L.A. Noire – Recensione

“Non l’ho mai conosciuta da viva. Lei, per me, esiste solo attraverso gli altri, nell’evidenza delle loro reazioni alla sua morte. Scavando a ritroso e attenendomi ai fatti posso dire che era una ragazza triste e una prostituta. Nella migliore delle ipotesi era una fallita, un’etichetta che, del resto, potrei applicare a me stesso. L’avrei consegnata volentieri a una fine anonima, poche righe su un rapporto della Omicidi, una copia carbone per l’ufficio del magistrato, i formulari per la fossa comune. Ma lei non avrebbe approvato questa conclusione: avrebbe preferito rendere manifesta la sua storia in tutta la sua brutalità. Le devo molto e poiché io solo conosco i fatti per intero, tocca a me mettere per iscritto queste righe”.

Nonostante gli innumerevoli riferimenti e strizzate d’occhio a romanzi e pellicole cinematografiche, crediamo non esista modo migliore di questo incipit per cominciare la nostra recensione su L.A. Noire: La Dalia Nera è stato un romanzo dello scrittore James Ellroy nel 1987 (da cui è tratta la citazione) e un film di Brian De Palma nel 2006, ma anzitutto è fra i più noti casi di omicidio irrisolti negli Stati Uniti D’America. Uno spaccato crudele della Los Angeles di fine anni ’40, la città dalla patina dorata sotto la quale alligna il marcio della corruzione, della dissolutezza, del potere, del denaro e della droga; uno spaccato buttato lì quasi con noncuranza da Cole Phelps e il suo partner Stefan Bekowsky quando ancora siete un detective novellino alle prese con la vostra prima divisione investigativa, ma che una volta colto colpisce con la sua brutalità. Perché film, romanzi e giochi sono finzione mentre La Dalia Nera (Elizabeth Ann Short) è esistita e i suoi continui omaggi ci ricordano come la Città degli Angeli fosse un’utopia fondata sul crimine.

 

Ed è questo contesto di mistificazione che sei anni fa L.A. Noire volle raccontare. Tanti ne sono passati da quando lo studio australiano Team Bondi e Rockstar Games pubblicarono su PlayStation 3 e Xbox 360 – la versione PC giunse alcuni mesi più tardi – uno fra i migliori titoli della scorsa generazione. Non gli mancavano i difetti, certo, eppure la profonda autenticità del mondo messo a disposizione, la storia e il sistema di progressione caso per caso che rendeva difficile staccarsi dallo schermo senza trascinarsi dietro il tarlo di voler scoprire qualcosa di più, questi aspetti messi assieme hanno concorso a renderlo un gioco memorabile. La stessa community gli ha sempre offerto un supporto a dir poco travolgente e viene naturale domandarsi perché, quali siano i fattori scatenanti di una simile affezione, al punto da farne un’esperienza rilevante persino oggi nella versione rifinita per le attuali console. Valgono tutte le motivazioni accennate poco sopra, tuttavia quella principale è l’incredibile espressività dei personaggi realizzata grazie alla tecnologia MotionScan, capace di regalare ai giocatori un livello di dettaglio mai ottenuto prima – e sfortunatamente, nemmeno dopo. Durante la realizzazione, Team Bondi fu consapevole che per dare la migliore sensazione di realismo possibile durante gli interrogatori (che sono il punto cruciale del gameplay) era necessario avere dei volti. Volti veri, da osservare, analizzare, sui quali porsi domande studiandone le microespressioni e capire se e cosa nascondessero. Sta mentendo o è semplicemente un tratto comune della sua persona? Questi erano i dubbi dove soffermarsi durante la partita perché un’impressione sbagliata avrebbe compromesso in maniera significativa l’interrogatorio e di conseguenza l’intera indagine.

All’epoca il facial motion capture, oggi comunemente utilizzato in molti titoli tripla A, era un aspetto molto difficile a cui lavorare, soprattutto a certi livelli. Grazie alla MotionScan si ottennero risultati incredibili, riportando su schermo tutte le espressioni degli attori a un livello di precisione che avrebbe richiesto chissà quanto tempo, o addirittura sarebbe stato impossibile, se modellato a mano oppure adattato tramite la semplice facial motion capture. Questo fu il vero cuore del gioco, perché la nostra visione e interpretazione dei personaggi si sarebbero legate a doppio filo alle meccaniche. Purtroppo anche il migliore degli approcci non è privo di mancanze e paradossalmente furono dovute proprio agli alti standard posti dalla MotionScan. Lungi dalla tecnologia di per sé, a creare queste incongruenze furono il cast stesso e l’animazione dei corpi: nel primo caso il team di sviluppo ebbe a disposizione attori dalle indiscusse capacità per i personaggi principali e altri un po’ meno d’impatto per quelli secondari, che hanno portato ad alcune piccole crepe nella messa in scena; il secondo riguarda il rapporto difficile fra l’eccellente animazione delle espressioni e la gestualità, spesso disconnesse fra loro. Questi aspetti sono ovviamente rimasti anche nella riedizione di L.A. Noire ma la maestria di Team Bondi all’epoca fu riuscire a gestire questi inconvenienti in un gioco la cui durata si attesta sulle venti ore per una storia principale fortemente focalizzata sul dialogo. Si è talmente concentrati sulla profondità delle espressioni che a stento ci si accorge di come a volte i movimenti siano esagerati rispetto a quanto stiamo vivendo: badate bene, non fuori contesto, solo un po’ sopra le righe rispetto a quanto il tono di voce e il volto sembravano suggerire. Si prova la stessa perplessità di quando parliamo con una persona che ci sta pacatamente spiegando le sue ragioni ma lo fa gesticolando in maniera concitata, scontrandosi con ciò che la sua espressività comunica.

L.A. Noire è un’esperienza rilevante persino oggi

Fatta questa doverosa premessa, cosa ci aspettò una volta avviato il gioco? Una Los Angeles di metà del ‘900 riprodotta fedelmente nella sua architettura, nello status sociale dei cittadini (era l’epoca in cui le macchine dicevano di una persona più della persona stessa) e nel pensiero; una città che non faceva sconti e attraverso la quale ci muovemmo impersonando Cole Phelps, veterano della Seconda Guerra Mondiale ora poliziotto di pattuglia lungo le strade, che avrebbe visto la propria carriera di investigatore sorgere e cadere nel tentativo di fermare la corruzione della città. I casi della prima divisione, quella appunto di Pattuglia, servirono da lungo tutorial per insegnarci i fondamentali del gioco: esaminare una scena del crimine, inseguire un sospetto a piedi o in auto, svolgere interrogatori e affrontare scontri a fuoco. Una volta promossi cominciò la vera storia, una narrazione che si sviluppò seguendo un ritmo lento e compassato ma sempre coinvolgente a mano a mano che seguivamo Phelps in un percorso che voleva anche essere di redenzione – un modo per farsi perdonare di qualcosa accaduto durante la guerra, fatti che l’avevano coinvolto in prima persona svelati attraverso brevi flashback, spesso volutamente fuorvianti nel presentare i personaggi e le rispettive linee di pensiero.

La scrittura di L.A. Noire ci si presentò dunque molto lineare e nonostante tutto riuscimmo a sentirci estremamente coinvolti nelle vicende. Perché? Non si trattò solo delle atmosfere perfettamente ricreate e godibili anche da chi non era un estimatore del genere noir. Al di là dell’importantissimo ruolo giocato dall’animazione delle espressioni, fu il gameplay nella sua meticolosità a catturare la nostra attenzione. C’erano scene d’azione, sparatorie, inseguimenti in auto o a piedi, momenti dove la pericolosità ma soprattutto l’impunità di chi dettava legge lungo le strade di Los Angeles si esprimeva in tutta la sua forza, eppure nessuno di questi raggiunse per coinvolgimento le fasi di investigazione. Armato del fedele taccuino, Phelps avrebbe indagato scene del crimine ricostruite nei minimi particolari – dall’esame del cadavere, laddove presente, o dell’area incriminata fino a raccogliere le deposizioni dei testimoni, prima di mettere insieme qualcosa di concreto ed eventualmente passare alla sala interrogatori, dove gli scontri verbali si sarebbero potuti rivelare più complicati ed estenuanti. La MotionScan di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti fu l’elemento chiave di queste situazioni perché, al di là dei toni di voce e del nostro intuito, era il solo modo che avevamo per determinare la sincerità o la colpevolezza di chi avevamo davanti. Assecondare, forzare o accusare il nostro interlocutore? Si trattava di un delicato gioco di equilibri al quale non potevamo sottrarci e avremmo dovuto imparare a comprendere quanto prima, interpretando correttamente le circostanze dopo aver trovato tutti gli indizi necessari al caso.

Nonostante la sua linearità narrativa, infatti, gli interrogatori di L.A. Noire cambiavano a seconda di quanti indizi avessimo o non avessimo trovato durante la nostra indagine, tuttavia non c’era davvero da preoccuparsi per questo: nonostante l’apparente difficoltà, la musica interveniva per indicarci quando non c’era più nulla da cercare e i punti intuito (fino a un massimo di cinque) potevano essere eventualmente spesi per svelare gli indizi mancanti. A mano a mano che l’avventura proseguiva, si faceva più difficile leggere le espressioni dei testimoni e spesso l’azzardo poteva rappresentare una soluzione efficace seppur rischiosa, ma il bello del gioco era anche questo: un costante metterci alla prova in un’escalation di crimini e verità nascoste che avrebbero finito per intrappolare Phelps nella loro rete troppo stretta. Ad affiancare questo aspetto magistrale avevamo gli scontri a fuoco, gli inseguimenti in auto ed eventuali scazzottate con gli unici malviventi non dotati di armi in tutta Los Angeles: aspetti forse meno curati e di certo non in linea con il colosso Grand Theft Auto, però non va dimenticato che L.A. Noire è un genere totalmente diverso. Tutto ciò fa da contorno a quello che Team Bondi ha voluto essere il vero volto del gioco: l’immersività offerta da un confronto diretto e intenso con i personaggi.

Il genere di L.A. Noire è totalmente diverso da quello di GTA

La versione rifinita di L.A. Noire per PlayStation 4 ci offre ancora una volta le atmosfere vissute nel 2011 e le meccaniche che le hanno accompagnate, arricchita da un incremento grafico non perfetto ma comunque evidente. La rivoluzionaria tecnologia mocap MotionScan è efficace tutt’oggi: gli interrogatori sono snervanti e coinvolgenti mentre si cerca di interpretare il soggetto e grazie a un miglioramento nelle texture dei tessuti, il bizzarro effetto di “galleggiamento del volto” del titolo originale è molto attutito. Al di là della disconnessione fra gesti ed espressioni, infatti, la bassa qualità delle texture ai tempi di PlayStation 3 e Xbox 360 (o comunque tale da non raggiungere gli ottimi livelli della MotionScan) creava anche questa impressione. Ora si può quasi dire il contrario, ovvero che i capelli di un personaggio non sono allo stesso livello del suo abbigliamento ma si scadrebbe in minuzie che non minano davvero l’effetto complessivo. Ciò che tuttavia spicca in termini di grafica è il nuovo motore di illuminazione: la luce solare filtra attraverso le tende chiuse di una sala riunioni, illuminando il pulviscolo nell’aria, oppure attraverso i vetri della stanza degli interrogatori, rendendo la situazione ancora più drammatica. L.A. Noire sembra poi emergere ancora di più nelle ore notturne grazie a questo nuovo sistema, portando la luce delle insegne a riflettersi sull’asfalto o sui volti dei personaggi. Difatti, l’unico aspetto a deludere davvero e che rappresenta di per sé una nota negativa di questa versione sono le texture ambientali, soprattutto durante il giorno. Mentre le automobili guidate da Phelps e il partner rendono molto bene, il mondo nel quale ci muoviamo è piuttosto scialbo a confronto: edifici, marciapiedi, talvolta persino i pedoni sembrano carenti nei dettagli e non è mancato un leggero sfarfallio nelle texture. Quando poi si esaminano alcuni oggetti da vicino, il fondale riporta un’evidente e fastidiosa sgranatura figlia della vecchia generazione.

Conclusioni

Uno dei migliori giochi investigativi di tutti i tempi, L.A. Noire su PlayStation 4 è ancora in grado di offrire un’esperienza coinvolgente grazie a un sistema di MotionScan che ha ragione da vendere nonostante siano passati sei anni e una narrazione che pur nella sua linearità (frammentata dalla possibilità di rispondere a richieste di soccorso improvvise durante gli spostamenti) mette in scena una storia in tutto e per tutto noir, con una colonna sonora che si adatta in modo perfetto al contesto. La grafica è stata migliorata e pur risentendo del tempo trascorso viene quasi naturale metterla da parte di fronte a un gameplay stellare: le sparatorie, i combattimenti corpo a corpo, gli inseguimenti in auto sono soddisfacenti e operano bene nel loro ruolo di contorno dell’aspetto principale – l’indagine. Scandagliare l’area in cerca del dettaglio all’apparenza irrilevante, interrogare testimoni e possibili sospetti ma soprattutto le scene che ne derivano, sono tutti elementi emozionanti come la prima volta. Che sia un semplice impiegato delle ferrovie o un veterano di guerra segnato da ciò che ha vissuto, ciascun personaggio ha una propria identità e aspetti di sé ben celati allo sguardo, per i quali è necessario scavare a fondo ed è questo che rende L.A. Noire il titolo coinvolgente che è.

Se a ciò si aggiungono tutti i casi DLC e i bonus pre-order integrati nella campagna – per non parlare dei crimini di strada – il suo prezzo è giustificato e in linea con l’offerta. Il free roaming è l’elemento che soffre maggiormente in tutta la produzione, perché non c’è una vera ragione a giustificarlo nonostante la quantità forse eccessiva di automobili, i rullini d’oro e i luoghi famosi da scoprire, ma questa era una nota negativa già ai tempi dell’originale e non si poteva pretendere uno stravolgimento del gioco – non ora che Team Bondi ha chiuso e non può più essere al timone. Al di là di questo, L.A. Noire eccelle nel mostrare il marcio della polizia e gode di una performance recitativa d’eccezione nella maggior parte dei casi, lasciandoci la sensazione di assistere a un film del quale però noi non siamo ne registi ne davvero spettatori, bensì protagonisti. È chiaro come il gioco si rivolga più a chi non ha potuto provarlo nel 2011 ma anche i giocatori rodati potrebbero non voler perdere l’occasione di immergersi nuovamente nella Los angeles degli anni d’oro.

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