05 Lug 2016

INSIDE – Recensione

Arnt Jensen. Tenete a mente per bene questo nome, di sicuro ne sentiremo ancora parlare. Magari non a breve, magari dovranno passare altri sei anni – gli stessi intercorsi tra l’uscita di LIMBO e del recentissimo INSIDE: ma è cosa rara, specie nel panorama indipendente, riuscire a bissare un successo di proporzioni mondiali con un successo ancora maggiore. Mettici le aspettative di un pubblico che, vuoi o non vuoi, continua a sviluppare un palato sempre più esigente in fatto di esperienze videoludiche; mettici pure la pressione asfissiante che preme su un piccolo studio di nemmeno 30 persone con base a Copenaghen. Difficile, difficilissimo accontentare tutti una seconda volta, confermando che quell’exploit bicromatico del 2010 non è solo “questione di fortuna” ma, al contrario, rappresenta il figlio di una visione tanto unica quanto assurda. Assurda ma morbosa, in grado di inquietare e al contempo affascinare, di martellare in modo compulsivo la testa del giocatore al punto da ossessionarlo, per scoprire cosa si celi dietro l’ennesima ispiratissima tavola.

Questo era Limbo, e questo, elevato all’ennesima potenza, è INSIDE: una creatura strana, quella di Playdead, un titolo dallo stile più unico che raro che, come una goccia che cade dal rubinetto, erode progressivamente le certezze di chi gioca, destabilizzandone piano piano sicurezze, convinzioni o assiomi portanti. Il quadretto dipinto dai ragazzi di Playdead rappresenta quanto di più ermetico e concettualista sia apparso in questa generazione: un’esperienza sì breve, destinata a concludersi nell’arco di circa quattro ore di gioco, ma intensa e profonda come nessun’altra. Un tuffo dentro un universo surreale e malato, destinato ad impaurire, affascinare e persino meravigliare man mano che il nostro piccolo eroe vi si addentra. E più ci si ritrova “inside”, dentro questa folle società fatta di uomini senza scrupoli e pedine senza più alcuna volontà, più sono gli interrogativi che Playdead ci sbatte in faccia: interrogativi le cui risposte sono tutto tranne che in superficie …

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Non vi stupirete nel sapere che, anche in INSIDE, non esiste traccia di narrazione diretta. Niente dialoghi, scambi di battute o documenti di qualsiasi natura disseminati nelle varie location: esattamente come in LIMBO, nel secondo nato di casa Playdead non c’è spazio per le cose ovvie e scontate. Un puzzle intricato, quello di INSIDE, che vede protagonista un giovane ragazzino in fuga da quella che si configura come una corporazione senza scrupoli intenta alla sperimentazione sul controllo mentale degli esseri umani: una fuga in piena regola, che da un bosco pattugliato da guardie armate e cani affamati di carni tenere ci catapulta nei tetti di una cittadella fantasma, dove delle persone prive di coscienza camminano come automi del tutto soggiogati all’altrui controllo, passando per una vecchia fattoria disabitata o per fondali marini abitati da pericolose creature.

Ma quello di INSIDE non è un semplice “viaggio” tra mille pericoli: più ci si addentra, passo dopo passo, più le prospettive cambiano, più le certezze si assottigliano progressivamente sino a diventare autentici dubbi: perché siamo lì, da cosa stiamo scappando, cosa sta succedendo tutt’attorno a noi. E soprattutto, la più lancinante delle domande: dove siamo diretti? Playdead si diverte con la curiosità del giocatore, lo fa in modo a dir poco magistrale reinventando strutture simil-scientifiche nascoste negli abissi marini (accessibili soltanto tramite un’anacronistica batisfera), delineando i contorni di un contesto ai limiti dello sci-fi mai apertamente dichiarato, giocando addirittura (nelle fasi più avanzate del gioco) con le basilari leggi della fisica. Un’esperienza estraniante e compulsiva, che preme costantemente il piede sull’acceleratore e, scenario dopo scenario, sobilla un senso di insicurezza e precarietà.

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Sia chiaro, non stiamo parlando di quel tipo di insicurezza che deriva dalla paura di andare incontro a morte cerca anche dopo solo pochi passi. Non che in INSIDE i trapassi siano assenti – al contrario, seppur in presenza più contenuta rispetto al sadismo di LIMBO; la grandezza del titolo Playdead risiede in quella capacità di mettere a disagio il giocatore, costantemente in apprensione dall’impossibilità di prevedere cosa giaccia da lì a pochi metri. Una sorta di spirale senza fine, sempre più vorticosa e incomprensibile man mano che ci addentriamo verso il suo centro: una metafora insita nello stesso nome di questa IP, INSIDE, quasi a volerci ricordare quanto possa essere doloroso e angosciante il viaggio all’interno della coscienza umana. O di quello che di essa rimane …

Un viaggio torbido, dove pallidi riflessi di luce cedono spazio a minacciose zone d’ombra e dove l’abisso e l’oscurità fanno da indisturbati protagonisti. Un leit motiv che traspare anche dalla direzione artistica del titolo, che abbandona la dicromia così caratteristica del proprio predecessore in favore di uno stile dai toni opachi e smunti, dalle tinte spesso così vicine al grigio – anche nelle rare sezioni all’aperto – da far pensare ad una desaturazione generalizzata di luce e colori. Un’oppressione visiva, parallelo cromatico di quella stessa oppressione di cui sono vittime numerosi esseri umani ora privi di volontà e da cui il nostro giovane eroe, unico “puntino” colorato del quadro, cerca di scappare.

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Già, ma come scappare da tutto questo, quando l’unica via di fuga sembra condurre sempre più lontano dalla salvezza? Le meccaniche ludiche alla base di INSIDE ricalcano quanto già visto in LIMBO, “obbligando” il giocatore alla risoluzione di una lunga serie di puzzle ambientali dalla difficoltà crescente. Il pattern di tali enigmi, pur presentando un DNA comune per il corso di tutto il playthrough, è ragionevolmente vario e richiede un mix di attenzione, pensiero laterale e – specie dalla metà gioco in poi – tempismo nell’esecuzione. Sfuggire alla morsa delle “sirene”, ad esempio, richiederà di attrarre l’attenzione della letale creatura in uno specifico punto dello scenario, sfruttando poi il vantaggio acquisito per superare una porta a tenuta stagna da chiudere alle proprie spalle; stesso discorso per aggirare l’agguato di alcuni cani, nettamente più veloci del protagonista e, proprio per questo, battibili solo con l’astuzia.

Playdead non è soltanto tornata: stavolta fa il centro perfetto.

La soluzione del puzzle, normalmente, rientra “a pochi passi” dal punto in cui si trova il nostro alter ego – anche se, almeno in un paio di occasioni, sarà necessario spostarsi astutamente in sezioni dedicate per completare la sfida. Novità introdotta in INSIDE, sempre in termini di meccaniche, è la possibilità di muovere un umano normalmente inerme tramite un caschetto per il controllo mentale: una volta collocato sulla nostra testa questo dispositivo, ci ritroveremo a controllare telepaticamente una sconosciuta vittima di questo spietato universo, che a propria volta potrà collegarsi ad un secondo dispositivo e permettere di muovere un ulteriore individuo. Capirete da soli come, con questa trovata, la fase di puzzle-solving acquisti uno spessore maggiore di quanto sperimentato sei anni or sono. Ancora una volta, vale la pena ricordarlo, la chiave di lettura delle sfide proposte risiede anche nel saper gestire opportunamente la fisica: non fosse che, in INSIDE, non sempre tutto è quello che sembra. Ve ne accorgerete anche solo cercando la dozzina di collezionabili nascosti, che una volta raccolti daranno il là ad un inaspettato finale alternativo. E possiamo garantirvi che le sorprese non mancheranno di certo.

Versione PC

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Solitamente quando si aggiunge un trafiletto dedicato ad un’altra versione, soprattutto se parliamo di PC, quello che si va ad analizzare è la controparte tecnica, le differenze grafiche e così via… Ma questo è un caso a parte signori, questo è un gioco che porta il nome di INSIDE e che solo chi lo ha giocato per intero può sapere che stiamo parlando, oltre che di un capolavoro, di un gioco a cui già la parola “analizzare” sta stretta. Un’esperienza che grazie proprio a questa versione PC, potranno godersi anche tutti coloro che non hanno una Xbox One.
Per fortuna INSIDE è piuttosto scalabile e noi, abbassando la risoluzione per poterlo giocare almeno intorno ai 30 frame al secondo, lo abbiamo fatto girare persino su un portatile 13 pollici dotato solo di scheda video integrata Intel HD 5500. E possiamo assicurarvi che anche in quel caso è stato capace di regalarci emozioni. Certo, giocandolo alla risoluzione di 3440×1440 ed a 100hz (nonostante non supporti i 21:9 e quindi non vada a tutto schermo), INSIDE diventa anche una gioia per gli occhi.
Sappiamo che sono passati molti anni e che pochi di voi potranno capire, ma dal punto di vista tecnico (e non solo) ci ricorda quello che fu Flashback per Another World: un seguito che sia sotto l’aspetto grafico, che come profondità di gioco, rappresenta l’evoluzione all’ennesima potenza del titolo precedente; in questo caso Limbo, il quale resta anche lui una pietra miliare. Le animazioni sono, anche grazie agli eventi narrati, disarmanti: quel bambino senza nome (ma tutt’altro che anonimo), caratterizzato inizialmente solo da una manica tirata leggermente su, andando avanti nella storia acquisisce una personalità tale che difficilmente lo potrete dimenticare. Disarmanti come il level design e la caratterizzazione degli ambienti e degli altri personaggi: INSIDE è una perla che non ha bisogno di milioni di poligoni o della VR per lasciare a bocca aperta chi lo gioca. Adesso che anche la versione PC è disponibile, non cercate altre scuse e fatelo girare in qualche modo sul primo computer Windows che vi capita a tiro (niente Mac per adesso, ci spiace); perché solo quello è il modo per capire di cosa stiamo parlando e per mettere nel proprio bagaglio culturale e personale, questa distopica fiaba del 21esimo secolo.

Versione PC testata da Pasquale Lello

Conclusioni

Playdead non è soltanto tornata: stavolta fa il centro perfetto. INSIDE, la seconda opera del giovane team danese, infrange bellamente le più rosee aspettative che dal 2014 ad oggi avevamo supposto, dipingendo un universo cupo, ermetico e affascinante destinato a diventare metro di paragone. Lo fa con una maestria e un tocco che raramente abbiamo visto in questa generazione, delineando i contorni di un mondo privo di voce ma non per questo incapace di parlare. Lo fa indirettamente e in modo obliquo, prediligendo l’immagine e il suono al testo scritto, lasciando che siano le immagini e le sensazioni che esse stesse evocano ad irretire il giocatore, a trascinarlo in una spirale angosciante che culmina in un finale in grado di levare il fiato.

La magia di INSIDE è proprio questa: un viaggio nella follia e nell’inquietudine, svelato per suggestioni e suggerito con contagocce dallo stesso sviluppatore. Non una trama tradizionale, quella a cui saremmo normalmente abituati: scorci, indizi, piccoli messaggi da decifrare e, soltanto alla fine, da riunire in un unico personalissimo puzzle. Perché dove non esiste una storia scritta, esiste la capacità di chi la vive di assimilarla, di farla propria e di rielaborarla sulla base delle sensazioni provate. E quella raccontata da Playdead con INSIDE è una storia morbosa e asfissiante, che merita davvero di essere vissuta dal profondo. O, citando gli stessi Playdead, è il caso di dire “from Inside“.