Uno spot non può essere un momento di analisi
Forse prendiamo i The Game Awards troppo sul serio. Questo evento che in linea teorica celebra i videogiochi, che in qualche modo innalza idealmente il nostro hobby al pari del cinema e alle altre e più riconosciute forme d’arte, l’abbiamo forse preso troppo sul personale. Come se la completa e definitiva emancipazione del medium passasse proprio da lì, dalla legittimità di uno show che, sin dalla sua prima edizione, non ha mai celato le sue declinazioni promozionali e commerciali.
Fatichiamo ad accettare che l’Oscar dei videogiochi, in fin dei conti, non è mai stato un momento di confronto, di bilanci, di prospettive. Edizione dopo edizione non sono mancate polemiche, rammarichi, rimproveri fondati sostanzialmente sul nulla, a ben vedere, se non sulla speranza che un giorno lo spettacolo di Geoff Keighley si dotasse di spessore, sostanza, persino coraggio.
Non si è mai parlato delle difficoltà di un settore che ormai da due anni va avanti a suon di licenziamenti e studi che chiudono. Non si è mai affrontata la questione del crunch time. Non un accenno serio e ponderato sul tema dell’inclusività nei videogiochi. Nella migliore delle ipotesi si è dedicato uno specchietto estremamente edulcorato e superficiale a queste questioni. Nella peggiore, che è poi anche la pratica comune, si è glissato totalmente.
Anche lo spazio dedicato ai vincitori è minimo. C’è giusto il tempo dei ringraziamenti, mentre incalza già il tappeto musicale del successivo slot, un segnale sonoro che a suo modo è anche la cartina tornasole dell’intero evento: non si celebra tanto il passato, i giochi già pubblicati che vengono premiati, quanto il futuro, gli annunci, le world premiere, i trailer pagati a cifre vertiginose.
La colpa è tutta di Geoff Keighley? Non del tutto.
Ha quindi senso lamentarsi e gridare allo scandalo al termine di ogni singola edizione dei The Game Awards? Da molti punti di vista no
Il suo show è costoso, frutto di un lavoro di networking per nulla semplice. Più di ogni altra cosa, ricalca perfettamente il consumo bulimico a cui siamo abituati oggigiorno, una contemporaneità in cui siamo sommersi da novità, da sconti, da giochi inclusi nei servizi di abbonamento. Non c’è tempo, spesso non c’è voglia, di soffermarsi, di fare un’analisi a mente fredda.
Lo stesso pubblico, infondo, spinge perché sia così. C’è un’ossessione quasi maniacale per l’ultima notizia, per la recensione che venga pubblicata il prima possibile, per video divulgativi da visionare uno dopo l’altro, a patto che non durino troppo, altrimenti si skippa al successivo.
Il problema delle nomination, se Shadow of the Erdtree sia o non sia un legittimo candidato al premio di gioco dell’anno nello specifico, è solo l’ultimo dei problemi di uno show che certifica la mercificazione estrema del videogioco.
Di per sé ciò non costituirebbe un problema. I The Game Awards sono stati concepiti così e difficilmente cambieranno approccio. Almeno non fino a quando gli sponsor saranno così fondamentali nell’organizzazione, progettazione e messa in scena dello show.
Il nodo viene al pettine non appena ci si accorge che le occasioni di messa in discussione siano ormai poche e spesso per nulla corali. Sempre più publisher organizzano i loro eventi in forma digitale dove tutto è diretto e predeterminato nei minimi dettagli. La Summer Game Fest, non a caso, nasce dagli stessi presupposti dei The Game Awards. Gli editori di qualsiasi tipo hanno ormai perso il loro ruolo di preminenza nel discorso critico e analitico, a favore di content creator che spesso mescolano contenuti validi e di libero pensiero, ad altri sponsorizzati. Realtà come la GDC, che godono di una copertura mondiale, sono ormai una pericolosa ed inquietante minoranza.
Ha quindi senso lamentarsi e gridare allo scandalo al termine di ogni singola edizione dei The Game Awards? Da molti punti di vista no. Conservare uno spirito critico è fondamentale, ma in certi casi è meglio scegliersi le giuste battaglie per cui lottare. Lo show di Keighley è appunto uno spettacolo. Un’occasione per rievocare alcune eccellenze dell’anno videoludico appena trascorso e per proiettarsi in un futuro pieno di hype, si spera.
Ma le considerazioni di matrice critica e analitica dovrebbero trovare nuovi sfoghi e capri espiatori, che pur esistono. Da spettatori, da fruitori di contenuti, da lettori dovremmo iniziare a comprendere appieno il valore delle nostre scelte, decidendo con raziocinio a chi offrire una visita, un like, un effettivo supporto economico.
Il rischio è di trovarci a prendercela con uno spot in formato evento, chiedendogli di essere ciò che non potrà mai essere. Il rischio è di svilire ulteriormente chi cerca di fare critica sul serio, a causa della nostra bulimia di nuovi contenuti.
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