C'è ancora tempo per sistemare le cose
Impossibile negare come l’uscita di Astro Bot (acquistabile da GameStop, a questo link) abbia portato una ventata di entusiasmo nel mondo del videogioco: freschezza, gioia e creatività sono solo alcuni degli ingredienti che hanno permesso al Team Asobi di dare vita all’esclusiva PlayStation in grado di generare più affetto di qualsiasi gioco visto negli ultimi anni.
L’effetto è quello di un vero e proprio tornado, capace di spazzare via persino l’incredibile, ingiustificabile e imbarazzante fallimento di Concord (che ricordiamo, nelle gerarchie di PlayStation Studios era visto come titolo esponenzialmente più importante) in un soffio e traghettare l’utenza verso un futuro in cui al centro troveremo la tanto vociferata PlayStation 5 Pro. Solo belle notizie, solo successi: stiamo parlando di PlayStation, non può essere altrimenti.
Sia chiaro, nessuno ha regalato nulla a nessuno, perché le qualità del team nipponico responsabile della creazione dell’universo di Astro Bot sono state coltivate nel tempo, partendo dalle prime apparizioni VR, sfociate poi in un titolo dedicato, per passare ad Astro’s Playroom (grande mossa inserirlo nella console al lancio) e offrire infine, al momento opportuno, l’occasione di sfoggiare tutto il proprio talento con un titolo retail classico.
Si tratta però di un successo “al contrario”, ennesima conferma di come negli ultimi mesi in casa PlayStation Studios siano i progetti secondari a ottenere i veri consensi, mentre i grandi titoli che godevano degli investimenti più massicci e delle vetrine più splendenti hanno arrancato – quando dopo la pubblicazione, quando ancora dietro le quinte.
In pochi mesi l’ambiziosa linea di Jim Ryan si è sgretolata lasciandosi alle spalle fallimenti e timori, con tanti team interni ancora impegnati a realizzare dei GAAS che probabilmente si stanno sentendo sulla graticola: Marathon di Bungie e Fairgame$ di Haven Interactive sono marchiati già ora con la stimmate dell’insuccesso di Firewalk Studios e si troveranno a lottare con tutte le forze per riscattarsi dal colpe che non gli appartengono, mentre il pubblico continuerà a invocare produzioni diametralmente opposte.
Fa sorridere, concedetemelo, che Hiroki Totoki, presidente di PlayStation, si lamenti di come il brand non disponga di sufficienti IP di successo, considerando il grande storico di franchise apparsi sotto l’etichetta Sony nel corso degli anni. Voglio pensare che sia un avviso a chi ascolta, un campanello d’allarme rivolto all’azienda e non una lamentela degna di un qualsiasi Jim Ryan, che sembrava proprio non avere la minima idea del posto in cui si trovasse.
Ma come si è arrivati a questa “scarsità di IP di successo”? La spiegazione più semplice potrebbe ritrovarsi nel modo in cui il brand PlayStation è cresciuto insieme al suo stesso pubblico: ad ogni generazione infatti i simboli e le mascotte sono stati soppiantati da nuovi e più accattivanti eroi, nell’intento di staccarsi dalla concorrenza, rinnegando il passato e lasciando marcire in soffitta progetti potenzialmente evergreen.
Jim Ryan sembrava proprio non avere la minima idea del posto in cui si trovasse.
Passare da PlayStation 1 a PlayStation 2 abbandonando Crash per Jak & Dexter, ripetendo poi lo stesso su PlayStation 3 con Uncharted, si sarà pure dimostrato funzionale a breve termine, ma poco lungimirante nella gestione dell’utenza. Perché vendere o dimenticare IP che si sono dimostrate valide? Perché non affidarle invece a team secondari per permettergli di farsi le ossa (chissà che magari esca qualche talento) e contemporaneamente tenere in vita personaggi amati?
Più o meno era quello che stava succedendo ai tempi di PS3 e PSP, con qualche slancio su PS Vita. Probabilmente non si stampavano dollari come accadeva altrove, ma chi ha le spalle grosse deve imparare a proteggere i propri tesori e non arrendersi quando le cose non vanno come si sarebbe desiderato. Altrimenti si arriva a situazioni assurde come il sacrificio delle divisioni nipponiche in favore dell’occidentalizzazione totale e crossmediale.
C’è qualcuno nell’industria che invece si è comportato esattamente all’opposto di quando fatto da PlayStation, iniziando a muovere i primi passi nella direzione della tutela della propria natura e dei propri brand già a inizio anni 2000: mentre la guerra delle console accoglieva un nuovo competitor, Xbox della colossale Microsoft, la “piccola” Nintendo decideva di approcciare il gaming in modo genuino, alternativo ed estremamente personale.
Chi ha le spalle grosse deve imparare a proteggere i propri tesori e non arrendersi quando le cose non vanno come si sarebbe desiderato
Già ai tempi di GameCube e Game Boy Advance si notò un certo cambiamento: la dirigenza Yamauchi pressava per hardware competitivi e che potessero essere top a livello tecnico sul mercato, affiancati da una comunicazione più “aggressiva”, ma l’aspetto giocoso della scocca della console (la maniglia!) di casa e le funzionalità curiose e creative della portatile contribuirono a segnare il passo. L’idea era che da Nintendo si giocasse davvero, non ci limitasse a “giocare a fare i grandi” come succedeva altrove.
Al tempo sembrò folle presentarsi all’E3 2005, quello del famoso target render di Killzone 2, parlando di creatività e allontanamento dalla competizione: proprio mentre gli occhi degli spettatori brillavano alla luce del false advertisement di Sony, annunciare una nuova console che non avrebbe perseguito la corsa tecnologica sembrava come spararsi sui piedi.
Ma Revolution, poi divenuto Wii, ha fatto proprio questo. E con questa console Nintendo è riuscita a rimanere sé stessa, cambiando però l’intero mercato. Nuovi giocatori hanno conosciuto le icone della casa di Kyoto, a cui non è mai mancato un nuovo titolo da sfoggiare. Salvo casi rari e specifici, nessuno è mai rimasto indietro e ogni console ha sempre avuto il suo Mario, il suo Zelda, il suo Metroid (coff coff Nintendo 64) o un titolo di Yoshi, Donkey Kong, Kirby e via dicendo.
Questo perché “crescere insieme al pubblico” è rischioso, in quanto ti aiuta sicuramente a fidelizzare con gli utenti che ti seguono dall’inizio (nel caso di PlayStation coloro che erano bambini, ragazzi e giovani adulti nel 1994), ma non ti permette di fare ricambio nelle generazioni successive.
Una parziale conferma la possiamo ritrovare nel tonfo di buona parte delle tante produzioni crossmediali tra cinema e serie TV (Uncharted, Gran Turismo, Twisted Metal), che letteralmente non hanno trovato un pubblico interessato.
Milioni di persone ormai adulte ricordano Crash, Spyro e tanti altri con gli occhi lucidi: dove erano le produzioni equivalenti in era PS3? E PS4? E oggi dove sono? Qualcuno se ne sta occupando? Qualcuno ci ha mai davvero pensato? Non citate Team Asobi, troppo facile farlo ora sull’onda del riscontro positivo (e quasi universale) di Astro Bot.
Nintendo ha capito l’importanza di preservare e coltivare le proprie IP anche e soprattutto nei momenti di difficoltà. In piena era Wii U, la console meno performante della storia della casa di Kyoto, Reginald Fils-Aime si trovava a fronteggiare a domande in merito a dove fosse il “Call of Duty di Nintendo” rispondendo con fierezza come altrove non esistessero esclusive come Mario, Zelda e via dicendo, a lasciar intendere che erano gli altri a dover lavorare per costruire qualcosa. Nintendo invece, stando alle sue parole, avrebbe pensato a nuovi modi per utilizzare i propri personaggi di successo.
E nel mentre i vertici, pur spaventati dai più che deludenti risultati di Wii U, lavoravano dietro le quinte per diversificare e mantenere vive le proprie IP anche in altri contesti, nel tentativo di sfruttare l’eventuale effetto traino verso i propri prodotti gaming.
È in questo periodo che è nato l’impegno su mobile. È in questo periodo che è nata l’idea dei parchi a tema con Universal. Ed è sempre in questo periodo che si è pensato a sperimentazioni verso il cinema. Chi ha le spalle grosse non si spaventa davanti ai problemi e li affronta.
Chi ha le spalle grosse non si spaventa davanti ai problemi e li affronta.
Sono passati circa vent’anni da quando Nintendo ha cambiato le regole del gioco e in tutto questo tempo non ha mai tradito la propria anima. Sì, ovviamente qualche sperimentazione più “core” c’è stata, per tastare il terreno, ma non si è mai pensato di buttare tutto e ricominciare più “edgy e maturi” coperti solo dal successo del proprio nome.
Mentre gli altri si impegnavano in ricerche di mercato, analizzando (inseguendo?) i fenomeni del momento e occupando un sacco di tempo a testare un pubblico non troppo recettivo, Nintendo ha semplicemente fatto i suoi giochi, fregandosene di inseguire i trend per mantenere invece una posizione sempre più solida nel settore dei giochi “per tutti”.
È così che si riesce a piazzare 8 milioni di Mario Kart 8 su poco più di 13 milioni di Wii U, trasformandolo poi in un fenomeno globale da oltre 60 milioni di copie vendute su Nintendo Switch, ed è così che anche titoli minori come Princess Peach: Showtime! diventano million seller: si lavora negli anni per consolidare un brand, creando un’offerta che non si può trovare altrove.
Oggi ci troviamo quindi a incensare, glorificare ed elevare Astro Bot a salvatore del videogioco. Ok, nessuno nega le qualità di questo gioco eccezionale (che ho comprato al D1, non vedo l’ora di trovare il tempo per giocarci), ma queste reazioni paiono ingigantite, quasi fossero conseguenza di uno stress vissuto dal pubblico di casa PlayStation.
Lo ricordate Sly Raccoon? E sapete chi è Rau Utu?
Un pubblico che si è innamorato di tanti personaggi e che li ha visti finire dietro le quinte: lo ricordate Sly Raccoon? E sapete chi è Rau Utu? Magari è più semplice parlare di Parappa, e di come lui e le scimmie di Ape Escape meritassero ben altra attenzione. Imperdonabile poi che di tutto ciò che si stava costruendo in giappone in era PS3/Vita con titoli come Gravity Rush, Malicious, Tokyo Jungle e via dicendo sia rimasto solo qualche nostalgico rimando sugli store digitali.
Probabilmente è questo ciò a cui stava pensando Totoki quando lamentava l’assenza di franchise di successo nel mondo PlayStation. Avere rispetto delle proprie IP, evitando di stravolgerle per inseguire un pubblico a cui non interessano (ciò che è successo a Jak & Dexter e che si è rischiato anche in casa Insomniac con Ratchet & Clank), è la regola d’oro per creare valore ed è parte di una cultura nipponica che è venuta meno nelle ultime generazioni della divisione gaming di Sony, letteralmente trapiantata di forza negli states logorandone le radici.
Astro Bot potrebbe rappresentare un importante punto di svolta
Per fortuna, Astro Bot potrebbe rappresentare un importante punto di svolta: un fenomeno inatteso, non pianificato (un po’ come Helldivers 2… pare proprio che funzionino solo i titoli ritenuti secondari) che ci stampa un sorriso ebete sul volto ad ogni livello e ci ricorda di come i giochi possano, appunto, essere solo giochi divertenti e non un obbligo di frequenza quotidiano come avviene nel caso dei GAAS. Ironico che sia la stessa Sony a ricordarci che “Play Will Find A Way” con il suo ultimo trailer live action (lo trovate in coda all’articolo), che si spera sia di buon auspicio.
E non importa quanto Astro Bot ci ricordi Mario Galaxy o possa risultare derivativo per tutti coloro che, negli ultimi 20 anni, non si sono dimenticati di giocare a titoli davvero divertenti evitando di farsi abbindolare da corse alle armi e dichiarazioni di ambizioni fumose ben lontane dall’amore per il medium: l’importante è che la gente risponda al suo richiamo in modo forte e deciso, nella speranza che Sony, finalmente, ascolti.
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