News 09 Feb 2018

Marvel Black Panther – Recensione

Finora, che provenissero dal mondo DC o dall’Universo Cinematografico Marvel, i blockbuster sui supereroi hanno in larga parte condiviso una caratteristica in particolare: la messa in scena di un eroe bianco che indipendentemente dalla sua condizione aveva come obiettivo unico proteggere l’America dalla minaccia dell’antagonista di turno. Co-scritto e diretto da Ryan Coogler, Black Panther prende invece una direzione completamente diversa ignorando quasi del tutto gli Stati Uniti per concentrarsi sul fittizio stato del Wakanda, creando un senso di meraviglia e soprattutto facendo riscoprire quel mito di cui Hollywood ormai non sogna più grazie a un’incredibile resa estetica. La terra natia di Black Panther è forse la nazione più tecnologicamente avanzata al mondo e al contempo vive di una ruralità semplice, uno specchio per le allodole che la protegge dagli occhi del mondo e crea una perfetta fusione fra modernismo e natura, un binomio nel quale non si percepiscono stonature perché una realtà non può vivere senza l’altra. Il film è una gradita ventata d’aria fresca nell’espanso universo Marvel, dove il mito e il dramma classico s’incontrano, ma è anche e soprattutto un bel cambiamento di ritmo che speriamo possa fare da precursore per produzioni future: è in corso una graduale transizione nei lungometraggi Marvel, che non sta colpendo tutti i franchise (pensiamo a Thor, volutamente esagerato e pensato per intrattenere con botte da orbi e una comicità a volte troppo forzata) ma sta senza alcun dubbio tracciando una nuova direzione verso cui, forse, Disney potrebbe puntare. Se prima i supereroi erano riportati come tali, lasciando poco spazio alla profondità dell’uomo dietro la maschera a favore di effetti speciali e coreografie, adesso sembra esserci l’intenzione di costruire un contesto che faccia sentire di più questi personaggi, dando un’interpretazione per cui essere ricordati. Qui, Black Panther trionfa.

Il film si apre con un padre, N’Jobu, che racconta al figlio la storia del Wakanda: la nascita e la crescita di questa nazione nascosta a sguardi esterni, cresciuta e prosperata grazie al vibranio, uno dei metalli più rari sulla terra che ha consentito alla sua gente di raggiungere progressi mai visti. Sappiamo che Black Panther è un uomo, una leggenda, un simbolo, un eroe, colui al quale si deve l’unificazione delle popolazioni e che per sempre proteggerà questa terra. Dopo questa introduzione facciamo un salto in avanti nel tempo negli anni ’90 fino a Oakland, dove alcuni ragazzini di colore giocano a pallacanestro mentre sopra le loro ignare teste vola silenziosa una navicella wakandiana. Già in questi primi minuti Coogler vuole mettere in evidenza uno dei punti focali della narrazione: le differenze e le somiglianze fra due modi di vivere e di essere, una conversazione stabilita attorno alla dicotomia afro-americano/africano. Quando la colonizzazione occidentale ha cominciato a diffondersi, il Wakanda aveva già i mezzi per schierarsi a favore dei suoi fratelli in Africa ma i regnanti hanno sempre scelto di chiudere gli occhi per proteggere la nazione, salvaguardandola dalle inevitabili conseguenze che avrebbe significato rivelare al resto del mondo la loro vera potenza e le risorse.

Black Panther ci offre molto su cui riflettere

Questa presa di posizione – soprattutto le implicazioni sociali, politiche e ancora di più morali che comporta – sono alla base del percorso di crescita di T’Challa (Chadwick Boseman), il giovane re succeduto dopo la morte del padre nell’attentato mostra in Avengers: Civil War, che cerca di capire cosa significhi essere un sovrano giusto: scoprirà segreti spiacevoli, ritenuti necessari dai suoi antenati, ma ai quali non riesce a prendere parte. Nel complesso, l’interpretazione di Boseman mette in scena un eroe buono, orgoglioso, puro di cuore, che proprio per questo rischia di soccombere al peso di una corona retta non da ideali perfetti, bensì da decisioni che portano sempre al sacrificio di qualcosa. Sia esso un affetto o un’intera etnia. Questo rifiuto si estende fino al vero antagonista di Black Panther, Killmonger (Michael B. Jordan), la cui storia dà al film molto più spessore e lo avvicina a un contesto reale come nessun’altra produzione Marvel aveva fatto sinora. Troviamo il classico dramma famigliare padre-figlio, dove la morte improvvisa del genitore lascia un vuoto da colmare per un giovane che ancora non si sente pronto a camminare sulle proprie gambe come re, un intrigo patrilineare arricchito in questo caso da aspetti come il lignaggio, l’identità, la diaspora africana, il vecchio e il nuovo mondo. I conflitti in Black Panther sono più interiori che fisici, pur non mancando affatto di scene d’azione.

Tornando a Killmonger, Jordan lo infonde di un carisma tale che spesso viene da chiedersi su lui non fosse stato un Black Panther più efficace. Il magnetismo di Boseman è più lento e la sua esibizione più contenuta fisicamente, persino deliberata, sebbene non manchino momenti brillanti di coreografici combattimenti corpo a corpo. Jordan si cala alla perfezione nel proprio ruolo e dà maggiore profondità a tutte le azioni del personaggio, creando un legame tale con lo spettatore che alla fine si può persino arrivare a simpatizzare per lui e la sua causa – al contempo di connotazione personale e politica. Emerge di nuovo con prepotenza la questione di cosa si sia disposti a fare per proteggere una nazione. “Wakanda è per sempre” è il motto nazionale che non si limita a essere solo una semplice frase ma gode di numerose sfaccettature, frutto dell’interpretazione cui è soggetta da parte di ogni singolo personaggio. Troviamo dunque le Dora Milaje, la guardia personale del re, e nella fattispecie il loro generale Okoya (messa in scena da una strepitosa Danai Gurira, capace di rubare ogni volta la scena), che divisa fra il suo paese e la famiglia rimane coerente con il concetto che la guardia reale sia fedele al trono, indipendentemente da chi vi è seduto sopra. Per T’Chaka e W’Kabi, il suo migliore amico, significa proteggere il Wakanda con ogni mezzo necessario, una visione affine a quella di N’Jobu ma più volta alla segretezza come migliore difesa. Ancora, T’Challa crede nella fibra morale del suo paese, ne segue e rispetta le tradizioni ma al contempo cerca di rimediare agli errori dei suoi antenati.

Balck Panther offre alcuni degli spazi fantascientifici più singolari mai visti

Una mentalità controversa che prende vita in particolare grazie a Shuri, la giovane e brillante sorella di Black Panther, che sfida e vince la tradizione. Shuri è per T’Challa ciò che Q è per James Bond: un’intelligence senza pari, capace di sfruttare in tantissimi modi le potenzialità del vibranio e al contempo abbastanza coraggiosa da lasciare il suo laboratorio per gettarsi nel vivo dell’azione quando necessario. Una vera rivelazione grazie alla magistrale Letitia Wright, che emerge in ogni scena con il suo sorriso accattivante e una perfetta gestione dei tempi comici: da uno sfacciato dito medio alla fiducia con cui affronta il pericolo, Shuri è un modello cui ispirarsi, un personaggio intelligente, spensierato e non sessualizzato che buca letteralmente lo schermo. Lei però è solo l’inizio di un cast stellare, che trova nella componente femminile la sua massima espressione grazie anche alla già menzionata Danai Gurira nel ruolo di Okoya, Angela Bassett in quello della regina madre Ramonda (la cui regale caparbietà infonde una tranquilla sicurezza) e Lupita Nyong’o nei panni di Nakia – spia wakandiana in lotta contro il desiderio di aiutare chi soffre e l’amore per T’Challa. Non esiste nessuna sex symbol alla Vedova Nera in questo film, il ruolo delle donne è vitale per la sopravvivenza del Wakanda e dello stesso Black Panther: gli offrono sostegno materno, militare, fraterno e scientifico. Sono concrete, tangibili.

Black Panther potrà non avere le migliori scene d’azione o effetti visivi di molti altri film Marvel ma mette in scena un ottimo cast, dove la linea fra antagonista ed eroe è molto sottile grazie a motivazioni umane e comprensibili, e i comprimari godono di un forte peso nella narrazione. È un film che serve molto bene da apripista per Avengers: Infinity War, preferendo discostarsi dalla solita carrellata di scene d’azione per raccontarci una nazione e i personaggi che la vivono, offrirci un contesto che non solo funziona ma riesce a rimanere impresso, a essere assorbito dallo spettatore e fatto proprio, così da capirne i contrasti e le contraddizioni che lo animano. Visivamente ci offre paesaggi mozzafiato e una fotografia molto intensa, ai quali si accompagna un design dei costumi per i quali Ruth E. Carter da sola meriterebbe un Oscar: magistrale l’uso dei colori, che ricalcano una tavolozza distintamente africana. Wakanda è il sogno africano. Risparmiato dalla colonizzazione, è la nazione più tecnologicamente avanzata al mondo ma in grado di vivere in armonia con la natura. La scenografia di Hannah Beachler ha creato alcuni degli spazi fantascientifici più singolari mai visti: un’intera metropolitana attraversa un sistema di grotte sotterranee; la sala del trono è stata costruita su una montagna, mentre ciascuna finestra è posizionata in modo tale da non ostruire le linee visive naturali.

Una gradita ventata d’aria fresca nell’espanso universo Marvel, un film in grado di distinguersi

Black Panther è un film in grado di distinguersi nel filone Marvel. Coogler è riuscito a trasmettere un senso di anarchia nato dallo stesso desiderio – proteggere e salvaguardare il Wakanda – ma i cui metodi differiscono sensibilmente a seconda di chi li attua. Non è perfetto ma è un’interessante deriva, che grazie al design, alle incredibili performance di un cast stellare e a una colonna sonora d’eccezione compensa i suoi piccoli difetti.


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