Il giovane studio di sviluppo 4A Games si è sdoppiato ufficialmente per espandere la sua “capacità di sviluppo tripla-A“, aprendo un nuovo studio sito in Malta che aiuterà nella produzione di “inediti titoli della serie Metro“. Ebbene l’isola al largo delle coste siciliane non è solo meta di turisti discotecari e casinomani (scusate i neolinguismi ndr), ma anche un’opportunità per lo chief technical officier, Oles Shishkovstov e il creative director/co-founder di 4A Games, Andrew Prokhorov, per supervisionare il nuovo team.
Lo scopo dell’ operazione, secondo le parole di Dean Sharpe, head of business development del team, è ottenere una sede in un paese dell’Unione Europea ed essere in grado di competere meglio sul piano internazionale.
In pochi sicuramente sanno che un videogioco a Malta può costare veramente parecchio di più rispetto al prezzo medio sul nostro mercato (si pensi solo che molti maltesi approfittano di una vacanza in Sicilia per fare un “acquisto videoludico”), eppure per Dean Sharpe il Paese offre “fantastici incentivi per lo sviluppo di videogiochi“ e il team “sarà in grado di attrarre il meglio dei talenti dall’Ucraina, Malta e oltre.”
Prokhorov considera questa apertura un nuovo capitolo per 4A Games:
“Siamo fieri dei nostri traguardi come giovane studio e riconoscenti del feedback sui nostri prodotti. Il team è entusiasta di questa nuova avventura.”
Con queste liete parole di speranza e intraprendenza, ma soprattutto di fiducia verso le possibilità offerte dal contesto UE, oggi da noi ciecamente demonizzato a prescindere, possiamo chiederci perché tra i 28 Paesi, proprio la piccola isola di Malta è stata scelta dagli sviluppatori ucraini e non invece (faccio un nome a caso), l’Italia, che di input e capitale (umano e non) per lo sviluppo di videogiochi è, a dir poco, obiettivamente carente, ma altrettanto certamente non lo è tanto più di Malta.
C’è molto altro ovviamente che influenza le scelte (ergo investimenti) del settore, e sebbene il caso merita riflessioni più profonde, è certo comunque che non si tratta di quel “grado di cultura videoludica” a cui critici e appassionati piace tanto appellarsi, ma purtroppo più brutalmente di cultura, e basta.
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