
Parlando di storia, com’è cominciato?
Questo termine fu coniato con l’uscita del primo Biohazard ( Resident Evil nel mondo occidentale) nel 1996, anche se i suoi antenati possono essere ricercati già negli anni 80, in particolare con Sweet Home (1989), che tuttavia utilizzava ancora un sistema più legato ai Role Playing Game. Il filo invisibile seppur indissolubile che collega cinema e videogiochi all’epoca ha palesemente influenzato la nascita di questo genere che vede il suo esordio con la scelta di uno specifico avversario: gli zombie.
Tale categoria di creature nata dai miti vodoo dell’arcipelago Haitiano sviluppano il semplice concetto di resurrezione legato a una perdita di intelligenza o comunque di coscienza di sé. A rendere famosa l’interpretazione di questa figura come mostri carnivori in grado di trasformare le vittime in loro simili fu George Romero, regista che con il film Night of the Living Dead (1968) segnò l’inizio di un genere cinematografico tuttora in voga, basti pensare all’assonanza della serie The Walking Dead (2010).
Con il tempo la prerogativa di avere creature sovrannaturali come nemici all’interno del gioco di sopravvivenza portò a numerosi e fantasiosi sviluppi che hanno creato nuove figure nell’immaginario collettivo, sia a livello esoterico che fantascientifico, anche se l’immagine del morto vivente sembra essere la più apprezzata dal pubblico ancora oggi.
Cos’altro ha ereditato questa categoria dal grande schermo?
Potrà sembrare banale, ma un ruolo essenziale è svolto dalle inquadrature e dai giochi di ombre e luci. I primi Survival Horror molto spesso presentavano inquadrature fisse che, seppur rendessero il gameplay legnoso, mostravano quanto efficace potesse essere la presentazione di una situazione o un luogo da una determinata prospettiva, proprio come se un regista avesse ricercato l’angolazione migliore per presentare una scena.
Un altro espediente per rendere la telecamera più impressionabile è la mancanza di luminosità. Fatal Frame (2001) e Silent Hill (1999) sono stati tra i più grandi utilizzatori di questa tecnica. D’altronde la nostra paura primordiale e che risale all’infanzia è quella del buio: muoversi in un ambiente che non potrai illuminare e sapere della presenza di un nemico nascosto all’interno dell’oscurità è una sensazione che abbiamo provato anche nella nostra esperienza di vita reale e che rivive prepotentemente all’interno di un gioco che sappia ben riprodurla.
Da non sottovalutare è la soundtrack. Le musiche svolgono un ruolo importante e contribuiscono in maniera esponenziale a suggestionare le nostre sensazioni. Vivere un momento di tensione con l’accompagnamento di un motivo adeguato provoca in noi brividi che altrimenti non vivremmo. Mentre le prime platforms avevano un apparato sonoro abbastanza rudimentale fatto di suoni elettronici che difficilmente riuscivano a comunicare sensazioni forti, con l’avvento della Playstation 1 (1994) c’è stato un enorme passo avanti in questo senso e i risultati li sperimentiamo ancora oggi in qualunque tipologia di videogioco. Basti pensare che il primo Biohazard difficilmente presentava stanze oscure, eppure lo stato di tensione era più che palpabile.
Un’ultima cosa che è stata ereditata, e che probabilmente è la più importante, è l’ambientazione.
La scelta di un enorme struttura da esplorare è ricorrente e porta un architettura molto spesso comune: corridoi claustrofobici e ambienti chiusi, stanze fatiscenti e in decadenza sono tutti temi molto cari agli horror quando si tratta di mettere in scena zombie e spettri. Per fare alcuni esempi, l’Alchemilla Hospital di Silent Hill o la magione di Derceto in Alone in the Dark (1992) seguono palesemente questo schema. D’altronde la scelta di ambientazioni simili porta a offrire molto spazio ai programmatori per mettere in scena quanti più cliché possibili del mondo dell’horror, oltre che ad aver bisogno di spazio per ragioni di trama. Ritrovarsi in stanze strette e anguste in cui muoversi rende più difficile evitare i nemici ma lo stesso si verifica anche solo per combatterli. Lo scopo è quello di stimolare un senso di panico, di portare a compiere errori, a sprecare munizioni e a subire danni inutili, oltre che aggiungere un alone di mistero e pericolo in ogni singolo angolo.
Ci sono comunque elementi originali nei videogiochi che non sono stati ereditati dal grande schermo?
Sebbene la trama si possa sviluppare con intrecci e tempistiche molto simili, lo scorrere più lento del gameplay rispetto alla recitazione ha dato lo spunto per inserire alcuni elementi che potremmo definire esclusivi dell’horror su console e che in un film sarebbe fuori luogo o non avrebbero comunque ragione di esistere. La prima sono le saveroom, ovvero le stanze di salvataggio. Rappresentano di solito l’unico luogo sicuro privo di nemici e il loro raggiungimento spesso segnala un significativo progresso all’interno del gioco. Sono il classico sospiro di sollievo quando si esplora una nuova area si può constatare che la stanza probabilmente non conterrà alcun pericolo.
La seconda sono i testi. E’ una caratteristica comune dei giochi horror in particolare quella di disseminare documenti vocali e non, facilmente ritrovabili durante l’esplorazione. Questi molto spesso contengono indizi e aiuti per proseguire nel gioco, ma la loro funzione principale resta probabilmente quella di aiutare il giocatore a immergersi nell’atmosfera: raccogliere le testimonianze degli avvenimenti antecedenti al disastro in cui ci si ritrova o registrare gli ultimi istanti di vita di chi ha preceduto il protagonista hanno un effetto più che efficace in questo senso. L’inquietudine e il mistero passano anche per questi elementi che non dovrebbero mai mancare e che hanno il pregio di aumentare lo stato di nervosismo anche quando altre caratteristiche del gioco non sortiscono gli effetti sperati dai programmatori.
Come si costruisce quindi un Survival Horror?
Trasportare un esperienza cinematografica in un videogioco non è semplice. Ad esempio, laddove gli attori si muovono in un copione già scritto, i videogiocatori devono avere la possibilità di fare delle scelte, esplorare e commettere errori. Soprattutto, devono essere costretti a mettersi in situazioni di pericolo, ad affrontare quell’antro oscuro e ignoto che risveglia il nostro istinto infantile di volervi scappare e non tornarci mai più.
Una delle tecniche per offrire questo pretesto è di inserire il personaggio all’interno di un ambientazione limitatamente esplorabile in cui per avanzare nel gioco è indispensabile risolvere degli enigmi. A volte si tratta della semplice ricerca di chiavi per poter accedere a nuove aree ma in molte serie, e fin dagli inizi, la tecnica si è tradotta nella presenza di veri e propri giochi di logica in cui l’abilità di combattente serve a poco.
Gli esempi più celebri sono Biohazard, Silent Hill, Alone in the Dark, Fatal Frame e tanti altri. Tutti quanti condividono un comune denominatore che ha reso questa esperienza più avvincente e complessa tramite l’inserimento degli enigmi.
La prima è il backtracking, ovvero l’obbligo del giocatore a tornare in luoghi già esplorati per i motivi più vari, dall’aver acquisito un oggetto chiave per proseguire nel gioco alla semplice ricerca di indizi che si sono tralasciati. Questa caratteristica raggiunge vari scopi che non sono solo al fine di rendere i rompicapo più difficili da risolvere, ma anche per aumentare lo stato di tensione: un’area ritenuta sicura in futuro potrebbe non esserla più, celare nuove trappole o banalmente aver introdotto nuovi effetti che, seppur innocui, potrebbero far saltar dalla sedia il giocatore.
La seconda caratteristica degli enigmi è la loro oddity, la loro stranezza, che sfugge in parte alle logiche del mondo reale. E’ una peculiarità molto presente laddove gli eventi sono stravolti dal sovrannaturale. Si tratta di dover compiere azioni, ricercare oggetti e interpretare simbolismi che nulla hanno a che vedere con quello che l’intuito ci suggerisce a priori. In un certo senso, anche questo contribuisce ad aumentare lo stato di tensione perché la risoluzione di un enigma può portare a conseguenze totalmente sconosciute e irrazionali.
Recentemente queste due tecniche sono quasi del tutto scomparse o comunque rimpiazzate da una più elementare e meno suggestiva: i goal, i traguardi da raggiungere. Il gioco in questo caso si sviluppa in linea retta, gli enigmi sono quasi del tutto assenti o comunque la loro possibilità di risoluzione viene offerta nella stanza stessa dove sono presenti. Il percorso da seguire è chiaro e lineare e l’unica difficoltà è rappresentata solo dal farsi strada contro orde di nemici.
Va bene risolvere puzzles ed enigmi, ma la sopravvivenza?
Il fattore sopravvivenza, dove non si tratta di scampare a trappole mortali, è nei nemici che vengono offerti. Il design di un nemico è essenziale. Esso deve incutere timore, deve creare uno stato di nervosismo e inquietudine al solo guardarlo. Deve spingerci a voler evitare qualsiasi contatto con esso a ogni costo, non solo allo scopo di sopravvivere all’interno del gioco ma per un fattore di puro istinto. Sebbene in alcuni Survival Horror non sia data la possibilità di difendersi, è più diffusa la scuola di pensiero che i giocatori debbano avere la facoltà di combattere. E’ un pò la rivalsa di ciò che spesso accade nei film, dove gli attori vengono sopraffatti dalla paura o dalla loro inettitudine e restano vittime di una situazione di pericolo quando avrebbero potuto salvarsi con determinate scelte.
L’unica eccezione agli standard, rara ma con risvolti efficaci, è un nemico invulnerabile o quasi in grado di inseguire e tormentare il personaggio lungo la sua missione o comunque per parte di essa. E’ il caso ben noto e peculiare dei Subordinates in Clock Tower (1995) o quelli più famosi di Pyramid Head (Silent Hill 2, 2001) e Nemesis (Biohazard 3, 1999). La consapevolezza di avere un avversario irriducibile alle calcagna crea una sensazione di smarrimento e panico ad ogni passo, in cui si finisce con il girovagare senza meta pur di allontanarsi dal pericolo, e conseguentemente commettere l’errore di chiudersi in un angolo privo di altre vie di fuga o di cadere vittima degli altri mostri più comuni.
La sopravvivenza all’interno di questo genere passa anche per un altro fattore essenziale: le risorse. Definiamo risorse tutto ciò che può essere raccolto e che fa parte del nostro inventario, dalle munizioni alle sostanze curative. Se si avesse la possibilità di utilizzare in maniera infinita le risorse, la componente Survival, e di conseguenza quella Horror, verrebbe persa quasi immediatamente. Anche per la gestione di questa componente, nonostante le differenze di gioco in gioco, si trovano caratteristiche comuni e in un certo senso obbligate.
La prima è l’efficacia delle armi melee, quelle corpo a corpo. In alcuni giochi come Rule of Rose (2006) o Silent Hill: The Room (2004) l’uso di questo tipo di armi è fortemente incoraggiato, se non esclusivo. Il combattimento offerto in questo modo si rende molto più temerario essendo costretti ad avvicinarsi al pericolo per affrontarlo. Lo stato di tensione aumenta proprio in proporzione al fatto di dover entrare in un contatto più diretto con ciò che è la fonte di paura. La componente Survival in questo caso si sviluppa intorno al sangue freddo e l’abilità del giocatore nell’aver assimilato per esperienza il metodo migliore di sfruttare il proprio arsenale e di muoversi intorno ai nemici, in alternativa all’opzione tutt’altro che disonorevole della fuga.
La seconda, e più diffusa, è la gestione delle armi da fuoco. Avere a disposizione un arma del genere offre un senso di sicurezza che viene però minato dal numero limitato di munizioni. Molto spesso il numero di nemici presenti è nettamente superiore alla possibilità reale di ucciderne, anche trovando tutte le risorse sparse per il gioco. Il senso di precarietà e l’attenzione e cura nel gestire le munizioni, nell’utilizzarle solo sui nemici obbligati o sulla tipologia giusta, sono notoriamente le caratteristiche in cui emerge il Survival Horror.
Quest’ultima caratteristica delle armi da fuoco ha però subito una netta rottura nel corso della sua storia. Il gioco che in un certo senso ha segnato la linea di confine fra un numero contato di munizioni e la possibilità reale e pratica di far piazza pulita dei propri avversari è stato Biohazard 4 (2005) in cui compare per la prima volta in un Survival Horror il fatto che i nemici uccisi lascino cadere a terra munizioni, oggetti curativi e quant’altro, espediente spesso ripreso e ancora oggi utilizzato. Il motivo di tale scelta può esser dovuto al fatto che il genere stava ristagnando in meccaniche ripetitive e che non offrivano di fatto nulla di nuovo in termini di gameplay. La novità è però costata molto in termini di classicismo, prezzo probabilmente da pagare per le esigenze del mercato che trovavano ormai consenso solo nei suoi clienti di nicchia.
Il Survival Horror è migliorato con le console di nuova generazione?
E’ una domanda complessa a cui rispondere, e ognuno può avere una propria opinione a proposito. Il dato oggettivo è che le saghe più famose, tra cui la capostipite stessa Biohazard, hanno subito notevoli mutazioni, e in molti casi peggioramenti. Abbiamo già parlato di come l’esigenza di mercato possa influenzare sullo sviluppo di un gioco. La maggior parte del pubblico è soprattutto attratto dai First Person Shooter, il genere che probabilmente trova più consenso, e il Survival Horror è palesemente mutato verso questa direzione. La mancanza di munizioni è un evento raro che si verifichi e non viene assolutamente incoraggiato dai produttori che vogliono quanta più azione è possibile. Il ritmo è diventato frenetico e i mostri numerosi, con la conseguenza che non c’è il tempo di costruire quello stato di tensione che ha reso caratteristico il genere nei suoi primi anni. Per quanto un antro possa essere oscuro e macabro, l’effetto sarà sempre inferiore ed edulcorato sapendo che qualunque creatura rigetti potrà essere tenuta a bada.
Cosa è rimasto dello spirito originale oggi?
Sono pochi i giochi che mi sentirei di citare per aver mantenuto il loro spirito intatto. Molti titoli che portano il nome di saghe storiche hanno se non cambiato, sicuramente in parte abbandonato il genere. Altri, come Silent Hill, pur mantenendo il proprio stile, non sono riusciti a rinnovarsi e ad evolversi e si sostengono su un nome che ipoteca il successo del passato. Il cambiamento fondamentale si ha avuto perché si è persa l’idea di dover sopravvivere a un ambiente ostile dando fondo alle proprie risorse, e si è passati allo spirito di pianificazione di una guerriglia per dominare molti avversari in quello che è un vero e proprio one-man show da film d’azione. L’eroismo del protagonista che nonostante le avversità riusciva a guadagnarsi il riposo e la ricompensa di essere scampato a un incubo donava un senso di appagamento al giocatore stesso e si aveva la sensazione aver compiuto una fuga reale da un incubo, quasi a guardarsi bene dal rivivere l’esperienza e cominciare una nuova partita. Questo tipo di soddisfazione è stata sostituita con la piena consapevolezza di aver conquistato il gioco e aver domato i suoi avversari, i quali vengono visti sempre di più come semplice carne da macello. E’ un pò come se i ruoli si fossero invertiti: se l’intelligenza artificiale potesse provare paura, il Survival Horror verrebbe vissuto probabilmente più da quest’ultima che dall’essere umano di fronte allo schermo.
E’ doveroso tuttavia fare delle eccezioni. Giochi come Dead Space (2008) e ZombieU (2012) hanno cercato di conciliare la nuova tendenza con i canoni classici del passato in richiami piuttosto evidenti e ridondanti (come ammesso dallo stesso staff di produzione), tradotti però anche in nuovi terreni poco esplorati, come la Science Fiction.
Consapevoli che la maggior parte del pubblico non è abbastanza matura per accettare di essere sconfitta dal gioco, vengono impostati diversi livelli di difficoltà in modo da dare a tutti la possibilità di esplorare a pieno il mondo creato. Sebbene gli enigmi siano praticamente assenti o comunque a un livello elementare di risoluzione, lo spirito survival può essere ritrovato nella sfida offerta dai livelli più estremi messi a disposizione, del tutto facoltativi e con l’unico incentivo di aumentare il punteggio legato al proprio ID. E’ comunque una peculiarità che viene apprezzata ove presente anche se probabilmente poco sfruttata dall’utenza.
In conclusione, per il momento la strada scelta dai produttori che devono pure assicurare un certo incasso al prodotto sembra quella del compromesso. E se da un lato stiamo assistendo al declino di alcune saghe che hanno ormai superato e perduto le loro età dell’oro, allo stesso tempo ci può essere fiducia che nuove opportunità e nuove forme di intrattenimento verranno portate da titoli emergenti.
D’altro canto sarebbe un’ironia insopportabile se il Survival Horror non riuscisse a sopravvivere, no?
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